Rivista Anarchica Online
Oltre la fabbrica
di Luciano Lanza
Tutti in piedi ad applaudire mentre gli altoparlanti scandiscono le note dell'Internazionale.
Luciano Lama ha ancora una volta dominato il congresso della CGIL. Il decimo. Lo scontro,
preannunciato e temuto dai commentatori politici, non c'è stato. Tutti, o quasi, d'accordo
sull'impegno della maggiore centrale sindacale nel contenere il costo del lavoro e a lottare contro
l'inflazione. Il "clima unitario" si è incrinato solo sulle questioni politiche, quali la richiesta della
non-istallazione della base missilistica di Comiso, la mozione contraria alle truppe italiane nel Sinai e
la riduzione delle spese militari. Queste mozioni, approvate solo con leggere maggioranze, hanno
comunque avuto maggiore fortuna di quelle più scopertamente "filosovietiche": opposizione ai
soli missili americani e silenzio sulla questione polacca. Però, anche se respinte, queste ultime
sono rivelatrici di un persistente stalinismo ideologico che i paladini del pragmatismo riformista
tendono troppo spesso a sottovalutare. Comunque, sulla strategia economica i vertici della CGIL sono
sostanzialmente d'accordo e
anche la corrente di sinistra (Lettieri e Giovannini) si è differenziata più che altro per mantenere
la sua identità. In effetti l'unica strategia possibile per il sindacato non poteva che essere quella
di
collocarsi all'interno degli spazi indicati dal governo. La relazione di Lama ha dunque innestato
sulle linee programmatiche governative delle proposte di attuazione: come raggiungere gli
obiettivi del governo senza far pesare troppo sulla classe lavoratrice il costo del risanamento
dell'economia. E infatti le critiche mosse a Lama sono critiche di tipo tecnico: il buco della
finanza pubblica si amplierebbe di quattromila miliardi. Gli obiettivi sono gli stessi e la
differenziazione dei ruoli tra sindacati, governo e Confindustria si manifesta quasi
esclusivamente nelle scelte tecniche per il conseguimento di quegli obiettivi. Che poi i mezzi
tecnici rispecchino anche scelte politiche è un dato troppo scontato perché ci si dilunghi più
di
tanto. Quello che mi pare invece significativo è questa sostanziale uniformità di intenti tra parti
che nominalmente dovrebbero essere controparti. Ma ormai anche i più disattenti si sono accorti
delle modifiche strutturali intervenute nei sindacati e la cosa non scandalizza più nessuno. Il
processo di istituzionalizzazione dei sindacati si è vertiginosamente accelerato in questi ultimi
anni grazie al persistere e all'accentuarsi della crisi economica. La mancanza di margini delle
trattative ha soffiato via anche quel po' di polvere sessantottesca che si era sedimentata negli
interstizi, nelle nicchie della grande macchina sindacale. "Bisogna salvare la barca" è la parola d'ordine
ripetuta con sempre maggiore insistenza e
perentorietà dai dirigenti siano essi sindacali o padronali. E dunque si salvi la barca, con proposte
ragionevoli, accorte, ponderate. Che poi tutte le proposte non approdino a nulla e che l'inflazione
galoppi sempre più, è un altro discorso. Che il disavanzo del settore pubblico allargato sia in
espansione da anni nonostante i tentativi, i proclami, le politiche di contenimento, anche questo è
un altro discorso. E così nonostante i programmi di austerità il disavanzo del settore pubblico
allargato è passato dai 18.700 miliardi nel 1976 agli auspicati 50.000 miliardi nel 1982. Di
fronte
all'inconcludenza della politica economica governativa, diventa perfino noiosa la critica. Come si
può criticare con un minimo di verve cose e fatti che meritano sempre lo stesso tipo di critica,
visto che non cambiano mai? In una situazione così anomala e per tanti versi grottesca, appaiono risibili
anche le proposte neo-liberali che vorrebbero "risanare" la situazione con il tanto deprecato "guadagnare meno,
produrre di più". Anche volendo accettare, in via ipotetica, questo discorso, come risolvere il
nodo delle imprese pubbliche che più producono, più vanno in rosso? I problemi non potrebbero
risolverli nemmeno i neo-liberali, a meno di non voler sovvertire completamente la struttura
economica italiana, ma credo che nessuno si ponga questo problema. Così, mentre la famosa barca, che
tutti vorrebbero salvare, fa sempre più acqua, si accentua la
disaffezione della maggioranza verso i temi di politica generale e ognuno - ogni categoria - cerca
di salvarsi infischiandosene degli altri, si manifesta cioè quella che alcuni hanno definito
"disaffezione politica". Triste segno dei nostri tempi. Una disaffezione che è aleggiata anche sul
convegno anarcosindacalista tenutosi a Reggio Emilia
il 21-22 novembre su "Composizione di classe e ristrutturazione nelle industrie". Questo
convegno, organizzato dalle riviste Assemblea Generale, Autogestione e Collegamenti,
ha
registrato unitamente ad una scarsa partecipazione - non più di una sessantina di compagni -
anche la lunga strada che dovrà compiere l'anarcosindacalismo italiano per poter divenire un
soggetto propositivo all'interno del mondo del lavoro. Ma in una situazione come quella attuale,
che vede l'attività dell'intero movimento anarchico in una pesante fase di "stanca", la cosa non
appare certo anomala. I contenuti espressi dal convegno invece sono di più difficile definizione. Andrea
Ferrari, operaio
di Reggio Emilia, nella relazione introduttiva ha cercato di superare le classiche posizioni
rivendicazioniste attraverso un rilancio di tematiche autogestionarie delle lotte che modifichino
l'immaginario sociale dei vari soggetti politici attraverso la pratica dell'utopia, accentuando
l'attenzione più sulla metodologia delle lotte che sugli obiettivi. Ed ha indicato nei lavoratori
delle cooperative e delle piccole fabbriche, nei lavoratori delle aziende artigiane, nel proletariato
giovanile e in tutti quei settori considerati marginali - e ancora non irregimentati nei sindacati
ufficiali - dei possibili interlocutori di un progetto libertario. Ma Ferrari ha anche criticato il
persistere nel movimento anarcosindacalista di concezioni antiquate legate al mito della
"centralità operaia", ha criticato le deformanti visioni ideologiche della realtà che pretendono di
vedere lotte e movimento dove queste non ci sono, per riconoscere francamente che di fronte alla
crisi non c'è stata una seria risposto operaia. Le altre relazioni e il dibattito si sono snodate in
una gamma di posizioni molto differenziate che andavano dall'operaismo classico (riaffermare
l'intransigenza di classe per la difesa degli interessi immediati del proletariato, per
l'affermazione dei suoi interessi storici) a immagini del futuro (il padrone è
l'informatica). Tra queste due posizioni estreme, alcune relazioni di analisi tecnico-politica sui gruppi
di
produzione all'Alfa Romeo e alla Citroen, sul settore terziario avanzato. Spiccava per
approfondimento analitico la relazione dei compagni di Napoli, presentata da Vincenzo Italiano,
dipendente dell'Enel, su "La ristrutturazione all'Enel e nuove linee di organizzazione del lavoro".
Questa relazione infatti ampliava lo spazio analitico "classico" verso tematiche ritenute, spesso e
a torto, non necessarie per la comprensione della dinamica sociale nelle fabbriche quali lo
strutturalismo e il funzionalismo fino alle ultime elaborazioni della "sociologia del conflitto". Una prima sintesi
dell'intero dibattito è stata infine tratteggiata da Giovanni Biagioni, insegnante
fiorentino, che ha rilevato come le linee della ristrutturazione padronale si muovano soprattutto
attorno al concetto di professionalità e che pertanto se il movimento anarcosindacalista resta
ancorato ai problemi del salario e dell'orario di lavoro, rimane all'interno del discorso padronale
della professionalità, cioè ad un aumento della produttività come momento riequilibrante
della
riduzione d'orario. Biagioni ha quindi proposto di spostare le rivendicazioni nel campo delle
condizioni di vita e di lavoro, cioè di uscire dalla "dimensione fabbrica" per aprirsi ad un
intervento più schiettamente "sociale". Ha poi intelligentemente posto l'accento sulla necessità di
rifuggire dalla ricerca di una chiave unica di lettura della ristrutturazione, per poter comprendere
appieno le specificità dei vari momenti della ristrutturazione stessa. Per concludere, infine, con
molta onestà, che il lavoro da fare è ancora moltissimo visto che questo convegno si pone
soprattutto come momento di "ricucitura" dei diversi gruppi anarcosindacalisti, oggi isolati e
poco comunicanti tra loro. L'anarcosindacalismo sta dunque cercando strade nuove: "esce" dalla dimensione
della fabbrica
per affacciarsi a tematiche sociali e in questo segnale di vitalità e di eterodossia sta forse il lato
migliore di questo convegno.
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