Rivista Anarchica Online
Il doporeferendum
di Roberto Ambrosoli
La definizione più centrata, circa l'esito dei referendum, l'ha data sinteticamente Spadolini, che
ha parlato di "vittoria del parlamento". Un modo elegante (altri, fra i rappresentanti dei partiti,
sono stati invece assai rozzi) per sottolineare come sia stato ristabilito l'ordine delle competenze:
le leggi le fa la classe politica; i cittadini, i sudditi, non devono metterci il naso. E i cittadini, i
sudditi, hanno diligentemente confermato: quello che fa babbino, cioè lo stato, è sempre ben
fatto, né vi sono cambiamenti di sorta da apportare. Ben fatta e la legge Cossiga, approvata da più
dell'85% dei votanti. Ben fatta è la legge sul porto d'armi, approvata dall'86% dei votanti. Ben
fatto è l'istituto dell'ergastolo, cui plaude oltre il 77%. Ben fatta è anche la 194, l'aborto di stato,
che è risultato preferito a quello del Movimento per la Vita da quasi il 68% e a quello radicale da
ben l'88,5%. Certo, sulle sottili motivazioni psicologiche che stanno all'origine di questo plebiscito per lo
status quo si potrà anche discutere, in qualche caso. È teoricamente possibile, infatti, che non
tutti si rendano conto appieno di quali poteri, di quale discrezionalità d'intervento, la legge
sull'ordine pubblico doti polizia e magistratura, e che il "no" alla sua abrogazione, quindi, non sia
sempre sinonimo di particolari suggestioni forcaiole. Ed è anche teoricamente possibile che una
parte di coloro che si sono opposti all'abolizione del porto d'armi non abbia con ciò inteso,
implicitamente, richiedere maggior durezza nella lotta contro "criminali e terroristi", ma, più
semplicemente, abbia voluto sottrarre allo stato il monopolio totale dell'armamento, un'idea, in
sé, ingenua ma non completamente reazionaria. Ma come definire, se non un invito aperto alla
repressione, il risultato del referendum sull'ergastolo, soprattutto tenendo conto che la sinistra
ufficiale, PCI in testa, si era dichiarata, in blocco, favorevole all'abrogazione? E come non
considerare che, in un quadro generale di avallo dell'operato statale, l'unica proposta di
cambiamento che abbia riscosso una percentuale ragguardevole di consensi (32%) sia stata quella
degli antiabortisti, vale a dire di chi premeva per una legislazione più restrittiva e autoritaria?
Mentre l'aborto radicale, la proposta più "libertaria" tra tutte, è quella che è stata rifiutata
con la
maggioranza più alta? Sono risultati che fanno pensare, che devono fare pensare. Intanto,
perché dimostrano una volta
di più (se mai ce ne fosse bisogno) che la strategia referendaria è illusoria e perdente, come
strategia per la realizzazione di, anche minimi, miglioramenti della vita sociale. Questo vale la
pena di ricordarlo non tanto ai radicali (che lo sanno benissimo: alla televisione, mentre Casini,
col suo 32%, accusava onestamente il colpo, Pannella, col suo 11%, pontificava come un
democristiano della peggior risma), quanto a quei libertari che, anche stavolta, facendo i soliti
distinguo rispetto alle elezioni, si sono sentiti l'uzzolo della scheda. Mai come oggi, il
referendum premia l'opera statale di controllo delle opinioni: in tempi incerti quali i nostri, in
tempi di crisi, l'insicurezza e la paura dei sudditi (abilmente condizionati) sono il miglior
sostegno dello stato. Se oggi si parla insistentemente di "riformare" l'istituto del referendum
(cioè, nei fatti, abolirlo) è perché esso, come strumento di legittimazione, è
disagevole e costoso,
non certo perché è pericoloso per l'equilibrio del potere. Ma un'altra considerazione si impone.
Questa "vittoria del parlamento" è un brusco richiamo alla
realtà per quanti, fra i rivoluzionari di varie tendenze, anche libertari, hanno creduto
ottimisticamente di poter teorizzare il superamento della propaganda verbale, dell'opera di
convincimento, di approfondimento e diffusione delle ragioni della propria opposizione al
sistema, coltivando l'illusione che i tempi fossero maturi per forme di lotta più incisive e
risolutrici. In particolare, è un brusco richiamo per gli apologeti della lotta armata, della quale, in
un clima come l'attuale, è ormai manifesta l'incapacità a stimolare prese di coscienza positive,
almeno dal punto di vista libertario. Più in generale, però, è un richiamo per tutti noi, a non
dimenticare che la rivoluzione libertaria non è un colpo di stato, bensì una rivolta cosciente e
consapevole del maggior numero possibile di uomini e donne. Il che comporta la necessità,
proprio in simili frangenti di consenso verso le istituzioni, che la nostra azione si misuri sempre
con la capacità di ricezione del nostro referente sociale. Tuttavia, non è il caso di abbandonarsi
al pessimismo più disperato. A controbilanciare la portata
reazionaria di questi referendum, c'è l'aumento, innegabile, significativamente rilevante, delle
astensioni: più del 20% degli elettori non è andato a votare (la percentuale più alta dal
dopoguerra), e ad essi andrebbero aggiunti quelli che hanno votato scheda bianca e quelli che
hanno volontariamente annullato la scheda. In alcuni luoghi dove l'inganno statale si è rivelato
con maggiore evidenza (per esempio, dove le popolazioni hanno avuto modo di sperimentare
l'amorosa sollecitudine del pubblico potere dopo il terremoto), le astensioni sono arrivate al 50%.
Ciò testimonia che, mentre da un lato l'accettazione del sistema si fa sempre più passiva e
acritica, dall'altro cresce il numero di coloro che nel sistema non si riconoscono più, e si
sottraggono alle sue liturgie. C'è ancora chi accetta il gioco, con le sue regole imposte, e questi si
stringono sempre più attorno allo stato. Ma c'è anche chi lo rifiuta, e non sono soltanto i soliti
quattro anarchici in compagnia di qualche decina di vecchietti paralitici. Ma, anche qui,
dobbiamo contenere la nostra soddisfazione. In tale rifiuto, infatti, si possono riconoscere,
accanto ai sintomi di un inizio di ribellione, anche quelli, assai meno confortanti, della
rassegnazione, del disinteresse, del rifugio di ciascuno nel "suo particolare", che non sono
necessariamente il preludio ad una maturazione degli animi verso forme più attive di
opposizione. In altri termini, mentre non è azzardato prevedere un progresso del divorzio tra
cittadini e istituzioni, nell'immediato futuro, nulla ci autorizza a ritenere che esso non possa
essere strumentalizzato e trasformato in una resa senza condizioni di fronte allo strapotere statale.
A meno che gli anarchici (non vediamo chi altri possa aiutarci, in ciò) non sappiano impegnarsi a
fondo, moltiplicando gli sforzi, per offrire a questo dissenso passivo quell'alternativa (di
motivazioni, di progetto emancipatore) capace di farlo uscire dall'inerzia. Chi vivrà, vedrà.
|