Rivista Anarchica Online
Anarchia ora
di Gabriele R.
Alcuni compagni si sono posti il problema di votare o meno al referendum per l'aborto. Certo
l'aborto è un problema che purtroppo riguarda anche noi, (è ben lungi il fatto che esistano
rapporti sessuali liberati tra anarchici o con gli anarchici) però questi compagni mi devono
spiegare se non è una contraddizione dirsi contro lo stato e le sue leggi e poi preoccuparsi se
qualcuno vuole abrogare o mantenere una di queste leggi. Certo l'aborto è un problema umano e
non un problema dello stato, ma non è proprio per questo che sta a noi scavalcare o meglio
scalzare lo stato organizzandoci, legge o non legge, perché si possa abortire liberamente? Se ci
proclamiamo contro lo stato ci poniamo automaticamente nella posizione di suoi nemici cioè di
sovversivi, irrimediabilmente fuori legge. Non è il problema dell'aborto, però, che mi fa pensare,
ma proprio l'atteggiamento dei compagni o di alcuni di essi. È secondo me un atteggiamento
sintomatico, dolorosamente sintomatico direi. Non è solo una questione di metodo ma una
questione ben più importante che coinvolge il modo stesso di vedere e di vivere l'anarchia. È
innegabile che noi si sia costretti a vivere una situazione di schizofrenia, obbligati come siamo,
per sopravvivere, ad accettare il compromesso quotidiano del lavoro o meglio dello sfruttamento
del nostro lavoro, ad accettare un sistema che si basa sul possesso, sul denaro e sulla scala di
valori e di privilegi che questo sistema pretende e crea; ad accettare una società dello spettacolo
dove anche la morte è oggetto di divertimento, che tende ad appiattire tutte le menti e le
coscienze. È innegabile che noi si sia costretti a vivere quotidianamente il suplizio di Tantalo di
chi brama libertà e ha in cambio solo violenza, soprusi e calci nelle gengive. Ma allora perché, e
qui riporto un malessere che sento diffuso tra i compagni, tutto ciò non si concretizza in qualcosa
di reale, di immediato, di tangibile? L'"anarchia ora", l'anarchia subito, l'anarchia come bisogno
esistenziale prima che come bisogno politico. Tanti preferiscono dare la colpa a questa o quella
tendenza esistenti nel movimento, che frenerebbe o devierebbe le lotte, gli intenti, ecc.. Ma la
colpa è di chi non fa, non di chi agisce cercando di dare il suo apporto, efficace o inefficace che
sia. Mi sembra di vedere quelli seduti dietro a Tom Sawyer mentre dipinge lo steccato, così
prodighi di consigli, critiche sferzanti, lazzi e cazzi vari. Ma il problema non si può ricondurre a
questioni di risentimento o di superbia, esso è molto più importante, secondo me, e radicale. In
realtà il problema siamo noi, il nostro essere anarchici part-time, il nostro atteggiamento di
delega anche rispetto a problemi, come per esempio l'aborto, che più di altri richiederebbero fatti
diretti e non parole savie e volanti. Ci sono tanti elementi che contribuiscono a creare questa
realtà forse più schizofrenica di quella che il sistema ci costringe a vivere, proprio perché
quella
di anarchici è una realtà che si vorrebbe accettata liberamente. Il dubbio ha il valore dell'offesa
quando non è suffragato da prove tangibili, ma me ne si
permettano alcuni. Primo dubbio, senz'altro il più importante: ma si vuole veramente l'anarchia? Bumm!
Certo
sembra uno sproposito, ma non può non venirmi di fronte a tanti atteggiamenti, di fronte
soprattutto a un certo spirito di ineluttabilità, di "dolorosa rassegnazione" per cui ogni azione
proposta è o utopistica o demagogica o scarsamente incisiva o poco aderente alla realtà o non
rivoluzionaria e via di questo passo. Noi non siamo immuni dagli allettamenti che il sistema ci
offre per metterci la corda al collo e, se da una parte è vero che "vivere bene" non è un privilegio
o una prerogativa di una società basata sullo sfruttamento, dall'altra non possiamo dimenticare
che fino a che questa possibilità di "vivere bene" ci viene offerta dal sistema essa è soggetta alla
sua legge di sfruttamento. Nessuno vuole una società anarcospartana, ma la possibilità di
edificare una società anarco-benestante nasce solo da due elementi: l'abbattimento di chi
attualmente privilegia a sé la possibilità di "vivere bene" e soprattutto la costruzione di un'altra
società dove "vivere bene" sia un elementare diritto, ben diverso da quello che il sistema ci offre
adesso. In parole povere non ha senso fuggire da una casa perché infestata dai topi senza sapere
se si andrà in una casa infestata dai serpenti o se addirittura questa casa esiste. Non credo che basti lo
spirito di rivolta generato dal sentirsi sfruttati a permetterci di costruire
l'anarchia. Una società anarchica non è il rovescio della medaglia di una società di potere,
ma è
una cosa ben più complessa e comunque molto, ma molto diversa. Resta poi da vedere - e questo
è il secondo dubbio - se nel momento in cui il dolore provocato dalla coscienza di essere sfruttati
diventa un po' più labile, con una maggiore disponibilità economica, con un lavoro che può
"piacerci", con queste e mille altre "soddisfazioni" che il sistema ci "regala", resta da vedere
dicevo, se c'è ancora tanta voglia di ribellarsi. Resta da vedere insomma fino a che punto la
nostra anarchia è un moto di ribellione a soprusi che riceviamo o un bisogno ben più profondo di
costruzione di una esistenza diversa, completamente diversa. In fin dei conti noi viviamo in una
società di relativo benessere, i nostri problemi sono sempre più spesso esistenziali che materiali.
E se fossimo nati in Africa o in qualsiasi altro Paese del Terzo Mondo? In qualsiasi caso
l'edificazione della anarchia non può essere vincolata al grado di sfruttamento a cui siamo
sottoposti, altrimenti tutto si ridurrebbe a una questione di bisogno individuale immediato di
liberazione. Passata (almeno apparentemente) l'angoscia di essere sfruttati, passato il bisogno di
anarchia? In questo lo stato è ancora molto interiorizzato in noi. Esistono molti luoghi comuni che, come
tutti i luoghi comuni, hanno in sé un fondo di verità e
tantissima generalizzazione. Questi luoghi comuni emergono ogni momento nei nostri gesti,
nelle nostre parole, nel nostro modo di pensare. Più che luoghi comuni li si potrebbe chiamare
"standard". Standard comportamentali, standard di linguaggio, standard mentali. Essi sono un
altro "regalo" che il sistema ci ha fatto e ci fa, preoccupandosi, fin dalla nascita, di pensare lui per
noi, di predigerirci le idee, i gesti, le parole. Forse è il "regalo" più pericoloso perché porta
con sé
due elementi ben precisi che emergono anche nel nostro essere anarchici: il primo - e più
evidente - è la perdita della capacità o dell'abitudine di essere noi stessi, con la conseguenza di
ragionare per standard, parlare per standard, vivere per standard, per cui la nostra mente ha
bisogno di stereotipi, di parametri su cui appoggiare il proprio ragionamento. E il secondo ancora
peggiore è il bisogno che qualcuno crei questi standard, che ci dica come fare, come parlare,
come pensare e poi cosa fare, cosa dire, cosa pensare. In fondo è comodo, non si fa fatica, c'è chi
ti premastica e ti predigerisce i problemi e poi paf! ti spiattella lì la soluzione o più soluzioni di
modo che si può anche scegliere, che democrazia! E tutto ciò si avverte anche fra noi. Qual è
il
problema, l'aborto? Dov'è il tecnico? Dov'è lo specialista? Dov'è quello che ha studiato il
problema? Lui sa, lui è preparato. Ma ad essere incinta sono io grazie al mio "partecipe"
compagno? Chiedi al tecnico, lui ha la soluzione. Ma non ci si potrebbe organizzare? Non si può:
è utopistico, non ci sono i mezzi. È una esagerazione? Veniamo ora, anche se si potrebbe e
dovrebbe andare avanti in questo discorso, ad un altro
aspetto del problema "anarchia ora": il progetto anarchico. Il progetto o i progetti? Credo che
ognuno ne abbia nel cassetto del comò o della testa almeno uno. Il che non è neanche un male
dato che noi non siamo un partito che deve presentare un programma elettorale. Il problema,
secondo me, sta nella visione della realtà, non nel progetto che gli si vorrebbe applicare, quello
semmai è un fattore conseguente, non antecedente. Credo che sia chiaro a tutti che la possibilità
di edificare una società anarchica non sia dietro l'angolo, il che non vuole dire che non esista la
possibilità di cominciare a farlo. Oppure vogliamo ricondurre il problema al fatto se questa
edificazione debba cominciare prima dopo o durante l'abbattimento del sistema? L'edificazione
dell'anarchia non è un problema di metodo, ma un bisogno impellente. Ora se c'è qualcuno che
pensa "o tutto subito o niente" è meglio che si metta il cuore in pace e lasci perdere: eviterà
così
anche penose discussioni sulla sua... buona fede. Il problema è che parecchi compagni pensano
sempre più spesso che non sia più possibile cominciare anche dal minimo. Questo - secondo me -
per vari motivi. Le ragioni "esistenziali" le abbiamo viste prima. Altri invece si stanno
convincendo che il sistema ha chiuso o sta chiudendo tutti gli spazi, che ci avviamo o che già
siamo tra le mura di un'unica enorme prigione che ha scritto sul cancello "stato italiano". Altri
ancora pensano che se non esiste prima un progetto preciso, uno studio più che approfondito di
tutti i problemi, un'analisi precisa della realtà, delle possibili forme di organizzazione, delle
possibili forme di difesa dalla repressione del sistema, ecc. non si possa sviluppare niente di
concreto e soprattutto di effettivamente incidente sulla realtà stessa. C'è qualcosa di vero in
ognuna di queste posizioni, ma, secondo me, tutte prescindono da un fatto molto importante, cioè
che oggi come oggi pochi provano o hanno provato ad applicare le idee anarchiche alla realtà
oggettiva: applicarle in senso pratico, voglio dire, e non in modo simbolico, o se vogliamo
"politico" in funzione emancipativa, come se la propria emancipazione non passasse proprio
dalla applicazione immediata, pratica e quotidiana dell'anarchia che professiamo. Allora è chiaro
che non può che sembrare un paradosso il fatto che esista una pubblicistica anarchica così
sviluppata rispetto ad un movimento che lo è molto meno. Per di più, mentre cresce
l'atteggiamento di delega rispetto ad essa da parte dei compagni; "teorizzare per teorizzare è
meglio che lo faccia chi ne è capace: chi sa scrivere, chi è più preparato, chi ha la mente
più
elastica, chi (sic!) è più 'intelligente'". Certo, ci si può "specializzare" in qualche settore dove
i
problemi immediati e pratici possono essere ancora molto legati alla realtà oggettiva, come le
carceri, l'antimilitarismo, o la "cultura", e il resto? Chi rifiuta l'asindoto che non ci sia più niente
da fare perché adesso è la repressione dello stato il problema principale, cosa deve
fare? L'anarchia è una realtà molto più bella degli anarchici, ma dato che non
può evidentemente
esistere senza di loro è giusto che si faccia i conti con le nostre possibilità. Non sto giocando a
buttar merda sui compagni, ma neanche possiamo mettere le fette di salame sugli occhi per non
vedere questa realtà che, pur con mille sfumature, ci sta davanti. Ma poi cosa significa "il resto"?
Cos'è che realmente è possibile fare? Quali spazi ancora ci restano in cui seminare quella
"gramigna sovversiva" che è l'anarchia? Si può iniziare con un aneddoto. Alcuni mesi fa
discutendo con un compagno della tipografia di Carrara mi fece un discorso che al momento mi
fece incazzare, forse perché punto nell'orgoglio di "redattore", che suonava più o meno così:
"A
me non frega gran che di quello che leggo nelle pagine della nostra stampa che passano nella mia
rotativa, quello che per me è importante è dimostrare che si può lavorare, sopravvivere e
vivere
in modo anarchico e cioè senza padroni, facendo un lavoro in modo umano, provando piacere e
anche orgoglio per quello che faccio, riuscendo ad avere un rapporto paritario con i compagni
con cui divido questo lavoro. Quello che mi sta a cuore, se vogliamo metterlo su un piano
politico, è mostrare e dimostrare che esiste una realtà completamente diversa che può vivere
sotto
il segno della libertà sia su un piano economico, sia su un piano sociale sia su un piano
esistenziale". Aveva ed ha ragione. Ogni aspetto della nostra realtà quotidiana ha il suo
corrispettivo anarchico. Proprio perché siamo un movimento irrimediabilmente sovversivo,
irrimediabilmente fuori legge, abbiamo il "dovere" di costruire la nostra realtà al di là e al di fuori
di quella che è la realtà stato. Secondo me, il resto è paura di costruirla questa
realtà. Se non
vogliamo, al prossimo referendum, ritrovarci a discutere se votare o no, perché l'aborto è una
cosa che riguarda anche noi. Tutto riguarda anche noi. Non dobbiamo dimostrare che può esistere
una forma di lavoro diversa da quella di chi sfrutta e si fa sfruttare, dobbiamo costruire e
organizzare una forma di lavoro diversa da quella. Non dobbiamo dimostrare che esiste una
forma di comunicazione diversa da quella alienante dei mass-media o autoritaria dei rapporti
interpersonali di questa società, dello spettacolo, dobbiamo vivere e costruire una forma di
comunicazione diversa. Non dobbiamo dimostrare che esiste una forma di abitabilità delle città,
del territorio diversa da quella mostruosa delle città dormitorio o delle campagne bruciate dai
fitofarmaci, dobbiamo creare delle città fatte per gli uomini o se occorre distruggerle. Non
dobbiamo raccontare come sarà o come sarebbe bella l'anarchia, dobbiamo cominciare a viverla.
L'"anarchia ora" è molto meno lontana di quello che sembra, chi è lontano sono gli anarchici.
Eppure di possibilità, secondo me, ce ne sono ancora tantissime. Non possiamo arrestarci atterriti
perché vediamo quanto, parallelamente a noi, e mille volte più di noi, si evolve il potere. Certo
che se i problemi non sono quelli che ci pone il come organizzarsi, ma ancora quelli del
come aggregarci, dell'affinità, della paritarietà dei rapporti, allora non si può parlare di
movimento anarchico, ma di momentanea ed eterogenea aggregazione di individui anarchici.
Certo può sembrare poca cosa, e forse un po' egoistica, il preoccuparsi di tentare di risolvere dal
minimo e dal quotidiano il problema della liberazione degli sfruttati, ma credo proprio che
quando si parla di esempio dei fatti non ci si possa riferire che a questo.
Tutto può sembrare poco efficace di fronte alla massa minacciosa dello stato-moloch, tutto può
sembrare facile preda della repressione, tutto può sembrare, ma almeno è qualcosa di concreto
che può sembrare e non un vuoto possibilismo o impossibilismo, fatto di ma, di se, di forse, ecc..
Qualcuno potrà obiettare: "Già, ma alla fine non dici quali sono questi spazi, quali
possibilità ci
sono di costruirla questa 'anarchia ora', dove, come, quando"; forse sto solo mettendo le mani
avanti, ma non servirebbe questo intervento se alla fine fosse corredato da un elenco di ciò che
"si può fare". Certo è un buon utilizzo, secondo me, della stampa anarchica quello che presenta
questi spazi, li propone su un piano concreto (non ho paura dei vademecum quando sono
controinformazione) ma preferirei certamente che su cinquantadue pagine di questa rivista,
quaranta fossero occupate dalle "cronache sovversive" al di là della "funzione" o del valore che la
redazione voglia dare loro.
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