Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 92
maggio 1981


Rivista Anarchica Online

L'illusione armata
di Franco Melandri

Su queste pagine già si è scritto a proposito della nuova strategia delle BR (di fatto l'unica organizzazione combattente sopravvissuta al contrattacco di Dalla Chiesa), tutta incentrata da un lato sul tentativo di prendere le redini delle lotte carcerarie (vedi la rivolta di Trani) e dall'altro sul tentativo di "rientrare in fabbrica" colpendo capi e capetti particolarmente invisi agli operai. Già si è detto anche (vedi l'articolo di Roberto Ambrosoli "Carceri, bierre, lotta armata, ecc." su "A" 90) di come questi tentativi siano solo dei ripieghi per tentare di sopravvivere al fallimento del progetto lottarmatista. Alle riflessioni sopra citate ed a quelle riguardanti metodi, fini ed etica delle organizzazioni lottarmatiste se ne possono tuttavia aggiungere altre due: la prima riguarda le premesse ispirate all'insurrezionalismo, cui si rifanno tanto le organizzazioni combattenti quanto coloro che, pur approvandone solo in parte fini e metodi, le ritengono parti emergenti di un più vasto iceberg rivoluzionario, la seconda sulla prospettiva che ha oggi, in Italia, il progetto della lotta armata.
Riguardo alla prima questione si può affermare, schematizzando, che BR e simili si sono basate, e si basano su di un progetto strategico che vede come lotta culminante il momento insurrezionale; momento che va propagandato, preparato, favorito dalla creazione di un nucleo combattente e da una miriade di azioni che indichino alle masse sia quali sono i loro nemici sia la possibilità di colpirli direttamente, infrangendo lo schermo di intangibilità di cui le istituzioni li hanno ricoperti. Il tutto al fine di allargare la frattura (la cui esistenza è data per scontata) fra proletariato ed apparati di dominazione. Ma, al di là della buona fede di molti dei guerriglieri nostrani, la realizzazione di tale strategia ha portato a risultati ben diversi da quelli sperati. La gran parte della gente lungi dall'allontanarsi dalle istituzioni ci si è stretta attorno; i mass-media non solo non hanno gettato la maschera dell'"obiettività giornalistica" svelando il loro asservimento alla classe dominante, ma anzi guidano il coro di "volemmose bene" che ha portato la gente a rifiutare tanto le organizzazioni lottarmatiste quanto ogni istanza rivoluzionaria ed a richiedere (come dimostra il successo della raccolta di firme per la pena di morte) più "ordine" e più durezza verso ogni "perturbatore". Anche gli attentati a dirigenti, capi e capetti non sono serviti a radicare nelle fabbriche le organizzazioni lottarmatiste e ad aumentare la combattività operaia, mentre hanno favorito il disegno sindacale, confindustriale e statale di riportare la disciplina nelle fabbriche, col risultato, desiderato dai sindacati, di stroncare quasi totalmente ogni volontà di lotta radicale.
Di fronte a tale desolante situazione qualcuno potrebbe pensare che la responsabilità maggiore vada attribuita agli errori di realizzazione di una strategia e di una tattica fondamentalmente giuste; a mio avviso, invece, i risultati negativi ottenuti dalle organizzazioni lottarmatiste non sono da attribuire tanto al militarismo o all'avanguardismo che ha quasi sempre caratterizzato BR e soci; il militarismo e l'avanguardismo (oltre che originati dall'ideologia autoritaria di dette organizzazioni) sono stati conseguenze del fallimento del progetto che sta alla base delle organizzazioni combattenti; fallimento di cui, come notava Roberto Ambrosoli nell'articolo citato, non si vuole prendere atto, ma che non per questo è meno reale. Io credo infatti che, come si suol dire, il difetto stia nel manico, cioè nell'ipotesi strategica stessa.
Cosa comporta infatti ipotizzare, al momento attuale, l'insurrezione come unica possibilità rivoluzionaria? Significa innanzitutto dare per scontata l'esistenza di una frattura insanabile, più o meno coscientemente vissuta, fra masse e potere; una frattura dovuta, oltre che allo sfruttamento economico, all'esistenza di un'autonoma cultura popolare, schiacciata dai detentori del potere, che funga da supporto e da matrice delle lotte popolari. Una cultura che i riformisti potrebbero sì tradire (anche da qui il "culto" più volte dichiarato per la vecchia base stalinista del PCI) ma che comunque continuerebbe ad esistere e prosperare in vasti strati di popolazione. A mio parere invece la frattura fra masse e potere non può esistere di per sé, e men che meno esiste oggi che ogni forma di autonoma cultura popolare è ormai da tempo sparita in quasi tutti i paesi industrialmente avanzati e la gran massa delle persone partecipa alla "cultura" massificata dei mass-media. Come interpretare altrimenti il pecorile seguito di cui gode ogni moda, ogni abitudine, lanciata dai giornali o dalla TV? Cosa significa, se non totale appiattimento sul disegno del potere, la scomparsa quasi generale di ogni velleità libertaria ed egualitaria, sostituite dalla ricerca di affermazione individuale da raggiungersi ad ogni costo, anche a scapito e contro coloro che fanno parte dello stesso gruppo o dei compagni di lavoro? Ed è proprio per la mancanza di una cultura antitetica al potere che anche le eventuali insoddisfazioni ipotizzabili (mai da considerare scontate) in chi subisce il potere in ogni sua forma non trovano sbocco nella ricerca di valori libertari, mentre partoriscono (nel "migliore" dei casi: nel peggiore c'è la siringa di eroina) le bande giovanili che si vedono ormai ovunque. Ne è d'altronde pensabile che la "cultura antagonista" possa essere identificata (come invece ha fatto qualche lottarmatista di ispirazione libertaria) in quel che rimane dell'ondata controculturale degli anni '60, o peggio ancora nel diffondersi di certa "criminalità" politica o pseudo-tale. Questa, in quel poco di valido che rimane, è troppo minoritaria, ghettizzata e racchiusa in se stessa perché si possa ipotizzare che venga fatta propria da buona parte della popolazione. Riguardo infine al marxismo (dalle BR identificato come "faro" ideologico e culturale) esso è ormai troppo in crisi, frammentato, contraddittorio e da troppe parti usato per coprire le peggiori nefandezze perché gli oppressi possano identificarlo come momento di identità culturale contrapposto al potere. Tralasciando per un momento l'inappellabile rifiuto libertario del marxismo, va poi aggiunto che neanche le società sedicenti "socialiste" fungono più (al contrario di quanto accadeva negli anni '40, '50 e '60) da "immagine" sostitutiva nella cultura popolare ed il loro richiamo esercita sempre più scarsa presa (fortunatamente!) anche sulla base del P.C.I..
Parallelamente alla fede nella "frattura insanabile" (coscientemente riconosciuta) fra oppressi ed oppressori, in molta parte dei rivoluzionari esiste l'identificazione fra rivoluzione ed insurrezione. Insurrezione che viene vista come l'irrinunciabile "momento magico" in cui la gran parte della popolazione rompe di colpo col vecchio mondo e si avvia a costruire il "mondo nuovo" abitato da "uomini nuovi" comunisti. Anche questa concezione sta mostrando tuttavia (alla luce dell'esperienza e dell'intelligenza) i suoi limiti.
I cambiamenti radicali, infatti, quando sono stati veramente tali, non sono avvenuti d'un colpo o sulla scia delle azioni spettacolari di un ristretto nucleo di militanti ma in seguito ad una lunghissima, e spesso "silenziosa", preparazione nelle cose e nelle coscienze; preparazione voluta ed attuata dalle minoranze rivoluzionarie, ma in cui la "forza dell'esempio" (soprattutto se armato) raramente si è rivelata lo strumento decisivo del cambiamento, rimanendo spesso solo un "modo di essere" di alcuni rivoluzionari. Occorre rendersi conto che il pensare la rivoluzione identificandola principalmente col momento insurrezionale è, nei fatti, un'utopia fortemente venata di messianismo e per di più gravida di possibili risvolti totalitari. La rivoluzione (ed è questa la grande difficoltà con cui quotidianamente dobbiamo scontrarci, ma è anche da qui che può partire realmente l'ipotesi della liberazione umana) è un processo di cui è difficile ipotizzare fin d'ora i momenti culminanti e decisivi, che può vivere e progredire ogni giorno, senza attendere che si creino gli "uomini nuovi", agendo con e negli uomini viventi qui ed ora affinché acquisiscano la coscienza e la volontà di costruire la libertà, l'uguaglianza e la giustizia. Un processo, infine, che comincia necessariamente col rifiutare ogni partecipazione ed ogni identificazione con qualunque forma di potere (passato, presente o futuro) ma che non deve illudersi sulle proprietà taumaturgiche del "radioso domani" e che tanto più progredisce quanto più i rivoluzionari (che di questo processo sono gli "inventori" e gli iniziatori) agiscono in mezzo alla gente con strumenti e modi di essere che, senza in nulla venir meno alla loro carica rivoluzionaria, siano comprensibili ed allargabili a tutti coloro che il potere subiscono.
A queste considerazioni si aggiungono poi altri problemi che riguardano più specificamente il carattere "militare" di un'eventuale insurrezione e che, a mio parere, concorrono a metterne in dubbio l'utilità e la realizzabilità.
Ammettendo infatti per un istante che buona parte della popolazione fosse pronta (ideologicamente e intenzionalmente) ad insorgere è necessario chiedersi che possibilità di vittoria avrebbe una rivolta armata in un paese industrialmente avanzato ed al momento attuale. Innanzitutto va messa in conto l'enorme difficoltà obiettiva di conquistare a mano armata ed in tempi brevi e mantenere "zone liberate" che fungano anche da retrovie: le esperienze più recenti (dal Giappone agli USA, dall'Irlanda del Nord alla Corea del Sud, al caso attuale del Salvador) ci insegnano che allorché una certa zona insorge il potere non ha nessuna remora (né potrebbe essere diversamente) ad usare ogni mezzo a sua disposizione per reprimere, come dimostrano i carri armati e gli aerei usati contro gli studenti nella Corea del Sud e le autoblindo per le vie di Bologna nel '77). E poiché il divario fra la capacità tecnologico-militare (basata su personale volontario e quindi di provata fedeltà) di cui può disporre il potere è superiore a quella di cui potrebbero disporre gli insorti il risultato non potrebbe essere che catastrofico; come nel già citato caso della Corea del Sud e come in Nicaragua prima che gli USA togliessero gli aiuti a Somoza. Tralasciando il problema, drammatico da un punto di vista libertario, di coloro che all'interno delle zone "liberate" operassero a favore del passato potere, a quanto detto sopra va poi aggiunto che non è pensabile che un'eventuale ecatombe spaventi i detentori del potere. Se non bastassero a dimostrarlo l'esperienza vietnamita, quella nicaraguense e le cifre (circa 150 milioni di morti, nella sola Europa) considerate "normali e sopportabili" in caso di guerra atomica, va notato che un drastico calo di popolazione non solo non metterebbe in crisi il sistema produttivo dei paesi industrialmente avanzati ma potrebbe rappresentare, paradossalmente, un'ottima occasione per il potere di razionalizzarsi, potendo quest'ultimo sempre contare sull'enorme serbatoio di manodopera rappresentato dai paesi del terzo mondo. Paesi le cui classi dirigenti sarebbero ben felici (come già fanno in paesi come la Francia, in cui la popolazione sta diminuendo) di riempire i posti lasciati liberi dai morti con i loro emigrati; con la conseguente risoluzione di problemi interni (quali la disoccupazione) e col vantaggio proveniente dalle rimesse di valuta pregiata e dal bagaglio di conoscenze che gli emigrati riporterebbero in patria dai paesi avanzati.
Fatte queste necessarie premesse si può passare al secondo degli interrogativi posti all'inizio e cioè: che possibilità ha oggi in Italia il progetto lottarmatista? L'ipotesi (avanzata da Pertini e subito sostenuta da Reagan ed Haig) di un terrorismo voluto e manovrato da "centrali straniere" al fine di destabilizzare l'Italia è, a mio parere, da scartare non tanto perché in assoluto improponibile (molti esempi, vicini e lontani nel tempo, dimostrano come spesso le grandi potenze hanno usato l'arma del terrorismo per creare difficoltà ai loro avversari) quanto perché è stata pensata, fatta ed usata esclusivamente all'interno del "gioco" fra USA e URSS. Ed anche le "prove" portate a sostegno di tale ipotesi non provano, al di là del polverone sollevato da molti giornali, proprio nulla se si esclude che esistono contatti noti da anni fra BR, PL ecc. ed alcuni gruppi di Palestinesi. Sgombrato il campo dalle sparate presidenziali e tornando alla domanda posta più sopra, la prima cosa che a mio parere salta all'occhio è che, come ho già detto precedentemente, attualmente manca in Italia la base culturale e sociale perché l'ipotesi lottarmatista possa sperare in un rilancio.
Sulla situazione interna alle fabbriche, a quanto già detto all'inizio si può aggiungere che neanche in quelle fasce operaie scontente della politica del PCI e dei sindacati il progetto lottarmatista trova molto spazio e neanche il recente ferimento alle gambe di un dirigente dell'Alfa di Arese o l'incatenamento di un capo della Breda sono serviti ad invertire questa tendenza. Questo perché l'ipotesi della lotta armata si è sempre manifestata, di fatto, esterna alle fabbriche e perché gli operai scontenti, più coscienti e combattivi, hanno finora preferito agire, in aperto contrasto con le dirigenze sindacali, come "spine nel fianco" dei sindacati stessi per impedire o frenare la loro corresponsabilizzazione nella gestione delle fabbriche e della società. E soprattutto ora che il sindacato vuole, per motivi contingenti, recuperare parte della combattività operaia, tale tendenza della base operaia non solo non scomparirà ma, presumibilmente, accentuerà la sua pressione sul sindacato tralasciando ogni altra eventuale possibilità di lotta.
Né situazione più favorevole alla lotta armata la si trova al di fuori delle fabbriche e se all'interno di queste c'è ancora chi vuole lottare, al di fuori di esse la richiesta di "ordine e disciplina" è pressocché generale (se si escludono forse poche realtà estremamente contraddittorie come ad esempio Napoli). Controllato e gestito dai partiti questo vento moderato sta fornendo, fra le altre cose, anche il consenso necessario perché passino una serie di "innovazioni" dall'istallazione delle centrali nucleari alle leggi antiterrorismo allo strettissimo controllo poliziesco di ogni ambito sociale e di ogni "diverso" da tempo nel cassetto dei "padroni del vapore".
A tutto questo va poi aggiunto anche che, nell'attuale situazione internazionale, l'Italia è una pedina troppo importante per gli USA che (come dimostra il prossimo invio, unilaterale, di una "task force" a Napoli) non avrebbero remore di alcun tipo nel fornire ai nostri governanti tutti gli "aiuti" necessari a debellare un'eventuale conflittualità di massa.
Per concludere, ritengo quindi che risulti chiaro come la scelta delle BR di puntare tutto sulle carceri sia dovuta alla sola volontà di sopravvivvere allo sfacelo politico della proposta lottarmatista. Lottare nelle e contro le carceri è senza dubbio necessario e doveroso ma pensare che da esse possa partire, o trarre linfa vitale, un nuovo rilancio rivoluzionario in Italia è cosa che solo gli sciocchi o i miopi possono credere. Il problema reale che dobbiamo risolvere è come portare le nostre proposte di lotta ovunque e come far sì che esse vengano capite e fatte proprie dalla gente; sul "come farlo" la ricerca è aperta e se la storia recente ci mostra chiaramente che alcune strade portano ad una sicura sconfitta, non per questo la ricerca di altre, più efficaci, risulta più facile.