Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 82
aprile 1980


Rivista Anarchica Online

L'"autogestione" del sindacato
di Luciano Lanza

Bruno Trentin, segretario generale della CGIL, strabuzza gli occhi e guarda con apprensione il suo compagno di partito Pietro Ingrao. Con malcelato dispetto, Trentin si nasconde dietro la copia dell'Unità e la chiude solo quando l'oratore conclude il suo intervento. Trentin se le sarebbe aspettate tutte, meno che un anarchico si permettesse di definirlo un "nuovo padrone", lui e tutti i suoi compagni dirigenti sindacali. E poi non su una piazza, dopo uno dei tanti comizi sindacali movimentati da grida di "venduti!" da parte della base, ma nel corso di un convegno dall'austero titolo ("Crisi politica, iniziativa sindacale e prospettiva dell'autogestione") organizzato a Perugia il 10-11 marzo da Franco Crespi dell'Istituto di studi sociali della locale università.

A indispettire Trentin è stato l'intervento del compagno Luciano Lanza, membro del nostro collettivo redazionale, invitato dagli organizzatori del convegno quale membro del Centro studi libertari "Pinelli" - oltre a numerosi studiosi italiani dell'area socialista e comunista (Menapace, Labor, Pellicani, Prandstraller, Ingrao, Trentin, Crespi, ecc.). Pubblichiamo in queste pagine ampi stralci dell'intervento del compagno.

Ma prima, una domanda a Luciano: non hai avuto dubbi nell'accettare l'invito per Perugia? In effetti, l'invito mi aveva lasciato un po' perplesso: quale senso poteva avere per noi discutere di autogestione in quell'ambito? È prevalsa poi la considerazione che proponendo la nostra visione dell'autogestione mettevamo nella giusta luce quella forma degradata che si risolve in una ideologia della partecipazione, cioè in un nuovo tipo di sfruttamento. Soprattutto ho ritenuto utile intervenire perché gli interlocutori erano soprattutto gli studenti dell'università di Perugia, ai quali si dava in questo modo la possibilità di confrontare direttamente la nostra cultura alternativa con i soliti fumosi discorsi dei detentori del potere.

"Tra mezzi e fini corrono rapporti di causa-effetto e la scelta dei fini condiziona necessariamente quella dei mezzi così come l'impiego di determinati mezzi porta necessariamente a determinati risultati, qualunque sia la volontà di chi impiega il mezzo. È dunque idealistico o mistificante affermare che il fine giustifica i mezzi. Al contrario, semmai, sono i mezzi che giustificano il fine, dal momento che già lo contengono in sé, seppure parzialmente". (1)
Questa premessa, che informa tutto il mio intervento, trova la sua giustificazione nell'assunto di questo convegno e cioè se il sindacato possa essere elemento di trasformazione in senso autogestionario della società italiana. Esaminiamo i due elementi: autogestione e sindacato.
Si può definire l'autogestione un metodo organizzativo funzionale all'autodeterminazione individuale e collettiva. Un metodo che, qualora ne vengano accettati tutti i presupposti e le implicazioni insite nella correlazione mezzi-fini, porta a configurare un sistema di "autogestione generalizzata". Quindi l'autogestione non è solo un modo di organizzarsi che nega l'organizzazione capitalistica, ma è soprattutto una pratica di destrutturazione permanente del potere, qualunque sia la connotazione da esso assunta. Il sindacato moderno si pone come organizzazione anticapitalista, ma si articola in una serie di livelli decisionali che, nei fatti, ripropone la stessa dicotomia dirigenti/diretti che ritroviamo nel rapporto di produzione e, più in generale, nella struttura sociale.
A questo punto sorge un primo quesito: come può un'organizzazione strutturata verticalmente e gerarchicamente portare a forme organizzative orizzontali e di autogoverno? Se la natura gerarchica della struttura sindacale non necessita di approfondite analisi perché ovvia e di immediata visualizzazione (anche perché la pur accentuata mobilità verticale non ne modifica l'aspetto complessivo), più complesso è definirne il ruolo sociale. Innanzitutto è opportuno delineare, anche se sommariamente, il contesto nel quale il sindacato si trova ad agire.
L'Italia degli anni ottanta vede accrescere sempre più il ruolo di una nuova classe dirigente: la tecnoburocrazia. Il fenomeno, già analizzato e studiato da diversi autori, credo non meriti un'ampia trattazione. Qui ritengo sufficiente richiamare i caratteri distintivi: la tecnoburocrazia si definisce in quelle attività della sfera del lavoro intellettuale corrispondenti alle funzioni direttive nella divisione gerarchica del lavoro sociale, in società in cui la complessità sia del processo produttivo e distributivo, sia più in generale di tutto il meccanismo sociale fortemente centralizzato, raggiunge alti livelli. Questa complessità richiede per la sua direzione competenze tecniche (in senso lato) che danno specifica connotazione al gruppo sociale dominante. Questo gruppo deriva il suo potere, i suoi privilegi, le sue prerogative di classe da una sorta di proprietà intellettuale delle conoscenze inerenti alla direzione dei grandi aggregati economici e politici. (2)
Nel caso italiano questo gruppo sociale presenta caratteri meno distinti ed il suo rapporto di sfruttamento specifico è intrecciato con il rapporto di sfruttamento capitalistico; cionondimeno esso è portatore di una nuova forma di sfruttamento che per realizzarsi compiutamente si pone in posizione conflittuale con quella capitalistica. Se osserviamo in quest'ottica lo sviluppo dimensionale degli oligopoli, l'intervento delle società multinazionali e l'espansione delle imprese pubbliche, dobbiamo convenire che questi fattori hanno modificato non solo quantitativamente, ma soprattutto qualitativamente il contesto socio-economico. Ed è in questo contesto che il sindacato sviluppa la sua azione anticapitalista per la difesa degli interessi della classe operaia. Ma la conflittualità che esso esprime si pone per intero (proprio perché solo anticapitalista) nella dinamica dello sfruttamento tecnoburocratico. Anzi la sua azione è elemento di accelerazione del processo proprio nel momento in cui mette in crisi situazioni di sfruttamento arretrato. Con questo non voglio certo farmi paladino del "tanto peggio tanto meglio". Tutt'altro. Voglio solo evidenziare come la lotta contro lo sfruttamento economico si riveli incompleta e fuorviante se contemporaneamente non si mette in discussione la struttura del potere.
A questo proposito è opportuno considerare la lotta per il potere sindacale nella fabbrica e nelle scelte della programmazione. Anche in questo caso non viene messa in discussione la struttura del potere, ma attraverso le lotte della classe operaia si va ad inserire nel processo decisionale un nuovo elemento: la dirigenza sindacale. La conflittualità operaia diviene quindi elemento di ascesa sociale dei dirigenti sindacali. Essi in questo modo assumono una maggiore rilevanza socio-politica, ma così operando esercitano all'interno delle strutture sociali una funzione che non ha più nessuna attinenza con quella svolta dai loro mandanti. Poco importa a questo punto la provenienza sociale, se quello che determina una classe è la funzione svolta, i dirigenti sindacali vengono ad assumere le connotazioni di una categoria sociale particolare che trae la sua legittimazione dalla capacità di gestire la conflittualità operaia e di inserirla nelle compatibilità del sistema come variabile prevedibile del processo produttivo. Si delinea a questo punto un parallelo tra tecnocrazia aziendale e dirigenza sindacale. Mentre la tecnocrazia controlla e gestisce i sistemi di produzione, la dirigenza sindacale controlla e gestisce la forza-lavoro. Congiuntamente queste due categorie gestiscono, in modo conflittuale, il processo produttivo. Siamo quindi in presenza di una nuova classe detentrice di potere, ma di un potere particolare che si giustifica, in larga misura anche se non completamente, con il consenso ottenuto dalla base. Questo consenso, che si nutre del conflitto sociale che oppone antagonisticamente i possessori del potere a coloro che ne sono privati, per perpetuarsi, senza incidere radicalmente sulla struttura del potere, induce il sindacato a sviluppare un conflitto che non è null'altro che una rappresentazione simbolica del vero conflitto di classe.
Non siamo forse di fronte ad una contraddizione insanabile? Come può una struttura di potere portare all'autogestione? Come è possibile chiedere di rinunciare volontariamente al potere ad una categoria sociale che ne esercita una porzione rilevante? Non è quindi ozioso chiedersi come e possibile che un organismo organizzato sui principi dell'eterogestione possa portare all'autogestione? Avendo il movimento sindacale al suo vertice una classe detentrice di potere, ogni proposta autogestionaria si trasforma in cogestione asimmetrica tra dirigenti diretti. Solo inserendo in questo meccanismo elementi di negazione della sua stessa conformazione è forse possibile ipotizzare una suo contributo al processo autogestionario. Ma qui siamo nel campo del fantastico.
Dal tipo di critica che ho rivolto al sindacato dovrebbe risultare abbastanza chiaramente l'ottica nella quale mi pongo: considero l'autogestione significativa per la trasformazione sociale solo se questa diviene generalizzata e se questa realizza coerentemente le premesse costitutive del concetto stesso. In questo caso è evidente che l'autogestione come processo di autorealizzazione individuale e collettiva è perseguibile solo attraverso l'autogestione. L'autogestione non viene data, ma conquistata giorno dopo giorno in un susseguirsi continuo di momenti autonomi e autoeducativi. L'importante è che ogni esperienza autogestionaria, anche parziale, contenga in sé il progetto globale di società. Solo così il suo carattere esemplare non è recuperabile dal sistema gerarchico. È inoltre mia convinzione che solo in periodo di accelerata trasformazione e al di fuori della collaborazione tra le classi l'autogestione acquisti quella dinamica dirompente che distrugge le basi della società gerarchica. Questo vuol dire che, per realizzarsi compiutamente, l'autogestione deve abolire lo stato perché esso è la codificazione istituzionale del potere.
Il problema del potere si pone anche in una società autogestionaria, però la sua rilevanza risulta attenuata se non trova una struttura sociale che lo codifica e che lo riproduce. Lo stato, sia esso borghese, proletario o, paradossalmente, autogestionario, contiene in sé una dinamica autonoma di riproduzione del potere su cui scarsa influenza ha l'aggettivazione. Esso, infatti, si pone come principio strutturale di tutta la realtà sociale: momento supremo dell'eterogestione. Quindi credo che il processo di socializzazione del potere debba, per negarsi, intraprendere percorsi che contemplino come premessa necessaria e imprescindibile la distruzione dello stato. Solo se viene rispettata questa condizione, l'integrazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra funzioni direttive e funzioni esecutive assume un senso compiuto e non mistificato. Quale valore avrebbe questa integrazione se attuata solo a livelli inferiori, mentre il processo decisionale a carattere generale risiede in una istanza superiore che occupa, restringe gli altri ambiti di decisione includendoli in variabili già predisposte? Quale valore avrebbe la proprietà sociale dei mezzi di produzione se uno dei suoi attributi qualificanti: l'autodeterminazione della produzione, è già all'interno delle decisioni prese dall'istanza superiore?
Allora per uscire da questa contraddizione insolubile, già a livello progettuale dobbiamo rompere quella rappresentazione ideologica della società che contiene lo stato. Per fare questo dobbiamo "entrare nell'utopia", se per utopia intendiamo l'immaginario sociale che determina la nostra azione qui e subito. Così operando possiamo pensare ad una struttura sociale ed economica in grado di coordinarsi attraverso una organizzazione federativa che si articola su un piano orizzontale formando una rete di collegamenti, senza istanze superiori, dove cioè il potere rimane una funzione collettiva. La base di questa funzione collettiva è la democrazia diretta, cioè quel processo decisionale nel quale tutti intervengono attivamente alla formazione della volontà generale. Democrazia diretta non vuole dire regima assembleare. È evidente che al di fuori degli ambiti ristretti è necessaria una mediazione per il coordinamento tra le diverse unità: la delega. Me se questa delega riveste il carattere del mandato specifico sempre revocabile e se, soprattutto, non diventa un ruolo sociale fisso, ma ruota il più possibile tra tutti i membri della comunità (secondo modalità stabilite dalla comunità stessa) abbiamo privato questo luogo potenziale di potere della possibilità di divenire struttura sociale di potere. Il momento di coordinamento assume un aspetto contrattualistico, cioè il libero accordo tra eguali sostituisce le direttive dell'istanza superiore, il tutto in una visione di equilibrio dinamico sempre modificabile.
È evidente che si rendono possibili situazioni di conflitto, certo non è più il conflitto di classe (tra chi ha e chi non ha, tra chi sa e chi non sa) ma esso assume una dimensione nuova determinata dalla diversità naturale. L'accordo, allora, diventa il momento di conoscenza delle differenze e realizza la loro possibile mediazione oppure la loro esaltazione che si traduce nell'adottare più soluzioni. In questo modo il conflitto può esprimere la sua potenzialità diversificante e in ciò risiede uno degli aspetti pluralistici della società. La soluzione di sintesi risulterebbe armonica solo in un ambito che tende, di fatto, a rapporti socio-economici totalizzanti. Un nuovo totalitarismo che pretende ricomporre i contrasti in una ecumenicità soffocante. Anche in campo economico la soluzione di sintesi tra mercato e pianificazione è per me improponibile perché non elimina le caratteristiche negative dei due sistemi. La soluzione di sintesi tende, per sua logica, a negare la possibilità di soluzioni diversificate, mentre a un pluralismo sociale necessita, per la sua effettiva realizzazione, un pluralismo economico. La stessa articolazione del pensiero anarchico in individualismo, collettivismo e comunismo, va vista come espressione di tre diverse esigenze non solo sociali, ma anche economiche. Partendo da questa constatazione io credo che l'individualismo, il collettivismo e il comunismo siano la manifestazione di differenti bisogni, ai quali debbano corrispondere differenti regimi economici.
È possibile, a questo punto ipotizzare, in via del tutto esemplificativa e puramente indicativa, la coesistenza di settori economici diversi, ognuno autonomo, ma nel contempo collegato agli altri in modo che gli effetti positivi abbiano piena possibilità di esprimersi e gli effetti negativi siano contemperati e al limite annullati dagli altri settori economici e così via vicendevolmente. Così possiamo pensare accanto ad un settore economico comunista in cui i membri della comunità realizzano, attraverso la loro attività gratuitamente prestata, tutti quei servizi e quei beni a carattere collettivo di cui la comunità stessa stabilisce di dotarsi, un settore collettivista che assicurando i servizi e i beni individuali di base ai membri della comunità, veda questo compito realizzato da aziende autogestite in concorrenza fra loro e i cui servizi siano remunerati non dal singolo usufruitore ma dalla comunità nel suo complesso. Infine nel settore individualistico aziende e consumatori svilupperebbero i loro rapporti secondo meccanismi determinati dalla domanda e dall'offerta. È evidente che i settori economici esaminati non risolvono tutta la gamma delle possibilità, anzi vanno visti come una esemplificazione di un progetto pluralistico che può realizzarsi in una molteplicità di settori.
Ma le mie ipotesi acquistano un senso solo se viene abolito lo stato, perché se l'autogestione è realizzabile solo in presenza della forma-stato allora non è possibile l'autogestione generalizzata: in presenza di questo elemento che la nega strutturalmente l'autogestione si risolve in una nuova versione mistificata dell'eterogestione.

(1) cfr. G.A.F., Un programma anarchico, Edizioni del C.D.A., Torino 1978, pagg. 40.
(2) cfr. A. Bertolo, Per una definizione dei nuovi padroni, in AA.VV., I nuovi padroni, Edizioni Antistato, Milano 1978, pagg. 41.