Rivista Anarchica Online
La medicina di Pinocchio
di R. Brosio
Quello che è apparso chiaro fin dal principio è stata la pretestuosità della faccenda. Se
l'unico
scopo della Fiat fosse stato togliersi di torno 61 piantagrane assenteisti maneschi, non l'avrebbe
certamente fatto in modo tanto plateale, né così vaghe (eppure attentamente scelte) sarebbero
state le motivazioni dei licenziamenti, né ad essi sarebbe seguito il blocco ricattatorio delle
assunzioni. Al contrario, l'azienda torinese ha cercato in ogni modo di dare risalto al
provvedimento, contribuendo essa stessa a caricarlo di significati, come se fosse sue intenzione,
appunto, suscitare scandalo e discussioni. Però, se tutti hanno capito che dietro i licenziamenti c'è
una manovra della Fiat, assai meno univoca è l'interpretazione di tale manovra, anche perché le
parti in causa sono diverse e ciascuna tende a tirare l'acqua al suo mulino, spesso "cifrando" le
proprie dichiarazioni pubbliche. Alcuni settori del padronato industriale, ad esempio, sembrano
aver inteso l'iniziativa in chiave neo-vallettiana, come se la Fiat avesse voluto "aprire la strada"
ad altri licenziamenti (Olivetti, Alfa Romeo), più cospicui e diversamente motivati, ristabilendo
il diritto delle dirigenze aziendali a gestire liberamente la produzione, sulla base esclusiva delle
esigenze di ristrutturazione e di mercato, senza interferenze politiche o sindacali: l'azienda è mia
e me la gestisco io. Non è da escludere che un simile pensiero possa albergare anche nella testa di
Agnelli. È noto che almeno una parte della tecnocrazia dell'industria privata condiziona
l'efficacia del proprio intervento riorganizzatore, per riorganizzare la crisi economica come si
deve, all'abolizione di pastoie quali la necessità di salvaguardare il posto di lavoro ai dipendenti,
la scala mobile, ecc. ma, se questo è lo scopo ultimo anche della Fiat, perché scegliere, per
innescare il processo, una motivazione così "laterale", così "fuoritema", come il terrorismo e la
violenza in fabbrica? D'altra parte, il sindacato ha accusato l'azienda di voler mettere in
discussione le "conquiste dei lavoratori", cioè di voler indebolire il potere di decisione e di
controllo del sindacato stesso. Anche qui, è possibile che qualcosa di vero ci sia. Non si può
negare, infatti, che Lama e compagni si siano trovati tra le mani, da un giorno all'altro, qualcosa
di simile ad una patata bollente, un "caso" difficile da gestire senza danni, specie in un momento
come questo, di crisi di credibilità presso la base. E hanno dovuto fare i salti mortali per mostrare
di opporsi ai licenziamenti e, contemporaneamente, evitare di fare da ombrello alla contestazione
extrasindacale, al cosiddetto "nuovo dissenso operaio", interprete della conflittualità quotidiana
in fabbrica. Col rischio (ed è successo) di risultare troppo morbidi di fronte all'azienda e veder
diminuire ancor di più il proprio già intaccato carisma. Da tale punto di vista, sembra proprio che
la motivazione dei licenziamenti sia stata scelta a bella posta per mettere in difficoltà il
sindacato. Ma è credibile che la Fiat miri a questo? Che voglia spazzar via il sindacato dalla
fabbrica, o qualcosa del genere? È credibile che la dirigenza Fiat abbia perso la sua proverbiale
lungimiranza al punto da non vedere i rischi di una simile operazione, che sottrarrebbe ad ogni
controllo, ad ogni contenimento, ad ogni canalizzazione, i conflitti di lavoro, che potrebbero
evolversi in agitazioni selvagge ben più estese di quelle attuali? A nostro giudizio,
l'interpretazione più sensata è ancora quella che emerge dai discorsi e dalle prese di posizioni dei
licenziati, e più in generale della base operaia, che è certo, delle parti in causa, la meno
"qualificata" (perché oggetto, e non soggetto, dei giochi di potere) ma è anche la più attenta
(ovviamente) a cogliere gli aspetti che la colpiscono direttamente. "La Fiat vuole ristabilire
l'ordine e la disciplina in fabbrica" viene detto in altra parte della rivista. Quest'affermazione, pur
non risolvendo da sola tutti gli interrogativi, sembra un buon punto di partenza per capire il senso
generale dell'affaire. Non è un mistero, infatti, che la nostra azienda automobilistica soffra
cronicamente di una costosa sottoutilizzazione degli impianti e che ciò sia dovuto, in massima
parte, al generalizzarsi della disaffezione per il lavoro, che ha superato (o sta superando) i limiti
di tollerabilità per una società ormai ex-affluente, condizionata dalla crisi. Assenteismo, piccola
conflittualità individuale, rallentamento dei ritmi, oltre ai sabotaggi e ai furti, provoca ogni
giorno perdite di miliardi, mentre intorno a ciò prende corpo una concezione che di tali "forme di
lotta" si fa portabandiera. È chiaro dunque che l'esigenza di aumentare la produttività, per la Fiat
ma non solo per essa, passa inevitabilmente, prima ancora che per la ristrutturazione, per la
risoluzione di questa disaffezione, per il ritorno ad un'atmosfera di impegno, di rispetto per le
direttive dei capi, di lavoro duro e silenzioso, come nel buon tempo antico. Ma perché tale
ritorno possa realizzarsi, la Fiat, da sola, con la sua organizzazione repressiva, non basta. Ci
vuole l'aiuto del sindacato, con la sua capacità di mobilitazione, con la sua funzione,
modernamente intesa, di organizzatore e controllore della manodopera. Un sindacato "serio",
però, che faccia efficientemente il proprio lavoro senza dover rispondere continuamente del
proprio operato di fronte ad una base indisciplinata e critica. Un sindacato che comandi la base, e
non ne sia condizionato. Un sindacato che non debba perdere il proprio tempo ad arrampicarsi
sugli specchi della demagogia per far "digerire" ai suoi aderenti ogni decisione, ogni accordo,
ogni provvedimento. Qui sta il nocciolo della questione. Per poter essere accettato come interlocutore valido
delle
tecnocrazie industriali, per essere ammesso davvero, cioè, a cogestire la produzione, invece
che
limitarsi ad esercitare un controllo burocratico su di essa, il sindacato deve liberarsi, una volta
per tutte, dei residui della propria "anima operaia", che rappresentano un ostacolo
all'espletamento delle proprie moderne funzioni. Prima di tutto dunque, deve liberarsi di quelle
componenti "estremistiche" che, sia pure minoritarie, esistono al suo interno, soprattutto a livello
di base, e ne rallentano la marcia verso più congrue responsabilità di potere. Coi 61
licenziamenti per "terrorismo", Agnelli ha, un po' brutalmente, ricordato al sindacato
l'imprescindibilità di quest'opera di pulizia, ma, contemporaneamente, gliene ha offerto
l'occasione. Essa era certamente nelle intenzioni di Lama e compagni, da un pezzo, ma veniva
rimandata per il timore di perdere credito, di alienarsi eccessivamente le simpatie degli iscritti, e
fors'anche per un'ormai consolidata abitudine all'ambiguità. Adesso, però, il primo passo è
stato
fatto, il resto sarà molto più facile. Gli operai sono ormai stati divisi in buoni, che
accettano il
controllo del sindacato e da esso sono difesi, protetti, e cattivi, che hanno rifiutato di firmare il
famoso documento di condanna del terrorismo, e sono quindi emarginati, abbandonati alla
repressione del padrone e, probabilmente, della magistratura. D'ora in avanti, il sindacato avrà
assai meno bisogno di "cavalcare la tigre": potrà estromettere le minoranze più combattive e
fastidiose con la scusa del terrorismo, invece che accettarle al suo interno nella speranza di
renderle innocue. E potrà presentare l'intensificazione dello sfruttamento come ritorno alla
normalità produttiva, un episodio della lotta contro la violenza in fabbrica, e giustificando con
ciò il proprio collaborazionismo con l'azienda. Certo, l'operazione non è avvenuta senza
imbarazzo, senza disagio: il fallimento dello sciopero "ufficiale" contro i licenziamenti è lì a
dimostrare che a far la puttana si guadagna, ma si perde anche il rispetto della gente. Tutto
sommato, però, il calo di credibilità presso i lavoratori sarà compensato ampiamente dalla
crescita di credibilità presso la "controparte", cioè presso la Fiat: è facile capire che,
aumentando
il riconoscimento ufficiale del potere del sindacato, diminuiscono parallelamente le sue necessità
di consenso di base. In questa luce, i licenziamenti risultano ben diversi dalla "patata bollente" di
cui si diceva all'inizio. Sono, piuttosto, qualcosa di simile alla medicina di Pinocchio, amara, ma
benefica. Benefica per il sindacato, s'intende. In fondo alla strada imboccata dalla Fiat, quindi,
non c'è un sindacato esautorato e imbelle, ma un sindacato che con aumentato diritto siede al
desco dei potenti. C'è da chiedersi, a questo punto, cosa significhi tutto ciò, che prospettive offra
alle lotte operaie e alle loro possibilità di sviluppo. Il futuro è nel grembo di Giove, ma non si
presenta comunque roseo. Un calo della fiducia nel sindacato, abbiamo detto, è da mettere in
conto, e dunque anche una diminuzione del suo potere di condizionamento e manipolazione dei
lavoratori. Sarà sufficiente il "nuovo dissenso operaio", con la strategia basata sull'assenteismo e
il rifiuto del lavoro, a riempire il vuoto che Lama e gli altri si apprestano a lasciare? Sarà
sufficiente a trasformare la fannullonaggine svaccata, legittima ma passiva, in volontà attiva di
emancipazione, di trasformazione sociale? Sarà sufficiente a dare consapevolezza collettiva alle
piccole ribellioni individuali, alle astuzie dei singoli per sottrarsi alla fatica, a ricomporre i mille
episodi in cui va frantumandosi la lotta di classe in un progetto costruttivo di rivolta? Boh!
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