Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 92
maggio 1981


Rivista Anarchica Online

A è... - a proposito del decennale della rivista
di Gabriele R.

Troppa grazia santantonio! Leggendo l'articolo di Nico Berti ("A" 89) sul decennale della rivista non ho potuto che fare questa esclamazione. Troppo logico, tutto così ben concatenato, soprattutto così coerente. Non ho potuto fare a meno di chiedermi cosa è stata per me, redattore di "A" da cinque anni, la rivista. Quali sono stati i suoi pregi e i suoi difetti, ma soprattutto quale è stata la sua funzione nel movimento. Da qui, il passare a chiedermi non quale è stata, ma quale deve essere la sua funzione nel movimento è stato un passo molto breve.
Innanzitutto cos'era che non approvavo nell'articolo? Il tono elogiativo o l'analisi? Dato che lascio volentieri le autoflagellazioni e le autocritiche distruttive a chi ama poi sentirsi dire: "Dai, in fondo non sei così cattivo come ti descrivi", è chiaro che era l'analisi di questi dieci anni di "A" che mi lasciava perplesso. Tralascio il primo periodo che io non ho conosciuto direttamente essendo entrato nel collettivo redazionale proprio in coincidenza con l'inizio della "svolta", come dice Nico, caratterizzata dall'apertura "alla domanda di libertarismo spontaneo che stava crescendo nei nuovi soggetti sociali". Mi interessa rianalizzare, invece, il secondo periodo.
Quando il collettivo redazionale decise di aprire a quell'area eterogenea che gravitava attorno all'idea anarchica senza però farne parte effettiva e militante, il primo problema che si pose fu quello del come porsi rispetto a quest'area. Da una parte senza peccare di incoerenza rispetto all'ideale anarchico in cui ci si riconosceva (utilizzando per esempio terminologie, linguaggi, e metodi tipici di quest'area, cioè camuffandosi da quello che non si era) e dall'altra rischiare di essere missionari tra i pagani con il compito santo e carismatico di indottrinarli servendo loro risposte precotte e già confezionate. Aprire all'area diciamo così "libertaria" significava per noi intervenire in quelle tematiche tipiche di quest'area che però sentivamo al tempo stesso nostre. Anche se, vuoi per un concetto monacale della militanza o per una forma di schizofrenia del rivoluzionario, considerate di second'ordine rispetto ai problemi più impellenti dell'analisi del sociale e della rivoluzione da perseguire, e quindi quasi mai prese in esame dalla pubblicistica anarchica. Temi come la lotta per l'ambiente, la riappropriazione del nostro corpo e del territorio in cui viviamo, i rapporti interpersonali, la sessualità, la cultura artistica, la creatività, ma soprattutto la comunicazione della rivolta entrarono a far parte del bagaglio di articoli con cui di mese in mese la rivista cercava di stimolare un dibattito, se non addirittura delle iniziative all'interno del movimento. Dall'altro lato si tentava di portare le analisi sociali e politiche, le proposte, storiche o attuali, fatte dagli anarchici per un intervento rivoluzionario all'esterno del movimento. Infatti, come primo passo in questa direzione la rivista, accettò di partecipare all'organizzazione del Festival del proletariato giovanile di Re Nudo che anche quell'anno (1976) si teneva al parco Lambro a Milano e che poi si rivelò come l'inizio della disgregazione del "movimento", come si usava chiamarlo allora, che avrebbe portato i suoi componenti su strade tanto diverse.
Questa apertura, che nelle intenzioni era partita con il piede giusto si è poi rivelata, secondo me, contrariamente a quanto dice Nico, una scelta complessa, soprattutto interpretata in modo diverso dai componenti della redazione stessa. Soprattutto non si sono fatti i conti con un elemento essenziale: il fatto che quasi tutti noi non facevamo parte di quest'area (per di più tanto eterogenea), non ne usavamo il linguaggio, non ne vivevamo direttamente la maggior parte dei problemi che la caratterizzavano. Inoltre il non voler rischiare, giustamente, strani connubi ideologici in nome di un'apertura (a scapito della coerenza di idee e ideali) ha comportato una posizione di analisi quasi sempre critica nei confronti di quest'area e delle sue tematiche.... Questo si rispecchiava, per esempio, nel linguaggio degli articoli, bloccando così quel ruolo di tramite tra area libertaria e movimento anarchico vero e proprio che la rivista si era posta come scopo. Inoltre la non conoscenza diretta di quest'area ci ha posto spesso contro la nostra volontà, nel ruolo di redattori e non di compagni o, se vogliamo usare un termine spregiativo, di giornalisti e non di testimoni. Ruolo evidenziato in parte dalla lettera di Franco Melandri sull'ultimo numero di "A": che noi della rivista eravamo visti come dei compagni specializzati anziché dei semplici compagni. Di questo ce ne accorgevamo soprattutto nelle semestrali assemblee con i lettori. Questo ruolo di tecnici ha in parte fregato anche noi, dato che non essendo noi affatto dei "tecnici" (nel senso di giornalisti, specializzati o meno) ci siamo spesso sentiti in dovere di affidare il compito di trattare argomenti e temi specifici ad altri "tecnici", che conoscevano l'argomento. Qui il discorso diventa spinoso in quanto oggetto tuttora di polemiche spesso speciose e ormai utili a tutti gli usi. L'aprire all'area libertaria cosa voleva dire? Dar voce solamente alle masse giovanili, urbane e non? Far parlare i "quasi-anarchici"? O aprire le pagine ad un dibattito che comprendesse anche voci che anarchiche non erano, ma che erano interessate alle tematiche anarchiche da punti di vista diversi, ma perlomeno non inficiati di dottrinarismo marxista o di autoritarismo travestito da paternalismo? Secondo me l'intenzione era buona: del resto anche il buon Malatesta, persona con tanto buonsenso in zucca, non disdegnava di partecipare a dibattiti con persone che sapeva non anarchiche. L'eresia è consistita nel fatto che fosse una pubblicazione anarchica e non viceversa ad accettare questo dibattito e questi interventi? Forse ci si dimentica di due cose: primo che una pubblicazione anarchica nasce e può vivere all'interno del movimento solo se manifesta la sua intenzione di non essere un organo dottrinale, portavoce di questa o quella linea; e secondo che è molto più facile che sia un intervento di un anarchico pubblicato dalla stampa di regime ad essere utilizzato in modo distorto per la riscossione del consenso. Forse qualcuno teme che i compagni siano così stupidi da credere che un articolo non anarchico su una pubblicazione anarchica ne macchi indelebilmente il pedigree? Per di più, su quest'ultimo punto, ci sarebbe molto da dire, dato che da questo punto di vista di preservazione farisaica della purezza dell'ideale ognuno ha i suoi bravi scheletri da tenere ben chiusi nell'armadio.
Secondo me, quindi, l'errore non fu di aprire le pagine ad interventi non anarchici, ma fu il modo di aprire queste pagine. Ho già detto che il ruolo involontario di analizzatori di una realtà che riconoscevamo libertaria, ma che in linea di massima era estranea alla nostra, ci ha spinto a cercare collaboratori che conoscessero questa realtà. Proprio questa ricerca ha fatto emergere all'interno della redazione una differenza che non ritengo sostanziale, ma che ha influito molto sull'aspetto stesso della rivista e sulla coerenza della sua azione, coerenza che invece Nico Berti vede cristallina e fluente. Facendo una divisione, da prendere con le pinze, si può dire che parte della redazione ha voluto privilegiare come interlocutore e come collaboratore quella massa eterogenea di giovani (proletari e non) che usciva disorientata o delusa dall'esperienza, ridicolmente portata a livello di strategia, della riappropriazione del privato secondo il ben noto e tristo slogan "il privato è politico". Massa che inoltre si portava dietro una tradizione negativa di semplicismo, inteso come massificazione dell'analisi sviluppata per slogan e parole d'ordine, facili da digerire per cervelli refrattari allo sforzo di un'analisi più approfondita della realtà di sfruttamento.
Dall'altro lato, una parte della redazione ha voluto privilegiare quel gruppo di studiosi, di intellettuali, di analizzatori non assillati da problemi duramente esistenziali come per i "giovani proletari", ma portati a contribuire con le loro analisi e la loro preparazione all'approfondimento del dibattito su temi molto più complessi, ma non per questo meno importanti. Ciò, però, ha portato con sé tutti i difetti che quest'area ha: la difficoltà del linguaggio, la farraginosità delle analisi, la meticolosità del ricercatore che passa quasi sempre come l'arte di rendere complicate le cose facili, il tutto, a parte l'opportunità o meno di certe collaborazioni, non ha potuto non dare, da un punto di vista superficiale, quell'aspetto di bla bla distaccato dalla realtà molto più drammaticamente concreta della lotta quotidiana. In questo non sono d'accordo con Nico Berti quando dice che fu una scelta felice e giustissima perché ha permesso di fare "una vera opera di mediazione teorico-culturale tra le varie voci del movimento". Anche se non sono nemmeno d'accordo con chi confonde semplicità di analisi con elementarietà del linguaggio, questa è una cosa che lascerei dire ai vari Enzo Biagi, ma non amo assolutamente il linguaggio da iniziati di certi "specialisti" che si cerca di giustificare con la difficoltà del tema trattato.
Questa divergenza di scelte all'interno di quest'area-interlocutore ha pur sempre avuto come base comune l'intento di contribuire all'emancipazione e a una maggior comprensione della realtà per trasformare la lotta da ribellista in rivoluzionaria. Ma ha spinto, secondo me, la rivista verso un'immagine che io ritengo sbagliata ma che non si può non registrare tra i compagni "portatrice" di opinione e non di "stimolatrice" di opinione (differenza fondamentalmente sostanziale) in parte per l'atteggiamento, come vedremo, delegante del movimento, in parte per questo aspetto intellettualistico di certi suoi articoli e delle tematiche che trattavano, lasciando perdere il linguaggio problema fin troppo evidente. Tutto ciò ha comportato, e secondo me la lettera di Franco Melandri è un buon termometro, un distacco dell'immagine e non della rivista stessa, dalla realtà del movimento. Ma parliamo ora proprio di questo benedetto movimento.
La prima sensazione per me che vivo la realtà redazionale della rivista e come anarchico è, riguardo al problema della pubblicistica anarchica, una sensazione, molto sgradevole, cioè una sensazione di delega. Perché, se da una parte è vero che certe scelte redazionali hanno potuto dare un'immagine della rivista come di una rivista fatta da specialisti e da "tecnici", dall'altra è stato il movimento stesso, e questa e un'accusa precisa, che ha creato questo ruolo preferendo delegare ai compagni che si occupano di pubblicistica il problema della diffusione e del dibattito delle e sulle idee anarchiche. Non posso accettare l'affermazione fatta di solito da chi non ha altro da dire che non sa scrivere, o che discutere è inutile bisogna agire, o che le tematiche trattate sono trattabili solo da chi ha profondamente studiato il problema. Non accetto quest'affermazione proprio perché (al di là del linguaggio che in sostanza è la forma e non il contenuto) un anarchico ha il "dovere" di intervenire sulla stampa anarchica se stimolato da una o svariate tematiche, fossero anche, se lo ritiene importante, quelle che riguardano il colore delle mutande quando si va ad una manifestazione. Il porsi nel ruolo di scrivente, e non in quello di contribuente o stimolante un dibattito, che assumono tanti compagni quando scrivono articoli, è secondo me uno dei sintomi di questa visione distorta della funzione della stampa anarchica. Visione che non può che portare alla trasformazione di uno strumento di diffusione dell'idea anarchica, quale deve essere una rivista che si dice tale, in un mass-media in formato ridotto, cioè in una rivista che dà una opinione piuttosto che stimolarla. Trasformazione che soverchia la buona fede e la buona volontà di chi ha scelto di lavorarci in modo militante.
È il movimento stesso che deve intervenire per mutare questa trasformazione. È il movimento che deve utilizzare questo strumento che l'impegno di alcuni compagni gli mette a disposizione. Certo è più facile dire: "non mi riconosco in questa o in quella pubblicazione" che contribuire al dibattito che essa propone. Così come è facile dire: "Non so usare il linguaggio scritto" che ammettere che spesso e volentieri si è rinunciato ad approfondire certi temi che pure stanno a cuore. E qui entriamo nel cuore del problema: una delle principali accuse (o meglio, osservazioni) che vengono rivolte alla rivista è quella di parlare in astratto, di perdersi in un mare di parole sganciandosi così dai problemi reali della lotta sociale, dalle tematiche conseguenti come detto. Ora, a parte che è tutto da dimostrare il binomio, dato invece per scontato da tanti compagni, "difficoltà del tema-scarsa incisività di lotta", non si può dimenticare, se non con un'affermazione farisaica, che è chi fa la lotta che deve utilizzare lo strumento rivista se gli interessa che questa lotta venga a conoscenza dei compagni e non. I compagni del collettivo redazionale rischiano altrimenti, per un ruolo che gli è stato delegato e non voluto, di fare i reporter e raccontare cosa sanno o hanno visto della lotta e del lavoro rivoluzionario fatto da altri. Questa secondo me è una situazione sintomatica di quello che sta avvenendo nel movimento: in realtà le iniziative pratiche e reali di lotta sono ormai ben poche. E non credo assolutamente come credono alcuni compagni che ciò sia dovuto all'aumentata repressione da parte dello stato che ha chiuso tutti i canali ancora aperti dove ci si poteva muovere in senso rivoluzionario. Cioè non credo che ci sia rimasta come alternativa lo scontro diretto e frontale con lo stato. Certo quest'aria tira nel movimento ultimamente e allora sembra ad alcuni che occuparsi di carceri e compagni prigionieri sia rimasta l'ultima cosa da fare. Così come del resto credo che il movimento anarchico deve essere un movimento sovversivo in quanto rivoluzionario, ma non dimentichiamoci che la sovversione, lo stimolo all'emancipazione e alla rivolta si fa soprattutto con altre armi che non quelle con il colpo in canna. In questo senso non posso accettare chi accusa la rivista di distacco dalla realtà rivoluzionaria perché si occupa anche di altri argomenti che non siano la lotta armata, l'insurrezionalismo, il carcerario ecc.. La mia critica alla rivista non può non essere espressa che in altri termini, secondo me ben più costruttivi, proprio in funzione di una sua futura funzione come strumento a disposizione del movimento.
Solo affrontando tematiche legate ad un possibile sviluppo concreto delle analisi sociali e rivoluzionarie fatte in questi anni, cioè ad una loro applicazione il più possibile immediata, la rivista potrà continuare ad essere uno strumento valido per e nel movimento. Ma l'affrontare queste tematiche non potrà essere frutto dell'intervento di "tecnici" vari che offrano manuali del come si fa, ma il frutto di un dibattito dal e per il movimento, arricchito dal racconto di chi queste esperienze ha già tentato o le sta tentando: in funzione di un progetto anarchico di cui si sono andati via via sbiadendo i contorni con il passare degli anni. Progetto ancora tutto da discutere, da riapplicare alla realtà, da costruire.
Questo ruolo propositivo in termini immediati o a lunga scadenza cadrebbe però di nuovo nel rischio dell'esercitazione intellettualistica se non fosse confortato da un modo nuovo da parte del movimento di intendere la militanza come applicazione pratica e quotidiana delle proprie idee. Forse vedremo allora chi veramente si nutre di parole e fumo negli occhi e chi crede all'ideale anarchico soprattutto come ad un'utopia realizzabile e da realizzare il più possibile nell'immediato e direttamente. È probabile che ci si ritrovi in un po' di meno di quanti ora amano firmare cartoline con le "A" cerchiate, ma comunque potremo dire di non aver sprecato fiato e fatica per niente. Il che, credetemi, è già un grossissimo passo avanti.