Rivista Anarchica Online
L'immagine (ir)reale
di Emilio Pucci
"Immagini ovunque sempre: immense luminescenti, per la pubblicità - detersivi elettrodomestici
aperitivi cantautori ministri - in una striscia senza fine, che avvolge i muri della città; tascabili
come una scatola di fiammiferi o un documento d'identità; a mosaico, nel rotocalco settimanale;
isolate tra spazi densi di parole, nella pagina di un quotidiano: disperse tra i fogli di un libro
illustrato; a colori o in bianco e nero, sulle confezioni del droghiere, sul calendario del barbiere,
sul pieghevole del turista; occhieggianti sussurranti carezzevoli, e sempre promettenti
incoraggianti adulanti adescanti". (I. Zannier, "Conoscere la Fotografia", ed. Il Castello
1978)
Di immagini fotografiche ce ne scorrono sotto gli occhi centinaia di migliaia in poco tempo, ci
turbinano intorno a una velocità pazzesca trascinandoci in un vortice di schizofrenia. Se
consideriamo, infatti, che il tempo minimo di lettura di ogni immagine è brevissimo (si tratta di
frazioni di secondo) e se consideriamo che esse poiché sono la trasformazione-in-oggetto della
realtà possono trovarsi sistemate nei posti più impensabili (in piena città possiamo trovare
una
fotografia del deserto del Sahara vicino a quella del ghiacciaio del Polo Nord), ne risulta che con
nessun attributo se non quello di "schizofrenico" si può indicare il nostro modo di vivere le
immagini nella società. Eppure sarebbe impossibile concepire la nostra società, quella di massa,
senza l'immagine
fotografica, così come sarebbe impossibile concepirla senza la corrente elettrica. Troppo poco
però, si riflette sul potere mistificante dell'immagine fotografica; quel suo essere oggetto
dell'oggetto riprodotto; quel suo trasformare un soggetto in oggetto; quel suo esterno fingere il
vero.
Trascinati dallo stupore e dalla meraviglia nei confronti del prodotto fotografico, ingannati dalla
migliore capacità riproduttiva, rispetto alle altre arti figurative, della realtà, i primi operatori e
spettatori della tecnica fotografica poco notarono la falsità riproduttiva che si celava all'interno
della stessa logica fotografica. Fu tanto lo stupore nei confronti delle prime lastre fotografiche
che... ahimé! essi scordarono che si trattava pur sempre di finzione. Dopo tanti decenni trascorsi
a ricercare tecniche sempre più efficaci (?) di ripresa delle immagini, solo adesso si comincia ad
affermare l'idea di una fotografia intesa non più come imparziale riproduzione del reale, ma come
soggettiva interpretazione della realtà. Ma questo tentativo di ridare alla fotografia il suo giusto
posto, questo tentativo di rivedere e ridimensionare il suo potere documentario o descrittivo,
giunge senz'altro troppo tardi: troppo tardi in un'epoca in cui labile, a volte inesistente è diventato
il margine fra realtà e immagine della realtà. In alcuni grandi alberghi di un luogo di villeggiatura
oltreoceanico, i turisti (naturalmente ricchi) possono scattare in una apposita sala, delle fotografie
a uno schermo su cui vengono proiettate le diapositive dei luoghi turisticamente più interessanti
che gli ospiti dell'albergo, per mancanza di tempo o per pigrizia, non hanno potuto visitare. Ogni
commento è superfluo. Da una analisi dei livelli comunicativi della nostra società e dalle loro
conseguenze pragmatiche
sul comportamento degli uomini si scopre la pericolosità di una tale logica e cioè la continua
progressiva perdita della dimensione del "vissuto" a favore dell'acquisizione di una dimensione
illusoria, ipocrita della realtà. Da quando l'immagine fotografica, da quella stampata a quella
proiettata a quella teletrasmessa, è diventata il principale strumento della comunicazione di
massa, l'immagine ottica si è ingoiata l'immagine reale, e il vuoto rimasto è la nostra ebetudine
nell'osservare le fotografie pubblicitarie, la nostra ansiosa più o meno inconscia ricerca
dell'immagine proibita, di quella rara o di quella spettacolare. Quando la fotografia cessò la fase di
tecnica sperimentale per divenire prodotto per la massa (e
questo avvenne come è facile intuire in piena ascesa della società industrial-capitalista), il gusto e
il desiderio di vedersi rappresentati figurativamente, se prima era stato appannaggio solo delle
classi dominanti a causa dell'alto costo dei ritratti manuali, diventò comune a (quasi) tutte le
classi sociali. La fotografia trovò il suo primo grande mercato nella produzione di ritratti, quasi a
confermare la foga narcisistica dell'ascendente borghesia che voleva trovare conferma di sé e del
proprio potere nell'autoammirazione della propria apparenza. Si potrebbe dire, riferendosi
appunto a questo bisogno della borghesia e parafrasando una nota canzone di Fabrizio De André,
che essa "si ammirava tanto da volersi portare al dito". Naturalmente questa necessità della
borghesia si trasmetteva di riflesso man mano che essa aumentava il suo potere a quelle classi
che sotto il suo pesante tallone aspiravano a essere promosse socialmente. La fotografia si fa strada proprio
così; mentendo e promettendo, e da strumento di interpretazione
e comprensione del reale quale sarebbe potuto essere, diviene subito strumento di creazione di
un'altra realtà menzognera e ingannevole. All'inizio del suo libro "La Società dello Spettacolo"
Guy Debord cita un'illuminante frase di
Feuerbach: E senza dubbio il nostro tempo... preferisce l'immagine alla cosa, la copia
all'originale, la rappresentazione alla realtà, l'apparenza all'essere, ed è lo stesso Debord che
rincara la dose affermando più avanti che tutto ciò che era direttamente vissuto si è
allontanato
in una rappresentazione. E non si può certo dargli torto! Basti osservare, per convincersene,
l'enorme produzione della foto-grafica pubblicitaria (ma ogni foto è nel suo profondo una foto
pubblicitaria) per rendersi conto di come un nuovo universo di oggetti, quelli riprodotti, abbia
sostituito la realtà. Siamo proprio sicuri di comprare un oggetto volendo realmente comprarlo? O a volte
compriamo
gli oggetti credendo inconsciamente di acquistare l'immagine che di essi ci hanno trasmesso? E
fino a che punto comprendiamo che le mostruose immagini di enormi bottiglie di aranciata o di
enormi gomme da masticare che quotidianamente vediamo sui cartelloni pubblicitari (tanto per
indicare uno degli infiniti luoghi dell'imperativo: "compralo!") sono solo delle riproduzioni? Mi
viene, a proposito, in mente un filmato pubblicitario che è tremendamente illuminante e
chiarificatore del problema sopra posto: un uomo con la faccia da imbecille facendo la coda a
uno sportello di una biglietteria, guarda un cartellone pubblicitario di un televisore a colori e,
miracolo dei miracoli - le immagini fisse nello schermo finto del televisore fotografato diventano
mobili. Il televisore diventa "vero" e l'uomo con la faccia da imbecille segue esultante una
inesistente partita di calcio. Non potevano gli stessi artefici del messaggio pubblicitario
esprimere meglio di così l'ipocrisia latente e la forza falsificante dell'immagine fotografica. Nella
pubblicità di una pellicola fotografica ad "alta fedeltà"(?) ci sono dei pompieri accorsi a spegnere
un incendio: in realtà è la fotografia di un incendio ma la fedeltà della riproduzione è
tale che ha
ingannato persino i pompieri. Ed è ancora un altro esempio del sovrapporsi dell'immagine alla
realtà, dello smarrimento della dimensione viva e dell'acquisizione della dimensione
morta. È probabile che di questa società avviata a grandi passi verso l'autodistruzione
totale, non debba
restare che un mondo di immagini di carta nella loro mostruosa falsità di testimoni di ciò che non
esiste più e che forse non è mai esistito. Forse arriveremo a vivere in una società simile a
uno
studio pubblicitario in cui foreste o montagne non saranno altro che enormi lucide fotografie. E
se ci vorremo spostare, fingeremo di camminare mentre alle nostre spalle scorreranno le
immagini filmiche di una strada che si allontana. Proprio come in un film! Ma sarà tutto talmente
ad "alta fedeltà" e noi saremo talmente divenuti imbecilli che non ci accorgeremo di niente.
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