Rivista Anarchica Online
L'illusione armata
di Franco Melandri
Su queste pagine già si è scritto a proposito della nuova strategia delle BR (di fatto l'unica
organizzazione combattente sopravvissuta al contrattacco di Dalla Chiesa), tutta incentrata da un
lato sul tentativo di prendere le redini delle lotte carcerarie (vedi la rivolta di Trani) e dall'altro
sul tentativo di "rientrare in fabbrica" colpendo capi e capetti particolarmente invisi agli operai.
Già si è detto anche (vedi l'articolo di Roberto Ambrosoli "Carceri, bierre, lotta armata, ecc." su
"A" 90) di come questi tentativi siano solo dei ripieghi per tentare di sopravvivere al fallimento
del progetto lottarmatista. Alle riflessioni sopra citate ed a quelle riguardanti metodi, fini ed etica
delle organizzazioni lottarmatiste se ne possono tuttavia aggiungere altre due: la prima riguarda
le premesse ispirate all'insurrezionalismo, cui si rifanno tanto le organizzazioni combattenti
quanto coloro che, pur approvandone solo in parte fini e metodi, le ritengono parti emergenti di
un più vasto iceberg rivoluzionario, la seconda sulla prospettiva che ha oggi, in Italia, il progetto
della lotta armata. Riguardo alla prima questione si può affermare, schematizzando, che BR e simili si
sono basate,
e si basano su di un progetto strategico che vede come lotta culminante il momento
insurrezionale; momento che va propagandato, preparato, favorito dalla creazione di un nucleo
combattente e da una miriade di azioni che indichino alle masse sia quali sono i loro nemici sia la
possibilità di colpirli direttamente, infrangendo lo schermo di intangibilità di cui le istituzioni li
hanno ricoperti. Il tutto al fine di allargare la frattura (la cui esistenza è data per scontata) fra
proletariato ed apparati di dominazione. Ma, al di là della buona fede di molti dei guerriglieri
nostrani, la realizzazione di tale strategia ha portato a risultati ben diversi da quelli sperati. La
gran parte della gente lungi dall'allontanarsi dalle istituzioni ci si è stretta attorno; i mass-media
non solo non hanno gettato la maschera dell'"obiettività giornalistica" svelando il loro
asservimento alla classe dominante, ma anzi guidano il coro di "volemmose bene" che ha portato
la gente a rifiutare tanto le organizzazioni lottarmatiste quanto ogni istanza rivoluzionaria ed a
richiedere (come dimostra il successo della raccolta di firme per la pena di morte) più "ordine" e
più durezza verso ogni "perturbatore". Anche gli attentati a dirigenti, capi e capetti non sono
serviti a radicare nelle fabbriche le organizzazioni lottarmatiste e ad aumentare la combattività
operaia, mentre hanno favorito il disegno sindacale, confindustriale e statale di riportare la
disciplina nelle fabbriche, col risultato, desiderato dai sindacati, di stroncare quasi totalmente
ogni volontà di lotta radicale. Di fronte a tale desolante situazione qualcuno potrebbe pensare che la
responsabilità maggiore
vada attribuita agli errori di realizzazione di una strategia e di una tattica fondamentalmente
giuste; a mio avviso, invece, i risultati negativi ottenuti dalle organizzazioni lottarmatiste non
sono da attribuire tanto al militarismo o all'avanguardismo che ha quasi sempre caratterizzato BR
e soci; il militarismo e l'avanguardismo (oltre che originati dall'ideologia autoritaria di dette
organizzazioni) sono stati conseguenze del fallimento del progetto che sta alla base delle
organizzazioni combattenti; fallimento di cui, come notava Roberto Ambrosoli nell'articolo
citato, non si vuole prendere atto, ma che non per questo è meno reale. Io credo infatti che, come
si suol dire, il difetto stia nel manico, cioè nell'ipotesi strategica stessa. Cosa comporta infatti ipotizzare,
al momento attuale, l'insurrezione come unica possibilità
rivoluzionaria? Significa innanzitutto dare per scontata l'esistenza di una frattura insanabile, più o
meno coscientemente vissuta, fra masse e potere; una frattura dovuta, oltre che allo sfruttamento
economico, all'esistenza di un'autonoma cultura popolare, schiacciata dai detentori del potere,
che funga da supporto e da matrice delle lotte popolari. Una cultura che i riformisti potrebbero sì
tradire (anche da qui il "culto" più volte dichiarato per la vecchia base stalinista del PCI) ma che
comunque continuerebbe ad esistere e prosperare in vasti strati di popolazione. A mio parere
invece la frattura fra masse e potere non può esistere di per sé, e men che meno esiste
oggi che
ogni forma di autonoma cultura popolare è ormai da tempo sparita in quasi tutti i paesi
industrialmente avanzati e la gran massa delle persone partecipa alla "cultura" massificata dei
mass-media. Come interpretare altrimenti il pecorile seguito di cui gode ogni moda, ogni
abitudine, lanciata dai giornali o dalla TV? Cosa significa, se non totale appiattimento sul
disegno del potere, la scomparsa quasi generale di ogni velleità libertaria ed egualitaria, sostituite
dalla ricerca di affermazione individuale da raggiungersi ad ogni costo, anche a scapito e contro
coloro che fanno parte dello stesso gruppo o dei compagni di lavoro? Ed è proprio per la
mancanza di una cultura antitetica al potere che anche le eventuali insoddisfazioni ipotizzabili
(mai da considerare scontate) in chi subisce il potere in ogni sua forma non trovano sbocco nella
ricerca di valori libertari, mentre partoriscono (nel "migliore" dei casi: nel peggiore c'è la siringa
di eroina) le bande giovanili che si vedono ormai ovunque. Ne è d'altronde pensabile che la
"cultura antagonista" possa essere identificata (come invece ha fatto qualche lottarmatista di
ispirazione libertaria) in quel che rimane dell'ondata controculturale degli anni '60, o peggio
ancora nel diffondersi di certa "criminalità" politica o pseudo-tale. Questa, in quel poco di valido
che rimane, è troppo minoritaria, ghettizzata e racchiusa in se stessa perché si possa ipotizzare
che venga fatta propria da buona parte della popolazione. Riguardo infine al marxismo (dalle BR
identificato come "faro" ideologico e culturale) esso è ormai troppo in crisi, frammentato,
contraddittorio e da troppe parti usato per coprire le peggiori nefandezze perché gli oppressi
possano identificarlo come momento di identità culturale contrapposto al potere. Tralasciando
per un momento l'inappellabile rifiuto libertario del marxismo, va poi aggiunto che neanche le
società sedicenti "socialiste" fungono più (al contrario di quanto accadeva negli anni '40, '50 e
'60) da "immagine" sostitutiva nella cultura popolare ed il loro richiamo esercita sempre più
scarsa presa (fortunatamente!) anche sulla base del P.C.I.. Parallelamente alla fede nella "frattura insanabile"
(coscientemente riconosciuta) fra oppressi ed
oppressori, in molta parte dei rivoluzionari esiste l'identificazione fra rivoluzione ed insurrezione.
Insurrezione che viene vista come l'irrinunciabile "momento magico" in cui la gran parte della
popolazione rompe di colpo col vecchio mondo e si avvia a costruire il "mondo nuovo" abitato
da "uomini nuovi" comunisti. Anche questa concezione sta mostrando tuttavia (alla luce
dell'esperienza e dell'intelligenza) i suoi limiti. I cambiamenti radicali, infatti, quando sono stati veramente tali,
non sono avvenuti d'un colpo o
sulla scia delle azioni spettacolari di un ristretto nucleo di militanti ma in seguito ad una
lunghissima, e spesso "silenziosa", preparazione nelle cose e nelle coscienze; preparazione voluta
ed attuata dalle minoranze rivoluzionarie, ma in cui la "forza dell'esempio" (soprattutto se
armato) raramente si è rivelata lo strumento decisivo del cambiamento, rimanendo spesso solo un
"modo di essere" di alcuni rivoluzionari. Occorre rendersi conto che il pensare la rivoluzione
identificandola principalmente col momento insurrezionale è, nei fatti, un'utopia fortemente
venata di messianismo e per di più gravida di possibili risvolti totalitari. La rivoluzione (ed è
questa la grande difficoltà con cui quotidianamente dobbiamo scontrarci, ma è anche da qui che
può partire realmente l'ipotesi della liberazione umana) è un processo di cui è difficile
ipotizzare
fin d'ora i momenti culminanti e decisivi, che può vivere e progredire ogni giorno, senza
attendere che si creino gli "uomini nuovi", agendo con e negli uomini viventi qui ed ora affinché
acquisiscano la coscienza e la volontà di costruire la libertà, l'uguaglianza e la giustizia. Un
processo, infine, che comincia necessariamente col rifiutare ogni partecipazione ed ogni
identificazione con qualunque forma di potere (passato, presente o futuro) ma che non deve
illudersi sulle proprietà taumaturgiche del "radioso domani" e che tanto più progredisce quanto
più i rivoluzionari (che di questo processo sono gli "inventori" e gli iniziatori) agiscono in mezzo
alla gente con strumenti e modi di essere che, senza in nulla venir meno alla loro carica
rivoluzionaria, siano comprensibili ed allargabili a tutti coloro che il potere subiscono. A queste considerazioni
si aggiungono poi altri problemi che riguardano più specificamente il
carattere "militare" di un'eventuale insurrezione e che, a mio parere, concorrono a metterne in
dubbio l'utilità e la realizzabilità. Ammettendo infatti per un istante che buona parte della
popolazione fosse pronta
(ideologicamente e intenzionalmente) ad insorgere è necessario chiedersi che possibilità di
vittoria avrebbe una rivolta armata in un paese industrialmente avanzato ed al momento attuale.
Innanzitutto va messa in conto l'enorme difficoltà obiettiva di conquistare a mano armata ed in
tempi brevi e mantenere "zone liberate" che fungano anche da retrovie: le esperienze più recenti
(dal Giappone agli USA, dall'Irlanda del Nord alla Corea del Sud, al caso attuale del Salvador) ci
insegnano che allorché una certa zona insorge il potere non ha nessuna remora (né potrebbe
essere diversamente) ad usare ogni mezzo a sua disposizione per reprimere, come dimostrano i
carri armati e gli aerei usati contro gli studenti nella Corea del Sud e le autoblindo per le vie di
Bologna nel '77). E poiché il divario fra la capacità tecnologico-militare (basata su personale
volontario e quindi di provata fedeltà) di cui può disporre il potere è superiore a quella di
cui
potrebbero disporre gli insorti il risultato non potrebbe essere che catastrofico; come nel già
citato caso della Corea del Sud e come in Nicaragua prima che gli USA togliessero gli aiuti a
Somoza. Tralasciando il problema, drammatico da un punto di vista libertario, di coloro che
all'interno delle zone "liberate" operassero a favore del passato potere, a quanto detto sopra va
poi aggiunto che non è pensabile che un'eventuale ecatombe spaventi i detentori del potere. Se
non bastassero a dimostrarlo l'esperienza vietnamita, quella nicaraguense e le cifre (circa 150
milioni di morti, nella sola Europa) considerate "normali e sopportabili" in caso di guerra
atomica, va notato che un drastico calo di popolazione non solo non metterebbe in crisi il sistema
produttivo dei paesi industrialmente avanzati ma potrebbe rappresentare, paradossalmente,
un'ottima occasione per il potere di razionalizzarsi, potendo quest'ultimo sempre contare
sull'enorme serbatoio di manodopera rappresentato dai paesi del terzo mondo. Paesi le cui classi
dirigenti sarebbero ben felici (come già fanno in paesi come la Francia, in cui la popolazione sta
diminuendo) di riempire i posti lasciati liberi dai morti con i loro emigrati; con la conseguente
risoluzione di problemi interni (quali la disoccupazione) e col vantaggio proveniente dalle
rimesse di valuta pregiata e dal bagaglio di conoscenze che gli emigrati riporterebbero in patria
dai paesi avanzati. Fatte queste necessarie premesse si può passare al secondo degli interrogativi posti
all'inizio e
cioè: che possibilità ha oggi in Italia il progetto lottarmatista? L'ipotesi (avanzata da Pertini e
subito sostenuta da Reagan ed Haig) di un terrorismo voluto e manovrato da "centrali straniere"
al fine di destabilizzare l'Italia è, a mio parere, da scartare non tanto perché in assoluto
improponibile (molti esempi, vicini e lontani nel tempo, dimostrano come spesso le grandi
potenze hanno usato l'arma del terrorismo per creare difficoltà ai loro avversari) quanto perché
è
stata pensata, fatta ed usata esclusivamente all'interno del "gioco" fra USA e URSS. Ed anche le
"prove" portate a sostegno di tale ipotesi non provano, al di là del polverone sollevato da molti
giornali, proprio nulla se si esclude che esistono contatti noti da anni fra BR, PL ecc. ed alcuni
gruppi di Palestinesi. Sgombrato il campo dalle sparate presidenziali e tornando alla domanda
posta più sopra, la prima cosa che a mio parere salta all'occhio è che, come ho già detto
precedentemente, attualmente manca in Italia la base culturale e sociale perché l'ipotesi
lottarmatista possa sperare in un rilancio. Sulla situazione interna alle fabbriche, a quanto già detto
all'inizio si può aggiungere che neanche
in quelle fasce operaie scontente della politica del PCI e dei sindacati il progetto lottarmatista
trova molto spazio e neanche il recente ferimento alle gambe di un dirigente dell'Alfa di Arese o
l'incatenamento di un capo della Breda sono serviti ad invertire questa tendenza. Questo perché
l'ipotesi della lotta armata si è sempre manifestata, di fatto, esterna alle fabbriche e perché gli
operai scontenti, più coscienti e combattivi, hanno finora preferito agire, in aperto contrasto con
le dirigenze sindacali, come "spine nel fianco" dei sindacati stessi per impedire o frenare la loro
corresponsabilizzazione nella gestione delle fabbriche e della società. E soprattutto ora che il
sindacato vuole, per motivi contingenti, recuperare parte della combattività operaia, tale tendenza
della base operaia non solo non scomparirà ma, presumibilmente, accentuerà la sua pressione sul
sindacato tralasciando ogni altra eventuale possibilità di lotta. Né situazione più
favorevole alla lotta armata la si trova al di fuori delle fabbriche e se all'interno
di queste c'è ancora chi vuole lottare, al di fuori di esse la richiesta di "ordine e disciplina" è
pressocché generale (se si escludono forse poche realtà estremamente contraddittorie come ad
esempio Napoli). Controllato e gestito dai partiti questo vento moderato sta fornendo, fra le altre
cose, anche il consenso necessario perché passino una serie di "innovazioni" dall'istallazione
delle centrali nucleari alle leggi antiterrorismo allo strettissimo controllo poliziesco di ogni
ambito sociale e di ogni "diverso" da tempo nel cassetto dei "padroni del vapore". A tutto questo va poi aggiunto
anche che, nell'attuale situazione internazionale, l'Italia è una
pedina troppo importante per gli USA che (come dimostra il prossimo invio, unilaterale, di una
"task force" a Napoli) non avrebbero remore di alcun tipo nel fornire ai nostri governanti tutti gli
"aiuti" necessari a debellare un'eventuale conflittualità di massa. Per concludere, ritengo quindi che
risulti chiaro come la scelta delle BR di puntare tutto sulle
carceri sia dovuta alla sola volontà di sopravvivvere allo sfacelo politico della proposta
lottarmatista. Lottare nelle e contro le carceri è senza dubbio necessario e doveroso ma pensare
che da esse possa partire, o trarre linfa vitale, un nuovo rilancio rivoluzionario in Italia è cosa che
solo gli sciocchi o i miopi possono credere. Il problema reale che dobbiamo risolvere è come
portare le nostre proposte di lotta ovunque e come far sì che esse vengano capite e fatte proprie
dalla gente; sul "come farlo" la ricerca è aperta e se la storia recente ci mostra chiaramente che
alcune strade portano ad una sicura sconfitta, non per questo la ricerca di altre, più efficaci,
risulta più facile.
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