Rivista Anarchica Online
A su poburo non descit studiai... descit traballai
di Ugo Dessy
"Per il povero non è decoro studiare, egli deve lavorare": questo detto dei contadini
dell'Oristanese, che abbiamo scelto come titolo di questo saggio di Dessy, va letto anche come
testimonianza della ritrosia (se non proprio del rifiuto cosciente) delle classi subalterne verso la
cultura "ufficiale", quella istituzionalizzata nel sistema scolastico. Dietro questo atteggiamento,
marchiato dal potere come "anticulturale", vi è tutta la vera cultura popolare, con i suoi valori,
il suo linguaggio, la sua dignità. Purtroppo il potere è riuscito e riesce a far credere alla gente
che solo la sua cultura (basata innanzitutto sull'erudizione) è degna di questo nome, mentre il
resto è solo "ignoranza". Ma la realtà è ben diversa.
(...) Il sistema prospera sugli equivoci. È equivoco anche il concetto di cultura, cui si danno
significati e contenuti idealistici, astratti e diversi secondo il settore d'impiego. Il concetto di
cultura, perché abbia un significato univoco o comunque non mistificatorio, va riportato all'uso
concreto che di essa si fa sul piano dello sviluppo umano e dei rapporti sociali. Al di là delle
definizioni di comodo, cultura è in pratica un insieme di nozioni, di capacità,
tecniche e di moduli comportamentali acquisiti secondo un complesso processo di
condizionamento, i cui contenuti - valori e fini - portano il crisma dell'autorità (specifica)
costituita. Tale cultura consente all'uomo "moderno" di integrarsi "ordinatamente".
Cultura
diventa così condizione e titolo per accedere alle olimpiadi della scalata sociale - attributo
illuminante del potere, moneta aggiuntiva a quella aurea per realizzare l'avere. Quanto più un
uomo possiede e ha potere, tanto più passa per uomo colto. Le élites al potere,
definendo il
popolo incolto e rozzo dopo averlo degradato, tentano di dimostrare che tale stato di
degradazione è dovuto all'ignoranza e non invece allo sfruttamento. Da qui non poca confusione,
che torna utile alla conservazione del privilegio. Non sono pochi gli educatori, i sociologi, i
politici - credo anche in buona fede - i quali, nell'entusiasmo della scoperta del binomio
(artificioso) ignoranza-miseria, si sono battuti a spada tratta per sollevare il popolo dalla
ignoranza, convinti che fosse sufficiente modificare il primo termine per modificare il secondo.
Da qui, anche, l'allettamento che ha influenzato i meno resistenti alla integrazione: l'acquisizione
di un modello di uomo colto, titolato, su cui combaciare, per poter poi accedere, con ulteriori
crismi e apprendimenti, a livelli sociali "più alti", più prestigiosi e redditizi. Si vede, con l'attuale
inflazione dei "titoli", quanto questo tipo di cultura abbia una reale utilità - non dico nella
realizzazione di sé, ma nella stessa "carriera" sociale. Il figlio del contadino o del pastore,
laureatosi in scienze politiche o in legge, si rende conto che pur possedendo lo stesso titolo di un
Agnelli o di un Leone non è diventato né capitano dell'industria né presidente di repubblica.
È
rimasto miserabile e ignorante nonostante la quantità di cultura
ingerita. Nel popolo degli oppressi (umanità premuta da una necessità di liberazione) il concetto
di cultura
non può che essere diverso. È il patrimonio di esperienze e di capacità proprio di ciascun
uomo;
patrimonio che si sostituisce e si sviluppa nel realizzare se stesso in un rapporto di solidarietà con
i propri simili, in armonia con il mondo della natura. È rilevabile nel popolo un sentimento misto
di invidia diffidenza rifiuto nei confronti dell'intellettuale e della sua cultura. Invidia per quel
legame esistente tra livello di istruzione e livello sociale ed economico; diffidenza e rifiuto per la
consapevolezza che quella cultura non realizza l'uomo, non rende felice, anzi è malvagia
portatrice di squilibrio e di ingiustizia, prostituta di un potere che utilizza sapere e scienza per
sfruttare più sapientemente e scientificamente l'uomo. Illuminanti le parole di un pastore di
Orgosolo, intervistato sulla situazione di oppressione in cui la sua comunità è tenuta dallo stato
italiano: "abbiamo perfino paura a far studiare i nostri figli, perché domani anche essi
potrebbero usare lo studio per imbrogliarci" (1). Conversando con contadini e pescatori
dell'Oristanese, alla domanda "Perché non avete frequentato la scuola da piccoli?", essi
immancabilmente rispondevano: A su poburo non descit studiai; ddi descit traballai (Al povero
non è decoroso studiare; gli è di decoro lavorare). Pensavo allora che quel "non essere decoroso
studiare" fosse un principio imposto al povero dal pregiudizio del padrone. Oggi sono più
propenso a credere che il concetto esprima principalmente una cosciente valutazione popolare di
"vanità" dello studio, contrapposto al "lavoro" che è decoroso in quanto realizza
l'essere. Una valutazione, questa, che non ha niente a che vedere con l'interessata apoteosi del lavoro che
ne fa il sistema. Il lavoro è decoroso in quanto soddisfa l'esigenza umana di intervenire
nell'ambiente e non sull'ambiente naturale in cui si vive. Decoroso, quando non è prostituzione
di
sé in cambio di mezzi di sussistenza ma è svolto per l'appagamento di bisogni autentici. Il
bracciante agricolo, il manovale che dopo otto ore sotto il padrone coltiva il proprio pezzetto di
terra o si costruisce un tetto, vivrà questo e non quello come "lavoro dignitoso", come
espressione autentica di sé - per quanto tradizionali possano essere i moduli e gli strumenti che
utilizza per raggiungere lo scopo.
La cultura "in giuste dosi"
La posizione del sistema sul principio secondo cui quanto più un popolo è ignorante tanto
meglio
si può dominare e sfruttare è stata riveduta nel secolo scorso e nel presente, con lo sviluppo
industriale. Nel periodo del potere rozzo, assolutistico, i regnanti sostenevano scopertamente che
soltanto gli ignoranti erano da considerarsi "sudditi fedeli". E di conseguenza programmavano la
diffusione dell'analfabetismo e della ignoranza. In questa operazione, la chiesa cattolica reggeva
egregiamente il sacco, falsando per cupidigia di potere il concetto cristiano sulla beatitudine dei
poveri di spirito. Dirò più avanti come l'ignoranza (del sapere del sistema) possa costituire nel
popolo un ottimo vaccino contro la manipolazione e il condizionamento, quindi anche contro lo
sfruttamento scientifico, integrale. Il popolo viene deliberatamente e metodicamente costretto
nella più assoluta ignoranza fino al momento in cui il potere economico passa da forme di
sfruttamento grezze a forme tecnologicamente avanzate. Si dà una "giusta dose" di cultura al
popolo quando, con il progresso tecnologico, il capitalismo deve mettere il lavoratore a contatto
con macchine complesse, che abbisognano - per essere utilizzate con profitto - di conoscenze
specifiche e di un certo grado di istruzione. Padronato imprenditoriale, borghesi "illuminati",
dirigenti di partito e di sindacato, uniti nel medesimo disegno criminoso, premono sul popolo
perché accetti di "bere" questa "giusta dose" di cultura. Vengono usati diversi allettamenti:
"Migliorerai la tua posizione, avanzando nella scala sociale"; "Acquistando conoscenze tecniche
aumenterai il tuo salario"; "Potrai aspirare a posti di responsabilità"; "È richiesto il titolo di
studio per fare il capo-squadra"; "Potrai rivolgerti al padrone usando la stessa lingua". Una parte
della consorteria al potere (chiamarla la parte più reazionaria sarebbe un immeritato complimento
alla restante parte), quella per intenderci di stampo clericale-borbonico, dal canto suo si
preoccupava del fatto che dando anche soltanto una ben dosata e annacquata istruzione agli
straccioni, questi avrebbero potuto acquistare ma malizie tali da organizzarsi e mordere la mano
al padrone. Ma l'altra parte, la borghesia imprenditoriale, premuta dalla necessità di mettere in moto la
nuova
macchina di sfruttamento e di incassare, insisteva sbandierando da un lato lo spauracchio di
maggiori possibilità di rivolta da parte di masse ignoranti e affamate e da un altro lato spiegando
come con una appropriata istruzione e tenendo ben fermo il metodo del bastone e della carota, si
sarebbe giunti alla integrazione di tutte le componenti popolari chiamate a produrre. Ribadisce
Rosada: "Nel clima della cultura positivista, all'idea di una scuola che, aprendo gli occhi agli
sfruttati sulle loro catene, ne avrebbe fatto dei ribelli, si era sostituita in molti la convinzione che
proprio le masse incolte costituivano un pericoloso potenziale di irragionevoli rivolte, e che una
giusta evoluzione culturale avrebbe garantito il diffondersi di un saggio spirito di
collaborazione tra le classi" (2).
Pregiudizio razziale e inferiorità
C'è una lunga serie di luoghi comuni, di pregiudizi, di falsi nella cultura delle élites nei confronti
della cultura del popolo. I teorizzatori del sistema, per giustificare "razionalmente" l'irrazionalità
dello sfruttamento umano, hanno avuto bisogno di utilizzare la "scienza" cercando e indicando
nello sfruttato caratteri di inferiorità rispetto a un modello ideale di uomo - presentato, e neppure
rappresentato, dallo sfruttatore. Definire "barbaro" e "incivile" qualunque popolo da assoggettare o assoggettato
è un pregiudizio
storico diffuso tra quei predoni che furono i Romani. Tutti gli invasori che si sono succeduti nel
dominio della Sardegna hanno deliberatamente definito "criminali" gli oppositori politici. E
quando mancava una vera e propria opposizione politica, si lamentavano fenomeni di
banditismo: se in Sardegna ci sono "banditi", i Sardi sono "banditi"; ne consegue che sbarcarvi
un esercito per debellare il "banditismo" diventa "un fatto di civiltà", e non, invece
"un'aggressione". Il fascismo per giustificare l'invasione dell'Etiopia proclamò di voler abolire la
schiavitù. Il colonizzatore maschera sempre i suoi disegni di assoggettamento assumendo il ruolo
di "portatore di civiltà". In pratica, il pregiudizio razziale concorre a giustificare l'aggressione e
ad aumentare gli interessi del capitale. Ma se è evidente che il pregiudizio razziale serve di
copertura a un piano di sfruttamento il popolo "pregiudicato" finisce per acquistare una
"inferiorità" obiettiva rispetto al suo oppressore. Il razzismo, anziché scomparire alla luce del
progresso scientifico, si perpetua e si diffonde in forme più sottili. La scienza a servizio del
potere, anziché diradare le nebbie dell'oscurantismo le ha infittite, dando al pregiudizio un
carattere di maggiore attendibilità e rafforzandolo. L'attuale sistema - come quelli precedenti su cui si
è evoluto - è fondato sul falso sistematico. Le
élites al potere distorcono l'immagine reale delle parti avverse; vengono date attribuzioni
dispregiative, in chiave manichea, a gruppi etnici, a categorie sociali, a oppositori politici,
perpetuando la discriminazione in "buoni" e in "cattivi". Il razzismo dell'oppressore suscita e
alimenta un razzismo alla rovescia nell'oppresso - nel quale resta, comunque, sempre a livello di
difesa, un disperato tentativo di affermarsi, di sopravvivere trovando in sé valori positivi da
opporre a quelli dell'oppressore che lo annullano. Dice il falso chi dice che attualmente il
pregiudizio razziale è stato superato. Il razzismo è sempre presente in ogni processo di
assoggettamento e sfruttamento del popolo, in ogni forma di oppressione e sfruttamento
dell'uomo. Le conseguenze del pregiudizio razziale furono e sono la discriminazione, la
criminalizzazione, la degradazione, l'assassinio dell'uomo. Va ribadito che la situazione di coatta
inferiorità dell'oppresso rispetto all'oppressore, produce una "effettiva" inferiorità, che serve a sua
volta a rafforzare il pregiudizio. Pregiudizio del dominatore e basso livello di vita del dominato
finiscono per determinarsi l'un l'altro, creando un circolo vizioso che non può spezzarsi se non
con la rivolta dei popoli. Il razzismo scompare soltanto con la scomparsa dello sfruttamento
dell'uomo sull'uomo.
"Falli fottere, bevi!"
All'interno di un discorso sul razzismo - che è complesso, in quanto presente, e spesso in forme
nascoste, in ogni aspetto della vita culturale (economica, sociale, politica, morale) - mi interessa
qui fermare l'attenzione sulla definizione e sull'uso dei termini di "razionalità" e di "istintualità"
che ne dà e ne fa il sistema. Per giustificare le leggi del patriarcato che tengono sottomessa la
donna - per esempio - si sono attribuiti a questa diversi caratteri presunti "negativi": in primo
luogo, e ricorrentemente, un carattere di "istintualità" (attributo "negativo") contrapposto alla
"razionalità" (attributo "positivo") del maschio. La stessa affermazione è alla base del complesso
di valutazioni denigratorie e discriminatorie nei confronti del popolo, della sua cultura. Anche
studiosi di ideologia materialista marxista, tra questi Gramsci, parlando della cultura del popolo,
sostengono che in essa domina l'irrazionalità e l'istintualità - remore a un processo di crescita
civile e politica. Per colui che voglia fare una analisi corretta, direi "razionale" della realtà, c'è
molto da demistificare e da chiarire. A cominciare dal significato volutamente equivoco nei
vocaboli filosofici di uso comune e di fondamentale importanza in un dialogo tra uomini che
vogliono capirsi. I significati di "istinto" e di "ragione", ciò che precisamente significano,
dovrebbero essere
semplici e chiari. Invece non lo sono. Per la cultura ufficiale, istinto può voler
dire un mucchio di
cose - seppure tutte con carattere negativo. Ecco alcune definizioni da manuale: "Impulso
naturale e irrazionale"; "Serie di atti spontanei, non volontari e tuttavia collegati, succedentisi con
ordine inesorabile, rispondenti a un fine non conosciuto da chi li compie"; "Attività mentale
spontanea adatta a uno scopo, e col carattere di una tendenza innata, come, ad es., l'istinto del
ritmo nei poeti (sic!)"; "Il Bergson lo oppone alla intelligenza...". Le definizioni di "ragione"
diventano meno sbrigative e più complesse ma niente affatto chiare: "Complesso di facoltà
mentali che distinguono l'uomo dal bruto"; per Kant è "fonte di principi a priori dai quali deriva
la legge della moralità"; per Platone è "la qualità più elevata dell'anima, quella che
può
rappresentarsi le idee eterne"; per Schopenhauer ce n'è di quattro specie: "Ratio essendi, ratio
fiendi, ratio cagnoscendi, ratio agendi"; e così via. La teoretica del sistema distorce i significati
dei termini per falsare la realtà, forte della somma di elaborazioni fornitegli da corti di filosofi e
scienziati, e istituzionalizza solenni imbecillità su "istintualità" opposta a "razionalità".
L'istintualità sarebbe propria del popolo, dell'ignorante, della donna, del bambino, del nero, del
sardo e di tutte quelle componenti umane che necessiterebbero di un padrone "razionale" per
poter vivere. Si possono portare infinite citazioni dotte e serissime sulla presunta
inferiorità del
bambino, del nero, del sardo, della donna, del popolo: inferiorità basata su una presunta loro
precipua istintualità e mancanza di razionalità. "Razionalità" sarebbe in definitiva
capacità di
conoscere scientificamente la natura per dominarla; razionalità come fonte unica di
progresso,
quindi di benessere, e sinonimo di civiltà. Tutto ciò che è
razionale verrebbe direttamente da Dio
e dai membri della consorteria al potere. Lo stato e le istituzioni che concorrono a mantenerlo
sarebbero creazioni sublimi della razionalità. In contrapposizione, l'istintualità
diventa sinonimo di ignoranza e rozzezza, di confusione e
disordine (caos anarchico - dicono gli apprendisti stregoni); istintualità come fonte di
arretratezza, di miseria, di abbrutimento. L'istintualità o irrazionalità verrebbe da Satana e
sarebbe incoraggiata da pensatori demoniaci come Campanella, Fourier, Proudhon, Lawrence.
Con un minimo di buon senso e di "ragione" è facilmente verificabile che non vi è nulla di
irrazionale nell'istinto: nella economia del processo di sviluppo della personalità umana, la
ragione è a servizio dell'istinto. Se istinto e stimolo vitale, pulsione alla naturale realizzazione di
sé, la ragione non è altro che la capacità di elaborare le esperienze in funzione dell'io
istintuale -
in funzione cioè del soddisfacimento degli stimoli, dei bisogni naturali. Tanto più complessa
è la
realtà e complesse sono le esperienze, tanto più sviluppata sarà la ragione, il cui lavoro di
elaborazione e valutazione ai fini della realizzazione dell'io-istintuale diventa correlativamente
complesso - tuttavia la sua funzione resta immutata: la ragione a servizio dell'istinto. Cerchiamo
di essere chiari e semplici. Quando parlo di ragione non faccio riferimento a una
categoria filosofica astratta ma a una attività pratica mentale, propria di ciascun uomo - e nulla,
se non la presunzione e l'ignoranza, ci autorizza a negarla anche negli animali. Ciascun uomo è
fornito di una propria ragione - indipendentemente dal fatto che qualcuno la usi poco o nulla.
Pertanto, innanzitutto, direi che è sicuramente razionale pensare con la propria testa e
decisamente irrazionale pensare con la testa di altri. Chi pretende - come fa il sistema - di farmi
pensare con la testa di Aristotele, o di Hegel, o di Marx agisce in modo irrazionale e vuole che io
mi comporti in modo irrazionale - anche ammesso che nella filosofia di quei signori la delega a
pensare per gli altri sia un fatto razionale. Si potrebbe facilmente ridicolizzare l'istituto della
delega - espressione razionale della falsa razionalità del sistema - allargandolo dal
soddisfacimento di bisogni intellettuali (produrre in proprio, far politica, elaborare una propria
morale, avere una propria visione del mondo) al soddisfacimento di altri bisogni primari,
specificamente corporali, come il nutrirsi, il defecare, il chiavare. In che senso, esisterebbero categorie umane
"istintuali", "emotive" e "non razionali, quali i
bambini, le donne e i popoli primitivi o sottosviluppati? Se in ciascun uomo - e in ogni
creatura
vivente - l'istinto necessita della ragione per potersi realizzare? Non è concepibile, in natura,
l'appagamento dell'istinto senza un rapporto con la realtà esterna, senza conoscenza, senza
elaborazione della conoscenza, senza l'uso quindi della ragione. Il fatto è che il sistema privilegia
sul piano della propria morale la razionalità, perché è attraverso questa che può
portare avanti il
suo disegno di condizionamento e di assoggettamento dell'uomo. La razionalità distorta, non più
in funzione della istintualità, della naturale realizzazione dell'io, ma in funzione dei fini di potere
del sistema, è attualizzata nella repressione e nella rimozione, nella deviazione e nella
sublimazione dei desideri, dei bisogni istintuali. Non la ragione in funzione dell'essere, ma in
funzione dell'avere. L'istintualità - la pulsione alla vita, l'esigenza della libertà di essere in
naturale armonico con il
mondo vivente - non è facilmente sopprimibile nell'uomo. E non è neppure facilmente
manipolabile, in modo diretto. È infatti attraverso la ragione, con un processo di
condizionamento culturale, opportunamente dosato per ciascun gruppo umano se non per ciascun
uomo, che si arriva alla repressione e allo snaturamento della istintualità. Tuttavia, e nonostante
l'evidente situazione di massificazione e di degradazione in cui versano i popoli, io affermo che
non c'è lavaggio di cervello, non ci sono processi di repressione o di deviazione o di
sublimazione totali e irreversibili. Io credo e affermo che in ogni uomo la spinta alla libera
realizzazione di sé è irresistibile e insopprimibile come la vita stessa. Intanto va sottolineato che
un sistema sociale che teorizza e applica sistematicamente lo sfruttamento del lavoro umano,
l'assassinio di massa, la repressione delle galere e dei ghetti, l'alienazione e la follia può essere
scientifico, può anche essere matematico ma è certamente
irrazionale. E va anche sottolineato
che l'affermazione dell'uso individuale della ragione è una affermazione estremamente eversiva e
destabilizzante per le sue implicazioni - nulla fa più paura al sistema degli uomini che pensano
con la propria testa. Tolstoi - come altri pensatori libertari - prefigurando una nuova società umana
fondata sul
rapporto "ragione-natura", traccia alcune importanti linee di azione rivoluzionaria. "Come
Godwin e, in larga misura, Proudhon, ritiene necessaria una rivoluzione morale e non politica:
la rivoluzione politica, infatti, attacca lo stato e la proprietà dal di fuori, mentre la rivoluzione
morale opera all'interno della società ne mina le basi stesse.... (Egli) vede un solo mezzo efficace
per trasformare la società: il ricorso alla ragione e, in ultima istanza, alla persuasione e
all'esempio. Chi desidera abolire lo stato deve cessare di cooperare con esso, rifiutarsi di
servire nell'esercito, nella polizia, nei tribunali, rifiutarsi di pagare le tasse. Il rifiuto
all'obbedienza è, in altre parole, la grande arma" (3). L'idea di Tolstoi del rifiuto al sistema come
la "grande arma" della rivoluzione deriva da
esperienze concrete, dalla conoscenza diretta della vita e della cultura contadina del suo popolo, e
delle risposte di questo alla oppressione zarista. C'è nella resistenza passiva delle nostre comunità
contadine - liquidata settariamente e semplicisticamente dai paleomarxisti come immaturità
e
fatalismo - una ben precisa forma di rifiuto nei confronti del sistema di potere esterno: è una
razionale, storica, efficace forma di lotta per evitare con l'alienazione (cioè con la totale
degradazione della propria cultura) quel processo di acculturazione strumentale necessario ai
padroni per lo sfruttamento intensivo dell'uomo. È una forma di lotta, io credo, che se fosse stata
stimolata e generalizzata avrebbe già portato al crollo del sistema di potere statalista - ed è una
forma di lotta ovviamente o frenata o calunniata o repressa tanto dal potere borghese quanto da
quello marxista, che hanno ambedue bisogno, per esistere, dello stato e delle sue istituzioni
coercitive. Ci sono nel popolo atteggiamenti culturali di sprezzante indifferenza per le "magnifiche"
invenzioni del sistema - atteggiamenti che rappresentano chiaramente scelte ideologiche e
politiche rivoluzionarie. Illuminante una definizione, diffusa nell'oristanese, che di sé dà un
contadino: "Di podis chistionai de sa mellus cosa, de Deus o de Filosofia; t'ad a rispondi
sempri: mrinca tua a issus, buffa!" (Gli puoi parlare delle cose più nobili, di Dio o di Filosofia; ti
risponderà sempre: "falli fottere, bevi!). Mi viene a mente, seguendo la logica di questo discorso, la
naturale ritrosia di Cartesio a
pubblicare i suoi scritti, e più in particolare ciò che egli scrive a Chanut in una lettera del 1°
novembre del 1646: "... se fossi stato solamente così accorto come i selvaggi ritengono - a quel
che si dice - che siano le scimmie, non sarei mai stato conosciuto da chicchessia come facitore di
libri: essi pensano che le scimmie potrebbero parlare se volessero, ma se ne astengono per non
essere costrette a lavorare. Ora per non avere avuto la stessa prudenza ad astenermi dallo
scrivere, non ho più quel tempo libero e quel riposo di cui disporrei se avessi saputo tacere"
(4). Il rifiuto permanente, sottile, ironico presente nel popolo (umanità ancora e nonostante tutto
"autentica") nei confronti dell'autore, dell'ordine, della cultura del sistema è un rifiuto
istintuale e
razionale insieme. La crescita naturale dell'uomo - che chiamo processo razionale di
realizzazione delle istintualità - passa evidentemente attraverso linee che sono esattamente
all'opposto di quelle violentemente imposte dal sistema.
Ma quale ignoranza?
Lo stesso concetto comune di "ignoranza" ma visto e valutato sulla sostanza dei fatti, in
particolare sull'uso che il sistema ne fa contrapponendolo al concetto di "cultura". C'è già una
matrice politica nella errata contrapposizione di "ignoranza" a "cultura". L'uso ambiguo di
"ignoranza" che ne fa il sistema ricalca l'anfibolia classica. L'opposto di "colto" e "incolto", uomo
senza cultura - una valutazione dispregiativa diffusa tra i tedeschi per indicare l'Ausländer. Dove
"uomo senza cultura" vuol dire precisamente "senza la cultura della classe egemone".
"Ignoranza" è l'opposto di "conoscenza"; ed è una forzatura politica, un pregiudizio razzistico
voler intendere la "conoscenza" sempre e soltanto correlata alla cultura egemone, unica
depositaria di verità e scientificità. "Ignoranza" significa semplicemente non conoscere qualcosa
- o anche rifiutarsi di conoscerla
per non doverla accettare. Tuttavia non c'è uomo, in condizioni di esserlo, che non conosca o
non accetti tutto ciò che gli occorre per poter vivere e crescere, in un dato ambiente, in un dato
momento storico. Conoscere è un processo naturale di crescita, proprio di ogni creatura vivente.
In pratica io non conosco - né posso concepire in teoria - alcun uomo "ignorante". Se vogliamo
quantificare e gerarchizzare in rapporto a un modello di uomo e di ambiente (ma è sempre una
valutazione politico-morale e quindi soggettiva), si potrà dire che esistono diversi livelli di
conoscenza, in quantità e in qualità, in rapporto agli interessi di ciascun uomo e in rapporto
alla
realtà più o meno complessa del mondo in cui ciascun uomo vive e si realizza. E poiché la
conoscenza è un fatto di scelte - libere o necessarie o imposte - i diversi livelli di conoscenza
sono correlati alle possibilità di scelta che ha ciascun uomo. Se vogliamo parlare di "vera conoscenza",
direi che essa non deriva dalle scelte moralistiche
quando non scopertamente politiche (in senso deteriore) imposte dal sistema, ma scaturisce
sempre e soltanto dalle scelte "libere", individuali, armonizzate con le scelte "necessarie", volute
dalla natura - di cui l'uomo è componente, le cui leggi non possono contrastare con la libertà
dell'uomo. Il concetto comune di "ignoranza", nel sistema, è fondato su una serie di pregiudizi
razzistici tendenti a canalizzare e a strumentalizzare l'uomo per mezzo della sua esigenza di
conoscere. Conoscere non è più ciò che realizza l'uomo, ma diventa un processo di
condizionamento che torna utile alla economia del sistema - o più precisamente della consorteria
al potere. In pratica sarebbe "ignorante" il cittadino che non conosca o non accetti le regole del
sistema. Ho detto "regole" perché in definitiva tutto il sapere riservato al popolo è costituito da
un ben dosato complesso di precetti pseudomorali. La conoscenza di un sapere politicizzato è falsa e
artificiosa e va ovviamente a scapito di una
conoscenza basata sulla ragione individuale e sulla verità. Una persona "colta" in senso distorto è
facile preda dei condizionamenti del potere connesso o innestabile a quel tipo di cultura. Al
contrario, l'ignoranza di quella cultura è una formidabile difesa per evitare i condizionamenti
che
passano attraverso la stessa. Ciò tenendo presente che l'"ignorante", lo stesso analfabeta
strumentale, è più colto dell'acculturato integrato nel sistema, se dimostra di aver
acquistato
strumenti e capacità di conoscere e modificare (far crescere) se stesso nel mondo in cui vive. Il popolo
- si dice - è ignorante, "non ha cultura". Perciò bisogna istruirlo e dargli una cultura.
Inizia da qui, da un falso, il cancan degli interventi di educazione degli adulti. C'è comunque
una
resistenza nell'uomo alla manipolazione dall'esterno della propria personalità, in definitiva del
proprio equilibrio socio-culturale: questa resistenza è la causa logica del fallimento di tutte le
iniziative educative promosse dal sistema. Un fallimento però che purtroppo è parziale,
perché
un minimo di condizionamento qualitativo, in generale, e un minimo di condizionamento
qualitativo, in particolare, ciascuna di tali iniziative riesce sempre a ottenere. Devo dire - per
averle vissute dall'interno - che le malizie tecniche del processo di condizionamento attraverso
l'educazione sono infinite. E aggiungo, ottimisticamente: quanto infinite sono le malizie umane,
individuali e di gruppo, per evitarlo. È di recente data la riedizione, in termini più scientifici
e tecniche e strumenti più sofisticati, di
interventi educativi riservati al popolo, passando attraverso i punti chiave, utilizzando i moduli
più significativi della cultura del popolo (ammettendone quindi l'esistenza) per vuotarla di
contenuti vivi, degradarla e disgregarla, riproporla poi folclorizzata, inerte. Viene fatto di
credere, a questo proposito, che gli studi antropologici dei marxisti in Italia sembrerebbero avere
come scopo una sempre più efficiente organizzazione di "feste dell'Unità" - nel senso di voler
operare un innesto (già operato dal cattolicesimo) di una ideologia riformistica statalista ed
elitaria sul ceppo popolare di tradizioni comunitarie autoctone.
Criminalità e educazione
Anche dopo l'acculturazione e l'integrazione della classe operaia - che ha imparato a usare la
cravatta con disinvoltura a fare propria la concezione borghese dello stato e del potere e a
sostituirsi alla polizia nei servizi d'ordine - resta ancora diffuso il luogo comune di un popolo
ignorante, rozzo e tendenzialmente delinquente, contrapposto alla classe borghese (cui si
aggiunge la classe operaia integrata), colta, di modi distinti, tendenzialmente onesta. Questa volta
è di turno il binomio ignoranza-criminalità. Le due parti del binomio (artificioso)
vengono fatte
apparire sempre in stretta correlazione tra loro, tanto che finiscono per confondersi l'una con
l'altra. Il binomio ignoranza-criminalità è presente in tutti gli studi sociologici che
io conosco sulla
Sardegna. Altrove e più volte, ho rilevato che ogni cultura (e nel suo interno ciascun individuo)
ha peculiari forme di risposta nel rifiutare le leggi che le (gli) vengono imposte. Cosicché i
fenomeni di criminalità si possono correlare alla "ignoranza" come alla "conoscenza", alla
povertà come alla ricchezza - senza però dimenticare che è il potere a decidere
quale azione è
criminale ma chi è criminale. Ed è evidente che criminalizzando soltanto il popolo,
il ventilato
stato di diritto o è un'utopia o è una solenne truffa. Far derivare la criminalità dalla
ignoranza ha
portato molti studiosi, anche in buona fede (nel senso che credevano nel riscatto civile del
popolo) a battersi per la promozione di interventi e campagne portati avanti poi dagli "esperti"
del settore appositamente creato dal sistema, secondo un piano che abbiamo già visto: la
dissoluzione della cultura autoctona per sostituirla con un rudimento di cultura, alienante,
necessaria per lo sfruttamento integrale dell'uomo. L'equivoco nasce dal fideismo, tipico del paleo-marxismo,
sulla redenzione dell'umanità sfruttata
mediante l'espropriazione e l'acquisizione degli strumenti di produzione e culturali della classe al
potere. La lotta rivoluzionaria per la espropriazione e l'acquisizione degli strumenti di
produzione, ha visto i marxisti ripiegare sempre più su posizioni riformistiche e di compromesso.
Non più espropriazione ma semplicemente acquisizione per imitazione del modello culturale e
politico della borghesia: nella assunzione di privilegi, nel modo di vivere, nel linguaggio, nel fare
proprie le istituzioni stataliste - fino ad integrarsi, come assimilati, nella realtà dell'antagonista di
classe, mercanteggiando una cogestione del potere in posizione subalterna. Non si tratta solo di
rivoluzione mancata ma di mancanza di rivoluzione. Già sul piano della ideologia, le
trasformazioni del marxismo portano a immagini grottesche di un sistema "modificato per
capovolgimento". Hegel è un idealista-reazionario. Tuttavia Marx riconosce che la teoria di
Hegel sulla dialettica è perfetta. Ma la perfezione di un idealista-reazionario è necessariamente
una perfezione idealista-reazionaria. Per farla diventare materialista-progressista bisogna
"capovolgerla": anziché sulla testa farla poggiare sui piedi. Questo dice Marx, se ho ben capito
(7).
Dove ci porta il "progresso"
Le considerazioni fin qui esposte ci aiutano a mettere a fuoco un sistema che si definisce civile,
scientifico, efficiente ma che lo è soltanto nella facciata. Computers, astronavi, missili
intercontinentali, mezzi di locomozione a propulsione nucleare, centrali atomiche... tutto questo
non è che la moderna "progressista" facciata di un edificio nel cui interno l'umanità è
prigioniera
come in un lager, incasellata, snaturata, alienata. Il sistema ha potenziato e perfezionato oltre
ogni limite la scienza e la tecnica ai soli fini del profitto, del privilegio - rapinando il patrimonio
naturale comune fino al depauperamento, sfruttando l'uomo fino al totale abbrutimento. Nel
contempo, il sistema è rimasto grezzo, ignorante su tutto ciò che riguarda la conoscenza vera
della natura, la creazione di strumenti che proteggano l'uomo dalle avversità ambientali, dai
propri limiti fisiologici, che lo aiutino a crescere e a realizzarsi più liberamente possibile. Sempre
più chiaramente e con forza dobbiamo dire che il tanto decantato progresso è in funzione
dello sviluppo e perfezionamento della macchina bellica per tenere assoggettati i popoli e della
macchina produttiva per realizzare lo sfruttamento dei popoli. Non ci sono eccezioni a questa
regola: le briciole di progresso che in "giuste dosi" e "una tantum" cadono sui lavoratori rientrano
nella fase di adescamento reiterato, che fa parte del gioco. La liberazione dell'uomo dagli
ingranaggi della mostruosa macchina è in una rivoluzione culturale, prima ancora che politica. La
presa di coscienza di sé, dell'insanabile conflitto esistente tra la natura umana, le esigenze
dell'essere e del divenire liberi, e la sostanza disumana, meccanicistica del sistema che le
esigenze snatura e devia per schiavizzare e sfruttare. Presa di coscienza è riappropriazione di sé
e rifiuto di tutto ciò che non è autentico - un lavoro
lungo difficile di continue piccole scelte alla ricerca di sé contro il millenario sottile ininterrotto
processo di condizionamento cui ci ha sottoposto con ogni mezzo il potere. Una ricerca nel
passato storico, nella cultura nostra, come popolo e come individui, per ritrovare e scegliere gli
strumenti con cui opporci e lottare contro la degradazione e l'alienazione.
L'utopia anarchica cresce
Nel momento stesso in cui il sistema mostra tutta la sua efficienza oppressiva e sfruttatrice e
dispiega tutta la sua potenza repressiva, mostra anche la sua debolezza, la paura che il binomio
oppressori-oppressi stia per giungere al limite di rottura. Il processo di assoggettamento e di sfruttamento non
può proseguire indefinitamente: ha dei
limiti obiettivi di rottura. Il sistema conosce bene il gioco del tirare la corda senza romperla,
allentandola al momento opportuno - ma proprio per questo, per presunzione, commette l'errore
di sottovalutare la forza della controparte, degli oppressi. Il gioco è incerto, rischioso; prima o
poi la corda si spezza. E non ci saranno fiancheggiatori e persuasori, non ci saranno partiti e
sindacati, non ci saranno preti e maestri di scuola che potranno riannodarla. Sempre più il popolo
viene truffato, affamato, rapinato, sfruttato. Disoccupazione, miseria, fame, galera non sono una
temuta prospettiva ma una realtà del nostro tempo. Non è rimasta nessuna forza politica che
abbia conservato credibilità, che possa opporsi a una simile degradazione della vita civile. Il
sistema ha saputo in questi ultimi anni inglobare tutte le opposizioni, creando la situazione
favorevole per ristrutturare in forme più razionali e scientifiche la macchina di oppressione e
sfruttamento. Il dio Marx è miseramente fallito. Non c'è stata la profetizzata rivoluzione
proletaria in seguito al
generale processo di industrializzazione. Non c'è stata presa di potere del proletariato
conseguente all'accumulo delle contraddizioni del sistema borghese. C'è stata sì
l'industrializzazione, con alti costi e poca occupazione - non cattedrali in un deserto, ma
cattedrali che hanno prodotto il deserto. Ci sono state sì le contraddizioni, a montagne, e non
poche volute e prodotte in anticipo dallo stesso sistema per meglio controllarle; contraddizioni
che il sistema ha saputo fagocitare ingrassando, che ha perfino mercificato, facendone sempre
ricadere i costi sul popolo. La sinistra marxista non è arrivata al potere con la rivoluzione, con il
popolo. Ci è arrivata e ci sta arrivando con la prassi borghese dell'intrigo, del compromesso, con
la svendita sottobanco dell'ideologia, con il tradimento quotidiano della rivoluzione e del popolo. La sinistra di
classe è ormai irrimediabilmente coinvolta nei giochi di potere dei padroni. Il PCI -
dopo il PSI, ma in modo più grezzo e senza riserve - compartecipa al potere assumendo
responsabilità e con la forza che gli viene dal suo passato rivoluzionario dando credito a un
governo reazionario, fascista, clericale: approvando la politica andreottiana dei sacrifici, la
politica di riconversione industriale sulla pelle dei salariati, la politica clericale della revisione
del concordato che dà nuovi e maggiori privilegi al Vaticano, la politica atlantista che ha venduto
la nostra Terra al militarismo yankee, la politica della deportazione degli oppositori nei lager e
dell'assassinio legalizzato. Il parlamento, che si definisce "rappresentanza del popolo" e che in
nome del popolo osa legiferare, oggi come ieri è soltanto una consorteria di ruffiani che tengono
il sacco ai ladri che derubano il lavoratore. Per mascherare il dilagare della corruzione e del ladrocinio -
connaturati al potere - il sistema
aizza con la violenza e con ogni provocazione il popolo, provocando risposte rabbiose nei ceti
più sprovveduti; il sistema dilata e drammatizza anche banali episodi di violenza popolare,
quando anche non li produce in proprio o non se li inventa, per avere l'alibi di turpi interventi
repressivi. Il preciso scopo dell'ondata di violenza in atto in Italia non è la destabilizzazione dell'attuale
regime, non è lo scardinamento dello stato - artefice e beneficiario unico di questa e di ogni
violenza è il sistema statalista. Il preciso scopo della violenza è quello di mettere a tacere ogni
opposizione popolare, con la eliminazione anche fisica dei cittadini che turbano "l'ordine
costituito". Ordine che significa nella sua espressione ottimale l'autocastrazione del cittadino: il
consenso dell'oppresso a farsi continuare a opprimere. Nella colonia Sardegna, area di servizi militari e
petrolchimici, terra di lager e di criminali
sperimentazioni, la strategia della tensione assume forme e dimensioni eccezionali, che
travalicano perfino le stesse leggi fasciste dello stato "democratico". Oltre che ai pastori-banditi,
l'apparato repressivo rivolge da tempo la sua attenzione ai compagni-banditi, sfogando la sua
rabbia specialmente sui giovani, capaci di sbocchi creativi. Sui giovani si spara a vista. I giovani
di oggi sono i pericolosi eversori di domani, la parola d'ordine e di eliminarli - giusta la teoria
dell'igiene preventiva. È ipocrisia o malafede richiamare le "forze dell'ordine" al rispetto dello stato di
diritto, delle
libertà sancite dalla costituzione o dall'elementare buonsenso. Il popolo sa, per averlo sempre
sperimentato sulla propria pelle, che lo stato di diritto non è mai esistito, che la carta
costituzionale è carta da cesso, che non può esserci buonsenso in killer addestrati a colpire il
bersaglio - sagome di cartone o ragazzini di sedici anni come Wilson Spiga, come Giuliano
Marras. Eppure - non lo dimentichino i signori della consorteria - tanto più il sistema aumenta
l'oppressione e la repressione, tanto più aumenta la resistenza del popolo - così come, tanto
più la
resistenza nel popolo tende a esprimersi in forme organizzate, tanto più il sistema dispiega gli
strumenti della repressione.
Questa è la situazione - estremamente dura, difficile, dolorosa. Ed è questo il momento ideale
per
affermarsi nel popolo la rivoluzione libertaria - la presa di coscienza individuale e di gruppo, la
riappropriazione di sé come uomo e come umanità: contro i miti delle grandi teorie
rivoluzionarie che hanno tutte come obiettivo la presa del potere e quindi la conservazione del
sistema statalista, della oppressione e dello sfruttamento. Sembra che a qualcuno che milita sul fronte del popolo
faccia paura ammettere che l'utopia
anarchica non è più utopia, che è nata e cresce. (...)
(1) U. Dessy - "Il mitra puntato male", in "Sardegna Oggi" n° 19 del 1.2.1963,
pag. 17.
(2) M.G. Rosada - "Le università popolari" - Ed. Riuniti, 1975, pag. 16.
(3) G. Woodcock - "L'anarchia: storia delle idee e dei movimenti libertari" - Feltrinelli, 1967
-
pagg. 204/205.
(4) "Il pensiero di René Descartes" a cura di G. Crapulli - Torino 1972 - pagg. XIX
nota 2.
Ugo Dessy (Terralba, 1926) ha sempre
partecipato attivamente alle lotte sociali del popolo
sardo, tra le quali l'occupazione delle terre incolte e le lotte antifeudali dei pescatori e della
popolazione di Cabras. Tra gli anni '50 e '60 ha costituito in Sardegna i primi centri di cultura
laici e libertari, muovendo dall'esperienza di educazione popolare fatta con i gruppi di Ignazio
Silone nell'Associazione italiana per la libertà della cultura. È stato tra i relatori al 1°
Congresso Antimilitarista (Milano, 4 novembre 1969) promosso da radicali, anarchici,
antimilitaristi, nonviolenti: la sua relazione documenta per la prima volta il processo di
militarizzazione in atto in Sardegna e l'entità delle superfici occupate per usi bellici. Umanità
Nova pubblica questa relazione e Dessy collabora con numerosi scritti alla redazione del
settimanale anarchico, per due anni.
Attualmente redattore delle riviste Hérodote e
L'arma propria, nonché direttore responsabile
di Sa Repubblica Sarda e Sardegna libertaria, Dessy ha collaborato e tuttora collabora
con
numerosi periodici. Narratore e saggista, ha scritto vari libri, tra i quali ricordiamo: Il
testimone (Fossataro, Cagliari 1967), L'invasione della Sardegna (Feltrinelli, Milano
1969),
Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna (Feltrinelli, Milano 1970, scritto sotto
pseudonimo), Un'isola per i militari (Marsilio, Padova 1972), Il diario dello stregone di
Iknusu (Marsilio, Padova 1973), Le lotte dei pescatori di Cabras (Marsilio, Padova 1973),
Quali banditi? (Bertani, Verona 1977), La Maddalena, morte atomica nel Mediterraneo
(Bertani, Verona 1978), I galli non cantano più (Bertani, Verona 1978). Ha in
preparazione il
romanzo Iknusu 74, nonché il volume Educazione popolare e movimento di
liberazione (ampi
stralci della cui prefazione pubblichiamo in queste pagine). Dessy ha in via di stesura il saggio
Contro la barbarie della civiltà e il romanzo autobiografico Una vita come
tante. |
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