Rivista Anarchica Online
Autogestione e salute
di Stefania Orio ed Enzo Ferraro
Il primo gennaio di quest'anno ha preso avvio la realizzazione della tanto decantata riforma sanitaria, basata sul
"decentramento delle strutture sanitarie". A questo proposito particolarmente attuale e interessante ci sembra la
relazione che pubblichiamo in queste pagine e che avrebbe dovuto essere presentata e discussa alla conferenza
internazionale di studi sull'autogestione (Venezia, settembre 1979): ne sono autori Stefania Orio ed Enzo Ferraro,
ambedue conosciuti ai nostri lettori per aver ripetutamente collaborato ad "A". Enzo lavora come infermiere al
Policlinico di Milano; Stefania fino all'anno scorso ha lavorato in un servizio sanitario territoriale, ed è
attualmente - tra l'altro - responsabile dell'ambulatorio "Pinelli" di psicomotricità e di attività
psicoterapiche,
che ha sede presso il Centro sociale anarchico di via Torricelli 19 (quartiere Ticinese) a Milano.
Abbiamo tentato una rassegna di alcune esperienze, di proposte teorico-pratiche e di scritti teorici sulla
possibilità
di autogestire i servizi socio-sanitari. In questo lavoro ci è sembrato di notare che per "autogestione della
salute"
la gente intende cose molto diverse fra loro. L'equivoco più grosso è giocato sul termine "salute",
talora intesa
come sensazione soggettiva di benessere, talaltra come insieme di quelle condizioni fisico-psichiche che
permettono ad ogni individuo un completo inserimento nel proprio ambiente, talaltra infine come assenza di
malattia clinicamente diagnosticata.
Che cos'è la salute? Che cosa la malattia? Che cosa significa stare bene, ammalarsi, curare, guarire?
Sembrerebbe molto facile rispondere a tali domande, dal momento che riguardano l'uomo comune, tutti noi. In
realtà non è così. Un questionario-sondaggio da noi condotto ha dato, per trenta persone di
16-20 anni, risposte
molto diverse (vedi tabelle).
TAB.1 Che cosa significa per te salute? |
N |
% |
Non aver bisogno di dottore, di medicine |
5 |
16 |
Sentirsi in forma, non aver disturbi ne dolore |
10 |
33 |
Star bene, aver voglia di correre, di mangiare, di dormire, di lavorare, di fare
all'amore |
9 |
30 |
Cavarsela da se per le proprie necessità, non aver bisogno di nessuno |
4 |
13 |
Altre risposte |
2 |
8 |
|
30 |
100 |
TAB.2 Che cosa significa per te malattia? |
N |
% |
Avere certi sintomi (febbri, dolore) |
12 |
40 |
Avere alterazioni o malformazioni a certi organi (fegato, cuore, polmoni, ossa,
cervello...) |
15 |
50 |
Avvertire sensazioni di disagio, stanchezza, non voglia di fare |
3 |
10 |
|
30 |
100 |
TAB.3 Quale significato dai al termine curare? |
N |
% |
Dare medicine o rimedi medicamentosi, fare interventi chirurgici |
14 |
48 |
Ascoltare il malato, fare una diagnosi, consigliare modi di vita adeguati |
14 |
48 |
Assistere il malato, fare le cose che non può fare da solo |
1 |
2 |
Modificare l'ambiente per eliminare le cause di malattia |
1 |
2 |
|
30 |
100 |
TAB.4 Che cosa ti fa capire che sei passato da uno stato di salute a uno
stato di
malattia? |
N |
% |
Il fatto che mi "sento male" e non sono più in grado di fare la mia solita
vita |
5 |
16 |
La presenza di certi sintomi (dolori, febbri, vomito, piaghe ecc.) |
15 |
50 |
Il risultato di analisi cliniche |
6 |
21 |
Non so, non ci ho mai pensato |
4 |
13 |
|
30 |
100 |
Come si vede, alcuni ritengono di essere sani quando "non sentono" malattie da richiedere l'intervento medico,
altre quando sono efficienti, altre quando sono autosufficienti. Ci siamo chiesti se questo diverso modo di
concepire la salute è dovuto solo al caso oppure se è legato a fattori precisi ed individuabili, e di che
tipo. La
prima risposta che abbiamo potuto dare è che tra i fattori è senz'altro da escludere la cultura: sia
perché essa era
molto diversa fra le persone intervistate, sia perché le definizioni trovate sui libri più o meno
specializzati di uno
stesso paese sono altrettanto numerose e diverse tra loro quanto quelle rilevate da noi fra i giovani. Colpisce
inoltre il fatto che nei libri e negli articoli la malattia sia definita con estensione e facilità molto maggiore
che non
la salute.. Ad esempio un testo divulgativo, l'Enciclopedia Medica (1) chiarisce il concetto di malattia in ben tre
pagine di trattazione, firmate da un autore specifico, mentre sotto la voce "salute" offre solo un anonimo enunciato
di due righe: "lo stato di equilibrio dell'organismo determinato dall'efficienza di tutte le sue parti". G. Bert (2)
interpreta la laconicità della maggior parte degli autori sulla salute: "È molto difficile classificare
e catalogare le
caratteristiche proprie dei sani per astrarne la "salute" e quindi questa viene in genere considerata in negativo
come "assenza di malattia". Le definizioni in positivo sono spesso poco chiare, tanto generiche da non
significare nulla. L'Organizzazione
Mondiale della Sanità ad esempio afferma che la salute è "uno stato di pieno benessere fisico,
mentale e sociale".
Che cosa significa "pieno benessere"? Chi stabilisce che un individuo è in stato di benessere? Che
cos'è il
"benessere mentale"? Ignoranza è benessere mentale? Rispondere con un sì sembra un paradosso,
ma una risposta
negativa fa scaturire la domanda: "l'ignoranza è una malattia"? Che cosa si intende, infine, con
l'espressione "pieno benessere sociale"? Il vivere in una società senza ingiustizie
o il vivere allegramente nonostante le ingiustizie della propria società? Non è necessario dilungarci
oltre per far
comprendere alcuni punti di partenza sui quali costruiremo le nostre riflessioni: riteniamo di poter affermare: -
che esistono modi diversi di pensare la salute; - che tutti tali modi siano legati ad un concetto astratto di
"norma" o di "dover essere". Salute cioè sarebbe, come
concetto, il risultato di un lavoro di induzione (la sintesi dei fattori che fanno sì che una popolazione si senta
sana) oppure la deduzione da una teoria più generale, da un ideologia. Molti autori fanno osservare
che anche nel primo caso la definizione di salute sarebbe solo apparentemente
raggiunta per induzione: in realtà i motivi che inducono un individuo a sentirsi sano corrispondono a un
ideologia,
che è per lo più l'ideologia imposta dalla classe dominante. J. Polack (3) ad esempio dimostra
come nelle società tardo-capitalistiche l'immagine dominante di salute coincide
con quella di un adulto capace di lavoro, cioè capace di fornire alla società un numero di prodotti
superiore a
quelli da lui consumati. Secondo il Polack è conseguenza di questa immagine la "medicalizzazione" di
alcune età
improduttive, quali l'infanzia, la vecchiaia, quasi fossero malattie, e di atti naturali quali il partorire o il fare
all'amore.
L'analisi di J. Polack è uno dei molti modi di affrontare il rapporto salute-società: è
evidentemente sostenuta da
un'ideologia che fa riferimento al marxismo, utilizza i concetti "lavoro", "forza-lavoro", "produzione" e le categorie
"struttura", "sovrastruttura". L'analisi di altri scritti (4, 5, 6) mette in evidenza che la definizione di salute
è fatta sempre discendere da
un'ideologia o da una concezione filosofica sull'uomo, sulla vita, sulla morte. Spesso però, come accade ad
esempio nel lavoro di J. Hollingstead, tale ideologia non è chiaramente enunciata: rimane implicita. A volte
vi
sono premesse ideologiche enunciate, ma apparentemente indipendenti da "osservazioni tecnico-scientifiche" di
un testo: scavando sotto tali osservazioni non è difficile però ritrovare altre ideologie, che l'autore
non aveva
chiarito: ad esempio G. Jervis antepone correttamente, in un suo libro (7) la descrizione dell'ipotesi marxista da
cui parte, ma l'affermazione che egli fa a proposito del rischio di suicidio nei depressi è legata ad altre
ideologie,
non enunciate. Egli scrive: "Sì può rendere necessaria in tal caso la stretta sorveglianza fino alla
limitazione della
libertà personale". Quindi per l'autore vivere, anche se improduttivi e profondamente infelici, vale di
più che
interrompere, con la vita, la sofferenza; per l'autore la libertà è meno importante della vita; ma anche
il lavoro
è meno importante della vita. Non vogliamo qui discutere e forse nemmeno criticare queste scelte: solamente
ci
interessa sottolineare che esse non sono "obbligatorie" ne discendono "necessariamente" dall'ideologia dichiarata
dall'autore: sono scelte soggettive, valoriali, esterne ad un discorso puramente tecnico-scientifico sulla salute.
Qualcuno forse ci vorrà rimproverare questa lunga premessa, ricordandoci che i discorsi sulla
impossibile
neutralità della scienza sono vecchi e scontati: noi rispondiamo: non puoi molto, almeno per chi, trattando
di
medicina, si occupa di morte e di vita, ma sfugge, in nome della scienza, un discorso sulla morte e sulla vita che
non può essere "scientifico": deriva da esperienze più che da esperimenti. Ed è vero, ed
è scientifico, secondo noi,
assumere all'interno del discorso sulla salute esperienze, valori, ideologie: assumerle, e dichiararne l'assunzione,
anche se questo farà arricciare il naso ad alcuni eredi dell'epoca dei lumi o di quella delle conoscenze
positive.
I termini del problema
Noi abbiamo fatto discendere la nostra concezione di salute da una concezione generale dell'uomo: lo riteniamo
libero, non cioè un prodotto saltato fuori necessariamente da una serie di combinazioni oggettive: diamo
peso
all'eredità biologica e all'ambiente, ma riteniamo che in alcune scelte fondamentali, sia la decisione
soggettiva,
responsabile, quella che conta. Ed è attraverso scelte che hanno un elevato grado di libertà che
questo uomo
compie una serie di sforzi per mantenere un equilibrio ottimale fra le sue risorse (organiche, psichiche, spirituali
ecc.), l'ambiente che lo circonda, gli scopi che si prefigge. Accettata questa concezione, riteniamo che si dia salute
umana quando si presentano queste condizioni: - la presenza di una attività o di una serie di
attività finalizzate che possono essere compiute in piena autonomia
dall'organismo; - l'equilibrio delle risorse dell'organismo fra di loro ed in rapporto all'attività compiuta;
- un'interazione fra organismo e ambiente che sia significativa, equilibrata e tale da potenziare le risorse di
entrambi. Nascita, evoluzione, morte di un organismo in quanto tale ci sembrano momenti inevitabili della vita
e comunque
li postuliamo come tali. Salute è quindi anche l'accettazione di nascere, trasformarsi, morire. Partendo
da questi postulati, l'infanzia, la vecchiaia, la gravidanza non appaiono allora come stati da
medicalizzare, ma situazioni non particolarmente diverse da altre, e comunque tali da essere per lo più
vissute
senza aiuti medici se non in casi particolari. Analogamente il cosiddetto e handicappato (il cieco, il sordo, lo
spastico, il mongoloide...) è una persona sana, con risorse e bisogni differenziati rispetto alla media, ma in
linea
di massima non necessitante di particolari aiuti medici. Infine, in base a tali postulati, la salute non è
qualcosa
che può essere ceduto, dato, regalato, trasmesso e neppure "restituito" da qualcuno
a qualcun altro: è la scelta
libera e consapevole di utilizzare nel miglior modo possibile le proprie risorse, e quindi rimane costantemente
un patrimonio personale, anche se per certi aspetti consente una gestione collettiva dei suoi problemi. La salute
non può essere ceduta né acquistata: non è quindi, né può diventare, merce
di scambio. La monetizzazione della
salute a cui assistiamo negli ospedali, negli studi dei medici, nelle trattative sindacali laddove si richiedono
"indennità" di rischio o cose del genere sono dunque giganteschi bluff. Sì dà
malattia quando l'organismo, o perché si è preteso troppo da lui, o perché si è trovato
a fronteggiare un
ambiente eccessivamente ostile, mette in atto una serie di tentativi per ritrovare l'equilibrio perduto, ma non è
più
autosufficiente, ha bisogno di aiuto nel muoversi verso il fine che si è prefisso. Occorre un intervento
dall'esterno
sull'organismo e/o un intervento su quanto circonda l'organismo, interventi che l'uomo malato non è
più in grado
di compiere da solo: dovrebbe intervenire allora e soltanto allora l'assistenza medica. Sono atti di assistenza
medica tutti quegli interventi che consentono al malato di ritrovare un equilibrio personale e con l'ambiente:
tenerlo pulito, alimentarlo, dargli delle medicine, fargli cambiare ambiente, asportargli un tumore. Non solo tutte
queste cose sono allora utili, ma sono tutte utili allo stesso modo: è altrettanto importante pulire il culo di
una
persona immobilizzata dalla paralisi quanto fare un intervento chirurgico al suo cervello per asportare il trombo
responsabile della paralisi. Accettati questi presupposti, i termini del problema generale: "è
possibile autogestire la salute?" si possono allora
articolare secondo il seguente schema: a) occorre distinguere fra salute (stato di equilibrio), prevenzione
(accorgimenti per mantenere l'equilibrio),
assistenza medica (atti per indurre il ritorno dell'equilibrio); b) è tautologico parlare di autogestione
della salute: solo noi possiamo gestire noi stessi. Il problema è individuare
a quali condizioni, con quali modalità e con quali mezzi; c) chi sono i soggetti in grado di garantire
interventi sanitari di tipo preventivo e profilattico? d) è possibile, e a quali condizioni, una azione
collettiva di prevenzione? e) i malati possono autogestirsi l'assistenza medico-infermieristica? f) i
lavoratori dell'assistenza medico-infermieristica possono autogestirsi il proprio lavoro?
L'autogestione della propria salute
Comprendere noi stessi, comprendere e farsi "comprendere" dall'ambiente in cui viviamo è, in base ai
nostri
assunti, la condizione preliminare per essere sani. È impossibile vivere in buona armonia con chi non si
conosce
e non si ama: conoscere il nostro organismo e la nostra psiche è perciò necessario. Non parliamo
di una attenzione
ossessiva tesa a risparmiarci l'invecchiamento e la morte, a garantirci un'eterna giovinezza. Per quanto ne sappiamo
ora, la morte è la conclusione logica e necessaria della vita stessa; un passaggio inevitabile con cui
confrontarci,
così come ci confrontiamo con la gioventù e la vecchiaia. Conoscerci dunque non per sfuggire alla
morte, ma per
vivere bene, comprenderci non per "salvarsi" o per "preservarci", ma per "usarci" senza abusi, mettendo in atto
nei nostri confronti quel rispetto verso l'uomo che è alla base dell'etica libertaria. Come funziona
il nostro organismo? Quali solo i suoi rapporti con la psiche? Quali fattori ne determinano lo
stress? Come alimentarci, come vestirci, come abitare, come lavorare, come entrare in rapporto con le altre cose,
con le altre persone? Come portare avanti la gravidanza, come affrontare la morte? Sino ad oggi abbiamo
delegato la risposta a queste domande che ci riguardano da vicino, alle scienze mediche
e biologiche (ufficiali o alternative, occidentali o orientali che dir si voglia), al buonsenso ed alla tradizione
accettata acriticamente, alla psicologia e alla scienza dell'alimentazione, ai latifondisti ed ai laureati in agraria ed
ai re dei surgelati e della pasta integrale, a chimici, sarti, architetti, ingegneri, sociologi e preti, quasi fossimo
bambini incapaci di vivere che si affidano fiduciosi agli ordini, consigli, doni e rimproveri dei grandi adulti della
famiglia genitori nonni zii che vogliono tutti il nostro bene. Viviamo come capita e appena qualcosa non va
corriamo dal tecnico perché ci restituisca la salute svanita, ci "salvi" dalla morte. E per salvarci da morte
siamo
poi disposti a tutto: medici, stregoni, esorcisti tutti intorno a noi, per carità! Convinti che la salute è
merce da
acquistare, siamo disposti a ricomprarla a qualunque prezzo. Molte lotte di medicina democratica sostengono
proprio questo: vogliamo la salute distribuita gratis. Il fatto è che nessuno, sinora, è mai riuscito a
vendere o a
distribuire gratis salute: è l'organismo che si ammala, che guarisce, che si mantiene sano. Siamo noi.
Come fare dunque? Imparare tutto quello che sin qui abbiamo ignorato? Medicine ufficiali alternative,
tradizione
e scienza dell'alimentazione, chimica ed architettura, ecologia e psicologia? Forse, o forse non proprio tutto.
Hanno dimostrato ad esempio (4, 5) che nessuno di questi strumenti, da solo, è sufficiente per offrire
all'individuo
una adeguata conoscenza di se stesso, e che invece tutti sono profondamente compromessi con posizioni
ideologiche, spesso non messe in evidenza. Analizzando le varie lotte condotte negli ultimi anni per
l'autogestione della salute troviamo però solo risposte
parziali alla nostra domanda: "medicina democratica" ad esempio intende la salute come profilassi e terapia,
propone di intensificare gli interventi di medicina del lavoro e di raccogliere statistiche più precise sui danni
che
il capitalismo (industria, latifondo) arreca all'ambiente. Cose utili, certo, ma che non toccano la radice del
problema: se so che i lavoratori dell'ICMESA hanno più probabilità di altri di ammalarsi di cancro,
posso
impedire che altri si ammalino e muoiano per quella causa, ma il male è già in atto, i danni sono
già stati arrecati:
non si autogestisce la propria salute, si costruisce un piccolo argine al dilagare di una malattia a cui noi stessi
abbiamo aperto le porte, permettendo che una fabbrica così fosse costruita. E quel male è ormai in
circolazione:
possiamo circoscriverlo, non impedirlo: qualcosa nel mondo è inevitabilmente cambiato in peggio. I
Sindacati
Confederali italiani insieme ad organismi quali l'Udi, l'Arci-Uisp (Unione donne italiane, Associazione ricreativa,
Unione sportiva) hanno insistito molto su interventi di "prevenzione": consultori, medicina scolastica, ginnastica
correttiva, sport "poveri" e quindi accessibili a tutti. Cose utili, certo, ma nemmeno loro toccano il nocciolo della
questione: la visita medica nel consultorio materno infantile non si conclude che in due modi: "Va tutto bene,
signora, complimenti a lei e al bambino, tenetevi in forma e ci rivediamo fra sei mesi" oppure: "Deve fare un
raschiamento, signora. Il bambino ha una cifosi, signora, deve fare ginnastica e prendere tanta vitamina D". Nel
primo caso la visita è poco utile: offre solo consigli generici, né può fare altro. Nel secondo
certo serve, ma,
ancora una volta, interviene quando il danno è già fatto. Solo lo sport può avere una funzione
preventiva, peraltro
limitata (10, 11, 12). Diverse sono le esperienze di alcuni gruppi femministi e di certi movimenti di
antipsichiatria. Entrambi insistono
molto sull'opportunità che ciascuno si riappropri del suo corpo. Le femministe, attraverso esperienze di
piccolo
gruppo si comunicano esperienze, conoscenze, credenze e fantasie sul proprio corpo, fra di loro ci sono alcune
persone che conoscono anche le scienze "ufficiali" o "alternative", quindi questa discussione riesce ad integrare
molti dati, a dare una grossa padronanza-autocoscienza di sé. Purtroppo in molti casi l'interesse di queste
compagne si è soffermato (per motivi comprensibili) ad alcune specificità dell'organismo femminile,
ed ha fallito
il collegamento con quanto circonda il nostro corpo e vi si oppone. Gli antipsichiatri che hanno vissuto con il
folle le follie sono andati al di là delle femministe in questo senso, hanno esplorato dal di dentro, con
l'esperienza, i risvolti più oscuri del rapporto organismo-psiche-ambiente: purtroppo, per motivi più
che noti, si
sono limitati a farlo in quelle circostanze in cui tale rapporto era quasi-invivibile. Approfondire, integrare,
generalizzare le esperienze di questo tipo, tentarne altre in questa direzione ci sembra
una buona strada per giungere alla conoscenza di noi stessi, condizione ineliminabile per star bene, e quindi anche
per avere un buon rapporto con la realtà. Le lotte dei lavoratori della sanità o di alcune categorie
emarginate
perché ritenute "non sane" (minorati fisici e psichici, malati cronici, tossicodipendenti, alcoolisti ecc.)
rischiano
di diventare pura rivendicazione di un medico o di un sussidio in più, ma di non modificare nulla se non
partono
dalla premessa necessaria di questa conoscenza: infatti si lotta per la salute di un organismo che non si conosce:
non si sa allora ciò che si vuole. Condizione necessaria, ma non sufficiente.. Il sistema oppone
pesanti difficoltà a chi vuole gestire la propria
salute: - condizionamenti culturali; l'abitudine a pensare che ci si deve preoccupare della salute solo quando
si è malati,
che noi non siamo capaci di guardare da soli la nostra salute, abbiamo bisogno sempre e comunque di un esperto;
l'abitudine a considerare l'organismo come qualcosa di separato dalla psiche e dall'ambiente, e quindi a
disinteressarsi di questi ultimi due fattori; ecc. - ostacoli alla realizzazione di cose nuove: le difficoltà
delle femministe e degli antipsichiatri sono troppo note
perché sia necessario elencarle. E il loro intervento è solo parziale. Si pensi ad una persona che,
cosciente dei
suoi bisogni, decida: di mangiare solo alimenti privi di conservanti e coloranti, di alzarsi alle sette, ma di fare un
sonnellino dalle tre alle cinque del pomeriggio, di non prendere gli autobus che con le loro vibrazioni lo
danneggiano, di respirare aria pura, di fare due ore di riflessione nella quiete e nel silenzio, di giocare a lungo con
i propri figli. Pensate che questo individuo sia un manovale senza risparmi e che abiti a Milano: credete sia facile
o anche solo possibile per lui vivere così? - situazioni fortemente ansiogene dalle quali non si
può uscire a breve scadenza e che vengono fronteggiate con
mezzi inadeguati (fumo, alcool, stupefacenti); - situazioni di lotta in cui lo stress è inevitabile per il
tentativo di indurre un cambiamento. Siamo spesso costretti a vivere in situazioni così squilibranti ed
oppressive che l'unica alternativa al suicidio, alla
morte immediata, l'unica possibilità di sopravvivenza è la perdita parziale della salute. La
seconda condizione necessaria all'autogestione della salute è dunque la possibilità concreta di
modificare
l'ambiente che ci circonda, così da starci bene. Per far questo non basta conoscere, occorrono altre cose:
oggetti
da trasformare, spazi dove la trasformazione può avvenire, strumenti per realizzarla, volontà e
capacità per
attuarla. Un detenuto che sa la sua detenzione ingiusta e sogna la libertà non potrà mai essere sano
nella cella
di una prigione: potrà al massimo scegliere fra l'autodistruzione probabile della fuga e della rivolta o
l'autodistruzione rallentata di una cella resa il più abitabile possibile. Siamo così giunti
al limite oggettivo che pone l'autogestione individuale della salute: la necessità di sapere, potere,
volere trasformare ciò che ci circonda. Se è vero che talora cambiamenti significativi possono
avvenire anche
grazie a scelte ed interventi individuali (13) è però incontestabile che l'individuo non può
cambiare tutto, che un
uomo solo è spesso impotente di fronte ad un sistema oppressivo: ed è la rimozione di tale sistema
la condizione
ultima perché l'autogestione della salute sia realmente possibile: è semplice ed evidente che dove
non c'è libertà
non solo di opinione, ma di determinazione, nulla può veramente essere autogestito.
Osserviamo marginalmente che, se questo limite è molto più evidente e se i condizionamenti
sono molto più
pesanti per gli sfruttati, per quanto riguarda il tema salute limiti e condizionamenti non mancano nemmeno per
gli sfruttatori: Agnelli abita per la maggior parte dell'anno a Torino e ne gode l'inquinamento, il traffico e gli orari,
anche se ovviamente con una libertà molto maggiore di quella posseduta da un suo operaio. Se noi non
piangiamo
anche sulla sua salute è perché, a differenza di un operaio, che ha come unica scelta la ribellione,
il Sig. Agnelli
questi condizionamenti se li è voluti lui. È anche vero però che, se qualcuno tenta
di autogestire la propria salute e si ferma ai limiti che sistema pone di
fronte agli sforzi individuali, se non tenta altre vie, è altrettanto poco degno di compassione: rinunciare alla
vita
non è poi tanto rivoluzionario.
Soggetti e interventi di prevenzione
La maggior parte della gente è convinta che si debbano incaricare persone "adatte", tecnici, del lavoro
di
prevenzione. Stefania, che lavorava in un servizio territoriale, ha tenuto nel 1977/78 ben 11 gruppi di incontro
con genitori e lavoratori. Ogni gruppo prevedeva almeno una decina di incontri di due-tre ore l'uno, e ad ogni
gruppo partecipavano dalle 12 alle 20 persone. Circa 150 persone hanno così parlato a lungo fra loro della
salute
e della prevenzione, che era il tema centrale degli incontri. Nonostante gli stimoli che Stefania forniva, solo in
due gruppi, per un totale di tre volte, due persone enunciarono il principio che fare della prevenzione è
compito
di tutti, che se prevenire vuol dire impedire la degradazione dell'ambiente e garantire l'equilibrio fra l'ambiente
ed i soggetti che ci vivono, sono le persone che vivono in quell'ambiente i soggetti della prevenzione. Analizzando
gli enunciati dei membri dei gruppi, Stefania ha ritrovato cinque concezioni della prevenzione: 1) la
prevenzione è intesa come analisi precoce, "depistage" per impedire il dilagare di contagi o l'aggravarsi di
malattie agli inizi; 2) prevenzione è profilassi, cioè "depurazione" degli ambienti e
vaccinazione delle persone per aumentarne le
difese; 3) la prevenzione e indagine statistica per individuare ed eventualmente rimuovere le cause di malattie
in zone
che si sono rivelate patogene per un certo disturbo; 4) la prevenzione è antinfortunistica: di fronte ad
ogni trauma occorre localizzare le cause per impedire che
riproducano lo stesso tipo di incidente (a scuola, in casa, sul lavoro); 5) la prevenzione è
somministrazione tempestiva di farmaci o cibi capaci di prevenire certe malattie (esempio
tubercolosi, pellagra). Noi certo non neghiamo agli interventi individuati dai membri di questi gruppi una loro
validità. In base ai nostri
assunti però riteniamo che prevenzione sia qualcosa di più vasto e meno specialistico. Ancora una
volta, gli
interventi indicati si inseriscono in una situazione ormai deteriorata: potremo visitare ogni anno le donne di
Seveso, ma non preverremmo mai più il disastro che è accaduto e che ha segnato profondamente
i loro corpi. È vero che quanto ci viene offerto oggi in campo preventivo si riconduce più
o meno, ai cinque filoni
sopraindicati: insegnamento, centri vaccinogeni, consultori, organi territoriali (Consorzi Sanitari, S.I.M., SIMEE),
ambulatori, medicina scolastica, medicina del lavoro con centri specifici (SMAL), medicina dello sport,
dispensari, centri antinfortunistici, uffici sanitari comunali e provinciali. Tutti questi servizi, apparentemente
così
difformi fra loro, hanno caratteristiche comuni: a) sono luoghi separati di gestione della salute; b) sono
quasi esclusivamente gestiti da tecnici; c) hanno scarsi legami con gli organismi politici o, meglio, fatta
eccezione degli uffici sanitari, ricevono direttive
politiche, ma raramente partecipano a decisioni o stimolano interventi di base; d) sono scarsamente collegati
fra di loro; e) sono scollegati dai luoghi di assistenza e cura. Alcune di queste caratteristiche tendono
ad essere superate. Gli ultimi interventi legislativi (8, 9) sembrano infatti
tendere al rafforzamento dei legami con gli organismi politici e dei vari servizi sanitari fra di loro. Si tratta di
tendenze ancora contraddittorie, ma che a nostro avviso prevarranno nel lungo termine, in quanto rispondono a
quelle esigenze di maggior controllo e pianificazione che segnano il consolidarsi della tecnoburocrazia. Il
collegamento dei vari servizi sanitari fra loro non sarebbe in sè negativo, se non venisse messo al servizio
del
controllo della popolazione: e che sia questo lo scopo della riunificazione appare evidente dal fatto che gli attuali
pseudo-soggetti di prevenzione sono costituiti esclusivamente da tecnici, e che questa tendenza non è in
alcun
modo convertibile. Stefania ha tentato ripetutamente di far partecipare i lavoratori dei suoi gruppi alle riunioni
che i tecnici dei servizi
territoriali avevano con l'Amministrazione comunale: i lavoratori erano disponibili, l'Amministrazione no. Ci
sarà
un apparente cambiamento quando si istituiranno comitati per gestire questi servizi (la cosa sta già
accadendo per
i consultori materno-infantili): perché i comitati sono sotto il controllo di partiti e sindacati, quindi sono a
loro
volta manifestazione della tecno-burocrazia. È proprio il voler ridurre i servizi preventivi territoriali
a luoghi tecnici separati dove si gestisce la salute di tutti
che vanifica l'aspetto innovativo pur in essi presente, e li trasforma da possibili strumenti di autogestione collettiva
della salute in meccanismi che controllano la situazione sanitaria e diffondono l'ideologia della salute come merce
altro-da sé. Nel controllare la situazione sanitaria tali meccanismi operano in tre modi: - funzionano
come filtro impedendo libero accesso agli ospedali. Danno quindi respiro agli ospedali, organi
fatiscenti, e lasciano il tempo per la loro ristrutturazione; - razionano l'intervento sulle persone che più
clamorosamente potrebbero far scoppiare l'intollerabilità di un certo
modo di vivere (donne, bambini, minorati) dando loro contemporaneamente l'illusione di essere assistiti; -
accentrano l'attenzione della popolazione sulle cause soggettive dello stare bene o dello stare male e quindi
impediscono il collegamento del discorso salute-lavoro-territorio-famiglia-istituzioni, che metterebbe in luce la
radice politica di molto star male. In questo senso i servizi territoriali di prevenzione sono molto
pericolosi. I tecnici che vi lavorano, se non tentano
di usarne le contraddizioni per trasformarli da centri di controllo in luoghi di incontro e di parola per la
popolazione, sono gravemente corresponsabili di questa aberrazione sulla salute. È vero che, se aprono
discorsi
incontrano ben presto dei limiti, ma se non lo fanno, diventano nemici degli sfruttati. Gli sfruttati sono
i veri soggetti della prevenzione: che consiste in concreto nel pensare il proprio modo di
convivere, costruire, lavorare, studiare così che tutti ne restino avvantaggiati, l'ambiente non ne sia
degradato,
nessuno ne soffra. Premesse per una reale prevenzione sono dunque le possibilità diffuse di autogestione,
unite
ad una precisa conoscenza di ciò che si autogestisce: il piano delle abitazioni, l'edificare o non una nuova
fabbrica
in quel prato, vicino a quel ruscello, il lavorare o non secondo certi ritmi e così via. Queste, si
dirà, sono utopie: che cosa fare da subito? Molte cose: usare, si diceva, i servizi territoriali come luoghi
di parola e di incontro: analizzare la propria situazione di vita, individuare cose che debbono essere cambiate
subito, organizzarsi per cambiarle. I genitori che si incontravano con Stefania erano partiti da un problema
apparentemente marginale: l'irrequietezza dei loro bambini. Si accorsero subito che, dietro, c'era una troppo
prolungata permanenza alla scuola materna, e, dietro tale permanenza, gli orari di lavoro dei genitori, e, dietro,
interessi che non erano dei genitori. Subito si potevano cambiare gli orari di lavoro, subito si poteva cambiare
l'organizzazione della scuola materna. Ecco allora sorgere altri problemi: il poco spazio delle abitazioni,
l'isolamento di ogni nucleo familiare: il discorso avrebbe potuto continuare... se l'Amministrazione Comunale
l'avesse permesso. Si obietterà che, per fare della reale prevenzione, anche ammesso che fosse
possibile autogestire tutta la propria
vita, ogni persona deve avere una sua teoria sulla salute: è possibile? Di fatto ciascuno di noi pensa la salute
in
un certo modo che comprende emozioni, elementi appresi dalla tradizione, esperienze, riflessioni, letture,
pregiudizi. Tutto questo è mescolato, spesso senza sedimentarsi per i rapidi cambiamenti che sono
intervenuti
nella nostra vita negli ultimi anni. La discussione ed il confronto fra le varie teorie e l'uso dei servizi territoriali
come centri di informazione e documentazione consentirebbe a ciascuno di avere conoscenze comuni sulla salute,
e quindi di evitare da un lato la delega ai tecnici per quanto riguarda le decisioni in merito, e dall'altro decisioni
degradanti dovute all'ignoranza. Educazione sanitaria non più fatta scuola, ma parte viva di decisioni
politico-economiche vitali...
Assistenza medica e servizi territoriali di cura
Le conoscenze di cui si parlava indurrebbero profonde trasformazioni anche nella assistenza sanitaria.
Premettiamo che a nostro avviso il malato, proprio per la nostra definizione di malattia, non può autogestirsi
l'assistenza: infatti questa si rende necessaria solo al momento in cui il malato e tale, cioè incapace di
ritrovare
da solo il proprio equilibrio. Le persone in queste condizioni non sono poi molte: vengono moltiplicate
dall'assenza di prevenzione, dall'ignoranza nei confronti del proprio corpo, da una sempre più totale
disintegrazione della vita sociale, dalla paura di morire e dalla conseguente venerazione nei con fronti di tutto
quanto è "scienza medica". I luoghi e le modalità con cui viene prestata l'assistenza medica in Italia
favoriscono
una delega totale i medici, e la tendenza non sembra volersi invertire: salvo poche eccezioni (malati lievi o cronici)
che vengono curati a domicilio da persone non specializzate (di solito familiari) e rari servizi comunali di
assistenza domiciliare agli anziani, i luoghi di assistenza sono per eccellenza cliniche ed ospedali nelle loro forme
più svariate. Il piano sanitario nazionale per il 1980-82 prevede che un quinto della spesa per la
sanità venga
destinata alla costruzione di nuovi ospedali e un quinto alle spese di manutenzione straordinaria ospedaliera (14).
Abbiamo già dimostrato (15) il ruolo passivo che assume il malato in ospedale, le forti differenze di
classe che
si creano fra sfruttato e sfruttatore nel modo di essere curati. In questa situazione la necessaria dipendenza del
malato dall'istituzione si trasforma in un "farsi oggetto" che, se da un lato affonda le sue radici in fattori personali
(impreparazione, aspettative magiche, delega, fragilità dovuta allo stato di malattia, assenza o limitazione
di
possibilità reali di intervento, cioè relativa impotenza di fronte all'istituzione ospedaliera), dall'altra
è condizionato
ed enormemente rinforzato dall'organizzazione dell'ospedale: il personale ospedaliero accetta passivamente la
routine di lavoro, accetta di dipendere dal medico, sul quale scarica le responsabilità: i rari episodi di
ribellione
riguardano deboli e parziali difese di diritti propri, raramente di diritti del malato. Tenere quest'ultimo in stato
di dipendenza e di soggezione è molto comodo anche per il personale ospedaliero: un malato "ubbidiente"
da
meno lavoro, "farsi obbedire" compensa da molte frustrazioni. Il malato, separato dal suo ambiente, sconosciuto,
non può essere visto come persona: è un "coso" con una malattia: è lei, la malattia, questa
negatività, che
paradossalmente diviene il significante di tutto un reparto (cardiologia, traumatologia...) quando non addirittura
di tutto un ospedale (sanatori...). Così il personale non si occupa di quella persona in cui l'equilibrio si
è rotto
provocando disturbi al cuore, ma di un "cardiopatico", o addirittura di una "disturbo alle coronarie". Di fronte
al paziente, il personale mantiene atteggiamenti misteriosi che mascherano una sua fondamentale impreparazione,
una sua reale ignoranza. Questa stessa ignoranza, unita alla convinzione profonda, mascherata, della propria
incapacità, fa sì che la maggior parte del personale rifiuti ogni tentativo di teorizzare ciò
che impara
dall'esperienza, di capire ed individualizzare i problemi che ha sottomano. L'angoscia di rapporti che si prevedono
comunque necessariamente delimitati nel tempo fa sì che un rapporto personale venga accuratamente evitato.
La
non abitudine all'analisi impedisce la ricerca di un collegamento fra le esperienze in ospedale e quanto si osserva
fuori, nella propria vita: il malato è così percepito come "alieno", qualcosa che non riguarda il
personale
ospedaliero se non come oggetto di lavoro. Se il personale supera tutte queste condizioni, che sono quelle
abituali, entra in un conflitto spesso insostenibile
con la violenza segregante ed ottusa dell'istituzione ospedaliera: e se è solo per lo più soccombe
(cambia lavoro
o viene licenziato). In questa istituzioni domina il medico. I limiti oggettivi che l'istituzione pone ai singoli
medici sono ancora
avvertibili, quelli che pone alla categoria nel suo insieme sono praticamente nulli. Nonostante la presenza di
consigli di amministrazione e di direzioni sanitarie, vi è una quasi totale coincidenza fra istituzione e insieme
del
personale medico: quest'ultimo accetta un ruolo molto antipatico (diventa l'esorcista della morte, ma quindi anche
il responsabile della morte, il restitutore della salute, ma anche colui che- spesso in buona fede - attesta il falso,
e cioè che la salute può essere restituita o regalata da qualcuno a qualcun altro) in cambio di notevoli
privilegi
in prestigio e spesso anche in denaro. Egli ci tiene a mantenere l'istituzione così com'è, o a
"migliorarla" nel senso
di renderla più asettica, parcellizzata, alienata, separata: perché tanto più questo avviene,
tanto maggior prestigio
egli acquista. Non a caso, quando si è parlato di dipartimento e ancor più di servizi di cura
territoriali, le maggiori
resistenze si sono incontrate fra i medici: costituirsi in dipartimento significa confrontarsi, curare sul territorio
significa sporcare di morchia il bel camice immacolato: il medico non sarebbe più stregone, ma uomo come
gli
altri. D'altra parte la società deve in qualche modo rinnovare l'ospedale: così com'è
scoppia a causa dell'immagine che
gli si è data. Lo si è voluto far credere un luogo di assistenza e di cura: e ora la gente vuole esservi
assistite e
curata. Lo si è voluto far credere l'unico luogo dove gestire la malattia, ed ora la gente lo stipa. A lungo
questa
contraddizione è stata mascherata sulla pelle del personale di assistenza, sulla carità delle suore
ospedaliere, sulla
passività delle infermiere "angeli della notte". Ora le suore scompaiono o chiedono di fare otto ore, gli angeli
della
notte rivendicano meno orari più salario sventolando bandiere rosse. Accontentare le richieste della gente
e del
personale ospedaliero è una spesa impossibile per qualunque ente pubblico: di qui la scelta dei servizi
territoriali
di cura, altro filtro dopo i servizi cosidetti "preventivi". Per sopravvivere, ed il sistema ha bisogno della sua
sopravvivenza, l'ospedale deve trasformarsi: lo farà diventando
un luogo sempre più specializzato, ributtando fuori moltissimi pazienti (già stiamo assistendo al
rifiuto dei
lungodegenti, veramente bisognosi di assistenza, veramente malati), pazienti che non verranno curati nemmeno
sul territorio. I compagni che chiedono un miglioramento delle strutture ospedaliere nel senso di una migliore
efficienza, se lo aspettino: non tarderanno ad averla. Non credo che queste richieste siano sbagliate, dubito solo
che, isolate, possano trasformare in qualche modo la situazione. Una richiesta davvero rivoluzionaria sarebbe
quella di autogestire l'assistenza medica (esterna ed interna all'ospedale) con un uso molto limitato dei medici e
con il controllo costante dei pazienti e dei loro familiari: autogestione che non significa decidere da soli i turni
o le fiere, o ripartirsi i lavori della routine, ma cancellare la routine, concordare con i pazienti il tipo di assistenza
di cui ogni malato ha bisogno. Questo però a nostro avviso è scarsamente possibile: mancano al
personale le
conoscenze, il coraggio, la voglia di farsi il culo e la forza di scontrarsi con le "autorità". Se anche tuttavia
queste
cose ci fossero, manca per il momento un diffuso concetto di salute: i poveri cristi che si mettessero a fare questo
tipo di lotte si troverebbero così di fronte l'ostilità della maggior parte delle persone, che vorrebbe
medici e
macchinari al suo capezzale. Allora, da che parte incominciare?
NOTE
(1) Enciclopedia medica di tutti, De Agostini, 1977.
(2) Bert, G.: Il medico immaginario, Feltrinelli, Milano, 1974.
(3) Polack, J.C.: La medicina del capitale, Feltrinelli, Milano, 1972.
(4) Foucault, M.: Nascita della Clinica, Einaudi, Torino 1969.
(5) Ilich, I.: Nemesi medica, Mondadori, Milano, 1977.
(6) Hollingstead, A.B.; Redlich, F.C.: Classi sociali e malattie mentali, Einaudi, Torino,
1965.
(7) Jervis, G.: Manuale critico di psichiatria, Einaudi, 1977.
(8) D.P. 11/2/1961, n.264: disciplina dei servizi e degli organi che esercitano la loro attività nel
campo
dell'igiene e della sanità pubblica.
(9) Legge 29/7/1975, n.405: Istituzione dei consultori familiari.
(10) Barbano, F.: Sanità, salute e servizi sociali, Stampatori Università,
Torino, 1977.
(11) Oddone, I.: Medicina preventiva e partecipazione, Editrice Sindacale italiana, Roma,
1975.
(12) AA.VV.: I diritti del malato, Feltrinelli, Milano, 1975.
(13) Stame, N.; Pissarri, F.: I proletari e la salute, Savelli, Roma, 1977.
(14) Il piano sanitario nazionale in "Quale salute", F. Angeli, Milano 2, 1979.
(15) Ferraro, E.; Orio, S.: intervento al convegno internazionale di studi su "I nuovi padroni", Venezia;
1977,
ora pubblicato in AA.VV., I nuovi padroni, Antistato, Milano, 1978.
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