Rivista Anarchica Online
Un futuro antico
di Fausta Bizzozzero
Sono stata recentemente a trovare un compagno ed amico da molti anni che vive in campagna.
Da un paio d'anni ha lavorato duramente per ristrutturare la sua vecchia casa colonica e mi ha
mostrato con sacrosanto orgoglio il frutto del suo lavoro. Per guadagnarsi di che vivere fa
l'operaio in una cooperativa "rossa" e dopo l'orario di lavoro, per suo piacere personale, alleva
animali (maiali, oche, galline) e coltiva l'orto e la vigna. Lavora certamente molto, molto più
della maggior parte della gente, ma è una delle persone più positive e serene che io conosca. E
trova persino il tempo per studiare le cose che lo interessano e per coltivare la musica. Sono partita da lontano
per cercare di fare alcune considerazioni sul lavoro, ma il problema è
talmente vasto da esigere, per affrontarlo, un tentativo di definizione. Il concetto di lavoro
contiene in sé due significati: il primo è quello di imposizione sul singolo da parte della
società
gerarchica ai fini della produzione; il secondo è quello di esplicazione delle capacità e delle
potenzialità dell'individuo nella creazione dei mezzi di sussistenza della collettività. Mentre il
primo significato prevale nettamente nella nostra società a partire dalla rivoluzione industriale, il
secondo sembra quasi completamente scomparso nell'immaginario collettivo e individuale
attuale mentre fonda il vivere sociale dei popoli primitivi. Il malessere di una società in sfacelo, di una
società che non è più tale, si riflette anche sul
lavoro, svuotato ormai di ogni suo contenuto. Le "grandi conquiste" della rivoluzione industriale,
la divisione del lavoro, l'automazione, la parcellizzazione, hanno portato a un rifiuto del lavoro,
conscio o inconscio è poco rilevante, generalizzato a gran parte della popolazione e che si
manifesta in molteplici modi: dall'assenteismo alla scelta cosciente del lavoro nero, dal
boicottaggio alla invenzione di lavori autonomi, al rifiuto tout court con relativo
parassitismo. Certo continuano ad esistere i "carrieristi", gli scalatori sociali, quelli che non si pongono
problemi sulla qualità della loro vita perché hanno interiorizzato i modelli comportamentali
dominanti. Non solo, sembra anche di intravvedere i primi sintomi di un simile atteggiamento
mentale anche fra i giovanissimi, che forse non riescono ad immaginarsi in altro modo, ad
individuare altri diversi valori. Resta il fatto che il fenomeno del rifiuto del lavoro esiste ed ha
una notevole portata. C'è chi pensa di affrancare l'uomo dal giogo del lavoro in un futuro
post-rivoluzionario con un
"modello sociale cibernetico" in cui le macchine facciano quasi tutto. E c'è chi pensa che, sempre
in quello stesso futuro, il lavoro, quasi per incanto, non sarà più necessario (non risulta chiaro
come). La prima soluzione mi sembra addirittura folle: un mondo di macchine che lavorano per
noi mi terrorizza e mi fa pensare al supercalcolatore fantascientifico come a un mostruoso totem.
Una società del genere gliela lascio tutta intera. La seconda mi sembra solo stupida e ingenua. Io credo
invece che se ad un futuro dobbiamo pensare deve trattarsi di un futuro antico.
Dobbiamo cioè riferirci a quella seconda concezione del lavoro come esplicazione delle capacità
e potenzialità del singolo tipica dei popoli primitivi che sola può armonizzare la soddisfazione
dei bisogni materiali con le aspirazioni individuali. Non si tratta di fare qui l'apologia del "buon
selvaggio" ma di saper individuare, nelle loro società, quegli aspetti che possono esserci utili,
come ad esempio la loro concezione del lavoro come piacere personale. È evidente che la scelta di una
impostazione di questo tipo non può avvenire che dopo una
rottura profonda (la fatidica rivoluzione), proprio perché solo un momento di sconquasso totale
può liberare la disponibilità di quegli spazi anche mentali indispensabile alla creazione di un
nuovo immaginario sociale, può cioè liberare la capacità di pensarsi in modo completamente
diverso. Ma è altrettanto evidente che non dobbiamo né possiamo aspettare quel momento con le
mani in mano, non dobbiamo aspettare l'anno mille, dobbiamo costruirne già da ora le premesse
per quanto ci è possibile, prima di tutto nelle nostre teste e nel nostro comportamento. Dobbiamo
cioè riscoprire il piacere di creare qui e oggi, in ogni ambiente e in ogni momento, reimparando
ad utilizzare le nostre capacità atrofizzate. Non dobbiamo tenere il nostro cervello al macero per
le otto ore in cui lavoriamo perché, poi, risulta difficile rimetterlo in funzione e lo dimostra la
passività che caratterizza anche tanti compagni nell'attività politica, la mancanza di iniziativa, di
fantasia. Certo, per chi lavora alla catena di montaggio e simili non esiste nessuna possibilità se non il
rifiuto totale, ma ci sono mille altri lavori in cui è possibile, se si vuole, far operare le nostre
capacità, imparare alcune cose e inventarne altre. È l'atteggiamento di fondo che deve cambiare,
da apatico e spento in attivo e critico. Perché se non ci abituiamo, già da ora, "prima" ad essere
"diversi", difficilmente potremo pensare di cambiare alcunché "dopo". D'altra parte, ad esempio, non
abbiamo aspettato "dopo" per tentare di cambiare il rapporto di
potere tra uomo e donna o tra adulti e bambini. Non abbiamo ancora risolto il problema, è vero,
ma in pochi anni si è riusciti a cambiare quell'immaginario maschile (attivo/dominatore) e
femminile (passiva/dominata) che sembrava immutabile. Molto si può fare, basta volerlo.
e adesso facciamo carriera
Chi non ricorda Joan Crawford, eroina protagonista di un filone di films americani degli anni
quaranta? Donna d'affari o manager efficientissima, rappresentava un modello di
emancipazione femminile: la donna di successo che coi suoi severi tailleurs grigi sapeva imporsi
nel mondo del lavoro, cioè nel mondo degli uomini, anche sacrificando la propria femminilità.
Volitiva, dura, sicura di sé, la nostra cascava poi come una pera cotta appena incontrava
l'Amore e ridiventava la classica donnetta sentimentale. Ebbene, a distanza di quarant'anni
sembra che quel modello abbia attecchito anche da noi, seppure con le debite varianti. Ma si sa
che l'importazione dei fenomeni culturali americani in Italia ha tempi anche lunghi. La carriera,
la competitività, la conquista dei posti di potere, sembrano esercitare un fascino
irresistibile per un certo numero di donne. Frequentano corsi di specializzazione post-universitari, si affilano le
unghie e, con una tenacia a dir poco granitica, si buttano nella
mischia e attaccano la scalata. In funzione del successo programmano rigidamente tutta la loro
vita: matrimonio, figli, menage. Nessun intralcio è consentito. Hanno scoperto il fascino discreto
del potere e hanno deciso di non lasciarlo nelle mani degli uomini. Alcune si sono persino
organizzate in una associazione che si chiama emblematicamente "Donne in carriera" poiché
"per noi il termine carriera significa progresso per gradi, cambiare, crescere, assumere
maggiori responsabilità", il cui fine è di aiutare le donne decise a
sfondare. Insomma, ci si trova di fronte a una intima accettazione dei modelli sociali e
comportamentali
maschili di sempre, fondati sul potere. D'altra parte non sono solo loro a dire queste cose.
Secondo la Demoskopea il 50% della forza lavoro femminile lamenta la scarsa mobilità verticale
per le donne, nelle organizzazioni partitiche e sindacali e nei vari settori lavorativi il coro è
unanime: per le donne esistono pochissime possibilità di accedere ai livelli superiori. Come se la
liberazione della donna passasse attraverso la gestione del potere e non attraverso la sua
distruzione. Dov'è finito il vento del '68? Dov'è finita la brezza del femminismo?
È rimasta solo aria
stagnante e nauseabonda. Vien voglia di mettersi a urlare pur di rompere quest'aria compatta e
soffocante. E, forse, se noi che siamo rimaste riuscissimo ad urlare insieme il nostro rifiuto della
loro logica, dei loro modelli, della loro società, forse potremmo anche
riuscire a trovare
qualcuno disposto ad ascoltarci.
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