Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 97
dicembre 1981 - gennaio 1982


Rivista Anarchica Online

Un futuro antico
di Fausta Bizzozzero

Sono stata recentemente a trovare un compagno ed amico da molti anni che vive in campagna. Da un paio d'anni ha lavorato duramente per ristrutturare la sua vecchia casa colonica e mi ha mostrato con sacrosanto orgoglio il frutto del suo lavoro. Per guadagnarsi di che vivere fa l'operaio in una cooperativa "rossa" e dopo l'orario di lavoro, per suo piacere personale, alleva animali (maiali, oche, galline) e coltiva l'orto e la vigna. Lavora certamente molto, molto più della maggior parte della gente, ma è una delle persone più positive e serene che io conosca. E trova persino il tempo per studiare le cose che lo interessano e per coltivare la musica.
Sono partita da lontano per cercare di fare alcune considerazioni sul lavoro, ma il problema è talmente vasto da esigere, per affrontarlo, un tentativo di definizione. Il concetto di lavoro contiene in sé due significati: il primo è quello di imposizione sul singolo da parte della società gerarchica ai fini della produzione; il secondo è quello di esplicazione delle capacità e delle potenzialità dell'individuo nella creazione dei mezzi di sussistenza della collettività. Mentre il primo significato prevale nettamente nella nostra società a partire dalla rivoluzione industriale, il secondo sembra quasi completamente scomparso nell'immaginario collettivo e individuale attuale mentre fonda il vivere sociale dei popoli primitivi.
Il malessere di una società in sfacelo, di una società che non è più tale, si riflette anche sul lavoro, svuotato ormai di ogni suo contenuto. Le "grandi conquiste" della rivoluzione industriale, la divisione del lavoro, l'automazione, la parcellizzazione, hanno portato a un rifiuto del lavoro, conscio o inconscio è poco rilevante, generalizzato a gran parte della popolazione e che si manifesta in molteplici modi: dall'assenteismo alla scelta cosciente del lavoro nero, dal boicottaggio alla invenzione di lavori autonomi, al rifiuto tout court con relativo parassitismo.
Certo continuano ad esistere i "carrieristi", gli scalatori sociali, quelli che non si pongono problemi sulla qualità della loro vita perché hanno interiorizzato i modelli comportamentali dominanti. Non solo, sembra anche di intravvedere i primi sintomi di un simile atteggiamento mentale anche fra i giovanissimi, che forse non riescono ad immaginarsi in altro modo, ad individuare altri diversi valori. Resta il fatto che il fenomeno del rifiuto del lavoro esiste ed ha una notevole portata.
C'è chi pensa di affrancare l'uomo dal giogo del lavoro in un futuro post-rivoluzionario con un "modello sociale cibernetico" in cui le macchine facciano quasi tutto. E c'è chi pensa che, sempre in quello stesso futuro, il lavoro, quasi per incanto, non sarà più necessario (non risulta chiaro come). La prima soluzione mi sembra addirittura folle: un mondo di macchine che lavorano per noi mi terrorizza e mi fa pensare al supercalcolatore fantascientifico come a un mostruoso totem. Una società del genere gliela lascio tutta intera. La seconda mi sembra solo stupida e ingenua.
Io credo invece che se ad un futuro dobbiamo pensare deve trattarsi di un futuro antico. Dobbiamo cioè riferirci a quella seconda concezione del lavoro come esplicazione delle capacità e potenzialità del singolo tipica dei popoli primitivi che sola può armonizzare la soddisfazione dei bisogni materiali con le aspirazioni individuali. Non si tratta di fare qui l'apologia del "buon selvaggio" ma di saper individuare, nelle loro società, quegli aspetti che possono esserci utili, come ad esempio la loro concezione del lavoro come piacere personale.
È evidente che la scelta di una impostazione di questo tipo non può avvenire che dopo una rottura profonda (la fatidica rivoluzione), proprio perché solo un momento di sconquasso totale può liberare la disponibilità di quegli spazi anche mentali indispensabile alla creazione di un nuovo immaginario sociale, può cioè liberare la capacità di pensarsi in modo completamente diverso. Ma è altrettanto evidente che non dobbiamo né possiamo aspettare quel momento con le mani in mano, non dobbiamo aspettare l'anno mille, dobbiamo costruirne già da ora le premesse per quanto ci è possibile, prima di tutto nelle nostre teste e nel nostro comportamento. Dobbiamo cioè riscoprire il piacere di creare qui e oggi, in ogni ambiente e in ogni momento, reimparando ad utilizzare le nostre capacità atrofizzate. Non dobbiamo tenere il nostro cervello al macero per le otto ore in cui lavoriamo perché, poi, risulta difficile rimetterlo in funzione e lo dimostra la passività che caratterizza anche tanti compagni nell'attività politica, la mancanza di iniziativa, di fantasia.
Certo, per chi lavora alla catena di montaggio e simili non esiste nessuna possibilità se non il rifiuto totale, ma ci sono mille altri lavori in cui è possibile, se si vuole, far operare le nostre capacità, imparare alcune cose e inventarne altre. È l'atteggiamento di fondo che deve cambiare, da apatico e spento in attivo e critico. Perché se non ci abituiamo, già da ora, "prima" ad essere "diversi", difficilmente potremo pensare di cambiare alcunché "dopo".
D'altra parte, ad esempio, non abbiamo aspettato "dopo" per tentare di cambiare il rapporto di potere tra uomo e donna o tra adulti e bambini. Non abbiamo ancora risolto il problema, è vero, ma in pochi anni si è riusciti a cambiare quell'immaginario maschile (attivo/dominatore) e femminile (passiva/dominata) che sembrava immutabile. Molto si può fare, basta volerlo.

e adesso facciamo carriera

Chi non ricorda Joan Crawford, eroina protagonista di un filone di films americani degli anni quaranta? Donna d'affari o manager efficientissima, rappresentava un modello di emancipazione femminile: la donna di successo che coi suoi severi tailleurs grigi sapeva imporsi nel mondo del lavoro, cioè nel mondo degli uomini, anche sacrificando la propria femminilità. Volitiva, dura, sicura di sé, la nostra cascava poi come una pera cotta appena incontrava l'Amore e ridiventava la classica donnetta sentimentale. Ebbene, a distanza di quarant'anni sembra che quel modello abbia attecchito anche da noi, seppure con le debite varianti. Ma si sa che l'importazione dei fenomeni culturali americani in Italia ha tempi anche lunghi.
La carriera, la competitività, la conquista dei posti di potere, sembrano esercitare un fascino irresistibile per un certo numero di donne. Frequentano corsi di specializzazione post-universitari, si affilano le unghie e, con una tenacia a dir poco granitica, si buttano nella mischia e attaccano la scalata. In funzione del successo programmano rigidamente tutta la loro vita: matrimonio, figli, menage. Nessun intralcio è consentito. Hanno scoperto il fascino discreto del potere e hanno deciso di non lasciarlo nelle mani degli uomini. Alcune si sono persino organizzate in una associazione che si chiama emblematicamente "Donne in carriera" poiché "per noi il termine carriera significa progresso per gradi, cambiare, crescere, assumere maggiori responsabilità", il cui fine è di aiutare le donne decise a sfondare.
Insomma, ci si trova di fronte a una intima accettazione dei modelli sociali e comportamentali maschili di sempre, fondati sul potere. D'altra parte non sono solo loro a dire queste cose. Secondo la Demoskopea il 50% della forza lavoro femminile lamenta la scarsa mobilità verticale per le donne, nelle organizzazioni partitiche e sindacali e nei vari settori lavorativi il coro è unanime: per le donne esistono pochissime possibilità di accedere ai livelli superiori. Come se la liberazione della donna passasse attraverso la gestione del potere e non attraverso la sua distruzione.
Dov'è finito il vento del '68? Dov'è finita la brezza del femminismo? È rimasta solo aria stagnante e nauseabonda. Vien voglia di mettersi a urlare pur di rompere quest'aria compatta e soffocante. E, forse, se noi che siamo rimaste riuscissimo ad urlare insieme il nostro rifiuto della loro logica, dei loro modelli, della loro società, forse potremmo anche riuscire a trovare qualcuno disposto ad ascoltarci.