Rivista Anarchica Online
L'"autogestione" del sindacato
di Luciano Lanza
Bruno Trentin, segretario generale della CGIL, strabuzza gli occhi e guarda con apprensione il suo
compagno di partito Pietro Ingrao. Con malcelato dispetto, Trentin si nasconde dietro la copia
dell'Unità e la chiude solo quando l'oratore conclude il suo intervento. Trentin se le sarebbe aspettate
tutte, meno che un anarchico si permettesse di definirlo un "nuovo padrone", lui e tutti i suoi compagni
dirigenti sindacali. E poi non su una piazza, dopo uno dei tanti comizi sindacali movimentati da grida
di "venduti!" da parte della base, ma nel corso di un convegno dall'austero titolo ("Crisi politica,
iniziativa sindacale e prospettiva dell'autogestione") organizzato a Perugia il 10-11 marzo da Franco
Crespi dell'Istituto di studi sociali della locale università.
A indispettire Trentin è stato l'intervento del compagno Luciano Lanza, membro del nostro
collettivo
redazionale, invitato dagli organizzatori del convegno quale membro del Centro studi libertari "Pinelli"
- oltre a numerosi studiosi italiani dell'area socialista e comunista (Menapace, Labor, Pellicani,
Prandstraller, Ingrao, Trentin, Crespi, ecc.). Pubblichiamo in queste pagine ampi stralci
dell'intervento del compagno.
Ma prima, una domanda a Luciano: non hai avuto dubbi nell'accettare l'invito per Perugia? In
effetti,
l'invito mi aveva lasciato un po' perplesso: quale senso poteva avere per noi discutere di autogestione
in quell'ambito? È prevalsa poi la considerazione che proponendo la nostra visione dell'autogestione
mettevamo nella giusta luce quella forma degradata che si risolve in una ideologia della partecipazione,
cioè in un nuovo tipo di sfruttamento. Soprattutto ho ritenuto utile intervenire perché gli interlocutori
erano soprattutto gli studenti dell'università di Perugia, ai quali si dava in questo modo la possibilità
di confrontare direttamente la nostra cultura alternativa con i soliti fumosi discorsi dei detentori del
potere.
"Tra mezzi e fini corrono rapporti di causa-effetto e la scelta dei fini condiziona necessariamente
quella dei mezzi così come l'impiego di determinati mezzi porta necessariamente a determinati risultati,
qualunque sia la volontà di chi impiega il mezzo. È dunque idealistico o mistificante affermare che
il
fine giustifica i mezzi. Al contrario, semmai, sono i mezzi che giustificano il fine, dal momento che
già
lo contengono in sé, seppure parzialmente". (1) Questa premessa, che informa tutto il mio
intervento, trova la sua giustificazione nell'assunto di questo
convegno e cioè se il sindacato possa essere elemento di trasformazione in senso autogestionario della
società italiana. Esaminiamo i due elementi: autogestione e sindacato. Si può definire
l'autogestione un metodo organizzativo funzionale all'autodeterminazione individuale
e collettiva. Un metodo che, qualora ne vengano accettati tutti i presupposti e le implicazioni insite nella
correlazione mezzi-fini, porta a configurare un sistema di "autogestione generalizzata". Quindi
l'autogestione non è solo un modo di organizzarsi che nega l'organizzazione capitalistica, ma è
soprattutto una pratica di destrutturazione permanente del potere, qualunque sia la connotazione da esso
assunta. Il sindacato moderno si pone come organizzazione anticapitalista, ma si articola in una serie
di livelli decisionali che, nei fatti, ripropone la stessa dicotomia dirigenti/diretti che ritroviamo nel
rapporto di produzione e, più in generale, nella struttura sociale. A questo punto sorge un primo quesito:
come può un'organizzazione strutturata verticalmente e
gerarchicamente portare a forme organizzative orizzontali e di autogoverno? Se la natura gerarchica
della struttura sindacale non necessita di approfondite analisi perché ovvia e di immediata
visualizzazione (anche perché la pur accentuata mobilità verticale non ne modifica l'aspetto
complessivo), più complesso è definirne il ruolo sociale. Innanzitutto è opportuno delineare,
anche se
sommariamente, il contesto nel quale il sindacato si trova ad agire. L'Italia degli anni ottanta vede accrescere
sempre più il ruolo di una nuova classe dirigente: la
tecnoburocrazia. Il fenomeno, già analizzato e studiato da diversi autori, credo non meriti un'ampia
trattazione. Qui ritengo sufficiente richiamare i caratteri distintivi: la tecnoburocrazia si definisce in
quelle attività della sfera del lavoro intellettuale corrispondenti alle funzioni direttive nella divisione
gerarchica del lavoro sociale, in società in cui la complessità sia del processo produttivo e
distributivo,
sia più in generale di tutto il meccanismo sociale fortemente centralizzato, raggiunge alti livelli. Questa
complessità richiede per la sua direzione competenze tecniche (in senso lato) che danno specifica
connotazione al gruppo sociale dominante. Questo gruppo deriva il suo potere, i suoi privilegi, le sue
prerogative di classe da una sorta di proprietà intellettuale delle conoscenze inerenti alla direzione dei
grandi aggregati economici e politici. (2) Nel caso italiano questo gruppo sociale presenta caratteri meno
distinti ed il suo rapporto di
sfruttamento specifico è intrecciato con il rapporto di sfruttamento capitalistico; cionondimeno esso
è
portatore di una nuova forma di sfruttamento che per realizzarsi compiutamente si pone in posizione
conflittuale con quella capitalistica. Se osserviamo in quest'ottica lo sviluppo dimensionale degli
oligopoli, l'intervento delle società multinazionali e l'espansione delle imprese pubbliche, dobbiamo
convenire che questi fattori hanno modificato non solo quantitativamente, ma soprattutto
qualitativamente il contesto socio-economico. Ed è in questo contesto che il sindacato sviluppa la sua
azione anticapitalista per la difesa degli interessi della classe operaia. Ma la conflittualità che esso
esprime si pone per intero (proprio perché solo anticapitalista) nella dinamica dello sfruttamento
tecnoburocratico. Anzi la sua azione è elemento di accelerazione del processo proprio nel momento in
cui mette in crisi situazioni di sfruttamento arretrato. Con questo non voglio certo farmi paladino del
"tanto peggio tanto meglio". Tutt'altro. Voglio solo evidenziare come la lotta contro lo sfruttamento
economico si riveli incompleta e fuorviante se contemporaneamente non si mette in discussione la
struttura del potere. A questo proposito è opportuno considerare la lotta per il potere sindacale nella
fabbrica e nelle scelte
della programmazione. Anche in questo caso non viene messa in discussione la struttura del potere, ma
attraverso le lotte della classe operaia si va ad inserire nel processo decisionale un nuovo elemento: la
dirigenza sindacale. La conflittualità operaia diviene quindi elemento di ascesa sociale dei dirigenti
sindacali. Essi in questo modo assumono una maggiore rilevanza socio-politica, ma così operando
esercitano all'interno delle strutture sociali una funzione che non ha più nessuna attinenza con quella
svolta dai loro mandanti. Poco importa a questo punto la provenienza sociale, se quello che determina
una classe è la funzione svolta, i dirigenti sindacali vengono ad assumere le connotazioni di una
categoria sociale particolare che trae la sua legittimazione dalla capacità di gestire la conflittualità
operaia e di inserirla nelle compatibilità del sistema come variabile prevedibile del processo produttivo.
Si delinea a questo punto un parallelo tra tecnocrazia aziendale e dirigenza sindacale. Mentre la
tecnocrazia controlla e gestisce i sistemi di produzione, la dirigenza sindacale controlla e gestisce la
forza-lavoro. Congiuntamente queste due categorie gestiscono, in modo conflittuale, il processo
produttivo. Siamo quindi in presenza di una nuova classe detentrice di potere, ma di un potere
particolare che si giustifica, in larga misura anche se non completamente, con il consenso ottenuto dalla
base. Questo consenso, che si nutre del conflitto sociale che oppone antagonisticamente i possessori del
potere a coloro che ne sono privati, per perpetuarsi, senza incidere radicalmente sulla struttura del
potere, induce il sindacato a sviluppare un conflitto che non è null'altro che una rappresentazione
simbolica del vero conflitto di classe. Non siamo forse di fronte ad una contraddizione insanabile? Come
può una struttura di potere portare
all'autogestione? Come è possibile chiedere di rinunciare volontariamente al potere ad una categoria
sociale che ne esercita una porzione rilevante? Non è quindi ozioso chiedersi come e possibile che un
organismo organizzato sui principi dell'eterogestione possa portare all'autogestione? Avendo il
movimento sindacale al suo vertice una classe detentrice di potere, ogni proposta autogestionaria si
trasforma in cogestione asimmetrica tra dirigenti diretti. Solo inserendo in questo meccanismo elementi
di negazione della sua stessa conformazione è forse possibile ipotizzare una suo contributo
al processo
autogestionario. Ma qui siamo nel campo del fantastico. Dal tipo di critica che ho rivolto al sindacato dovrebbe
risultare abbastanza chiaramente l'ottica nella
quale mi pongo: considero l'autogestione significativa per la trasformazione sociale solo se questa
diviene generalizzata e se questa realizza coerentemente le premesse costitutive del concetto stesso. In
questo caso è evidente che l'autogestione come processo di autorealizzazione individuale e collettiva
è perseguibile solo attraverso l'autogestione. L'autogestione non viene data, ma conquistata giorno dopo
giorno in un susseguirsi continuo di momenti autonomi e autoeducativi. L'importante è che ogni
esperienza autogestionaria, anche parziale, contenga in sé il progetto globale di società. Solo
così il suo
carattere esemplare non è recuperabile dal sistema gerarchico. È inoltre mia convinzione che solo
in
periodo di accelerata trasformazione e al di fuori della collaborazione tra le classi l'autogestione
acquisti quella dinamica dirompente che distrugge le basi della società gerarchica. Questo vuol dire che,
per realizzarsi compiutamente, l'autogestione deve abolire lo stato perché esso è la codificazione
istituzionale del potere. Il problema del potere si pone anche in una società autogestionaria, però
la sua rilevanza risulta
attenuata se non trova una struttura sociale che lo codifica e che lo riproduce. Lo stato, sia esso
borghese, proletario o, paradossalmente, autogestionario, contiene in sé una dinamica autonoma di
riproduzione del potere su cui scarsa influenza ha l'aggettivazione. Esso, infatti, si pone come principio
strutturale di tutta la realtà sociale: momento supremo dell'eterogestione. Quindi credo che il processo
di socializzazione del potere debba, per negarsi, intraprendere percorsi che contemplino come premessa
necessaria e imprescindibile la distruzione dello stato. Solo se viene rispettata questa condizione,
l'integrazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra funzioni direttive e funzioni esecutive
assume un senso compiuto e non mistificato. Quale valore avrebbe questa integrazione se attuata solo
a livelli inferiori, mentre il processo decisionale a carattere generale risiede in una istanza superiore che
occupa, restringe gli altri ambiti di decisione includendoli in variabili già predisposte? Quale valore
avrebbe la proprietà sociale dei mezzi di produzione se uno dei suoi attributi qualificanti:
l'autodeterminazione della produzione, è già all'interno delle decisioni prese dall'istanza
superiore? Allora per uscire da questa contraddizione insolubile, già a livello progettuale dobbiamo
rompere quella
rappresentazione ideologica della società che contiene lo stato. Per fare questo dobbiamo "entrare
nell'utopia", se per utopia intendiamo l'immaginario sociale che determina la nostra azione qui e subito.
Così operando possiamo pensare ad una struttura sociale ed economica in grado di coordinarsi
attraverso una organizzazione federativa che si articola su un piano orizzontale formando una rete di
collegamenti, senza istanze superiori, dove cioè il potere rimane una funzione collettiva. La base di
questa funzione collettiva è la democrazia diretta, cioè quel processo decisionale nel quale tutti
intervengono attivamente alla formazione della volontà generale. Democrazia diretta non vuole dire
regima assembleare. È evidente che al di fuori degli ambiti ristretti è necessaria una mediazione per
il
coordinamento tra le diverse unità: la delega. Me se questa delega riveste il carattere del mandato
specifico sempre revocabile e se, soprattutto, non diventa un ruolo sociale fisso, ma ruota il più
possibile tra tutti i membri della comunità (secondo modalità stabilite dalla comunità stessa)
abbiamo
privato questo luogo potenziale di potere della possibilità di divenire struttura sociale di potere. Il
momento di coordinamento assume un aspetto contrattualistico, cioè il libero accordo tra eguali
sostituisce le direttive dell'istanza superiore, il tutto in una visione di equilibrio dinamico sempre
modificabile. È evidente che si rendono possibili situazioni di conflitto, certo non è più
il conflitto di classe (tra chi
ha e chi non ha, tra chi sa e chi non sa) ma esso assume una dimensione nuova determinata dalla
diversità naturale. L'accordo, allora, diventa il momento di conoscenza delle differenze e realizza la
loro possibile mediazione oppure la loro esaltazione che si traduce nell'adottare più soluzioni. In questo
modo il conflitto può esprimere la sua potenzialità diversificante e in ciò risiede uno degli
aspetti
pluralistici della società. La soluzione di sintesi risulterebbe armonica solo in un ambito che tende, di
fatto, a rapporti socio-economici totalizzanti. Un nuovo totalitarismo che pretende ricomporre i
contrasti in una ecumenicità soffocante. Anche in campo economico la soluzione di sintesi tra mercato
e pianificazione è per me improponibile perché non elimina le caratteristiche negative dei due
sistemi.
La soluzione di sintesi tende, per sua logica, a negare la possibilità di soluzioni diversificate, mentre
a un pluralismo sociale necessita, per la sua effettiva realizzazione, un pluralismo economico. La stessa
articolazione del pensiero anarchico in individualismo, collettivismo e comunismo, va vista come
espressione di tre diverse esigenze non solo sociali, ma anche economiche. Partendo da questa
constatazione io credo che l'individualismo, il collettivismo e il comunismo siano la manifestazione
di differenti bisogni, ai quali debbano corrispondere differenti regimi economici. È possibile, a questo
punto ipotizzare, in via del tutto esemplificativa e puramente indicativa, la
coesistenza di settori economici diversi, ognuno autonomo, ma nel contempo collegato agli altri in
modo che gli effetti positivi abbiano piena possibilità di esprimersi e gli effetti negativi siano
contemperati e al limite annullati dagli altri settori economici e così via vicendevolmente. Così
possiamo pensare accanto ad un settore economico comunista in cui i membri della comunità
realizzano, attraverso la loro attività gratuitamente prestata, tutti quei servizi e quei beni a carattere
collettivo di cui la comunità stessa stabilisce di dotarsi, un settore collettivista che assicurando i servizi
e i beni individuali di base ai membri della comunità, veda questo compito realizzato da aziende
autogestite in concorrenza fra loro e i cui servizi siano remunerati non dal singolo usufruitore ma dalla
comunità nel suo complesso. Infine nel settore individualistico aziende e consumatori svilupperebbero
i loro rapporti secondo meccanismi determinati dalla domanda e dall'offerta. È evidente che i settori
economici esaminati non risolvono tutta la gamma delle possibilità, anzi vanno visti come una
esemplificazione di un progetto pluralistico che può realizzarsi in una molteplicità di settori. Ma
le mie ipotesi acquistano un senso solo se viene abolito lo stato, perché se l'autogestione è
realizzabile solo in presenza della forma-stato allora non è possibile l'autogestione generalizzata: in
presenza di questo elemento che la nega strutturalmente l'autogestione si risolve in una nuova versione
mistificata dell'eterogestione.
(1) cfr. G.A.F., Un programma anarchico, Edizioni del C.D.A., Torino 1978, pagg.
40. (2) cfr. A. Bertolo, Per una definizione dei nuovi padroni, in AA.VV.,
I nuovi padroni, Edizioni
Antistato, Milano 1978, pagg. 41.
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