Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 97
dicembre 1981 - gennaio 1982


Rivista Anarchica Online

I "nuovi artigiani"
di G. R.

Ormai sono in tanti: dal venditore di borse, a quello di cosmetici naturali, dall'orafo (ex-collaninaro) al tutto fare che aggiusta dall'interruttore alla corazzata. La schiera di persone che sceglie di iniziare un'attività in proprio si allarga sempre di più. Non ci sarebbe niente di particolare se non fosse che la gran parte di queste attività è seguita nella denominazione da un aggettivo che dice tutto: alternativo. Cambia tutto, il negozio resta negozio, ma il termine alternativo gli conferisce quel marchio che vuol dire: il gestore di questo negozio è un compagno, che vende preferibilmente ai compagni, i prodotti stessi sono compagni perché non sono inquinati o inquinanti, non sono il frutto dello sfruttamento dei lavoratori, ecc.. Costano di più e spesso sono di qualità inferiore, però sono alternativi. È facile fare dell'ironia su quella che ancora una volta sembra una moda, ma in realtà quello del lavoro artigiano è un problema che racchiude elementi molto importanti ed interessanti.
Si possono dividere coloro che fanno questa scelta in due categorie, però alquanto fittizie: i bottegai e i "nuovi artigiani". I bottegai sono coloro che hanno deciso di mettersi in proprio per una scelta prettamente personale. Un modo per tirarsi fuori dalla stretta frustrante del lavoro salariato. Una specie di "non contate su di me" detto al padrone, ma altrettanto spesso detto ai compagni di lavoro e qualche volta di lotta. In parole povere si tratta di un salto della barricata, l'unica differenza è che una volta si sognava di aprire un negozio di parrucchiera o un bar tabaccheria, oggi tira di più "l'alternativo". Non c'è nessuna differenza tra un vecchio e un nuovo bottegaio, a parte la coda di paglia di quest'ultimo così lunga che rimane impigliata nella serranda la sera quando chiude il negozio. Col tempo comunque anche quella passa.
L'altra categoria quella dei "nuovi artigiani" ha altre motivazioni anche solo da un punto di vista individuale, che a mio parere sono interessanti. Il rifiuto di farsi sfruttare o di fuggire da un modo di lavorare alienante è parallelo a tutta una serie di bisogni in positivo che caratterizzano in modo marcato questa scelta. In pratica non è più il sogno di un puro e semplice miglioramento economico, un mettersi a posto, ma è il desiderio di cambiare anche il modo di lavorare, l'ambiente in cui si lavora, il rapporto tempo/produzione, i rapporti di lavoro, ecc..
Non credo sia qui il caso di dissertare sui massimi sistemi, parlando di "piccolo è bello" piuttosto che di autogestione delle fabbriche, di scienza al servizio dell'uomo e della sua fatica per sopravvivere. Resta però il fatto che la scelta artigiana è per gli anarchici non solo una scelta pratica possibile, per tirarsi fuori dal giogo del lavoro salariato, ma anche come ho detto un ottimo banco di prova per la verifica di tutte le idee sulla gestione del lavoro stesso, del suo tempo, del suo ambiente, della sua organizzazione. Non solo, ma io ritengo e qui rivendico, come ho detto, il valore sovversivo dell'utopia, che esso possa essere uno dei migliori strumenti di lotta diretta per lo sgretolamento del sistema.
Certo i rischi che il sistema possa in ogni momento inghiottire un'alternativa di questo genere, che possa deformarla facendola risultare come il frutto della sua libertà, che possa bloccarla con il ricatto economico, esistono eccome. Ma io credo, e mi si consideri pure un ottimista o un illuso, che non gli sia ancora possibile paralizzarla o reprimerla, proprio perché il difetto sta nel manico, cioè nel sistema stesso e nelle sue contraddizioni, con il suo "libero mercato", con il suo antagonismo, la sua concorrenza.
Caratteristica primaria dei "nuovi artigiani" è il bisogno di liberare la propria creatività, di liberarla in modo immediato, pratico, manuale, vedendo subito i frutti delle proprie idee realizzate. Per troppo tempo ci si è sentiti frustrati da lavori assolutamente idioti, senza senso, ripetitivi a cui si cercava di dare un'importanza artefatta caricandoli di ruoli pomposi, per cui una lettera impostata da un impiegato di primo livello non era la lettera impostata da uno di terzo, ecc.. Per troppo tempo ci si è sentiti castrare le proprie idee fino quasi a convincersi di non averne più. Il passo pratico per scrollarsi di dosso tutto questo ha avuto ed ha tante strade su cui indirizzarsi. La prima era il rifiuto del lavoro tout court e quindi l'arte di arrangiarsi, che nasce dal rifiuto di considerare il lavoro come un tempo reale, come un bisogno reale prima o dopo la rivoluzione. O meglio dal rifiuto di considerare possibile l'esistenza di un lavoro che permettesse di liberare la propria creatività. Scarsamente possibile dopo la rivoluzione, impossibile prima, tanto vale quindi "arrangiarsi", cioè muoversi in quegli spazi con forme più o meno scoperte di parassitismo, che la società capitalista lascia... come valvola di sfogo. La seconda via era quella di accettare (pur non ammettendola) la divisione tempo di lavoro - tempo libero, cercando di rubare al primo più spazio possibile per il secondo. Ciò deriva spesso dall'impossibilità pratica, diciamo pure economica, di rifiutare praticamente il ricatto e il giogo del lavoro salariato. Quindi assenteismo cosciente, boicottaggio passivo, ecc..
La terza via era appunto quella del mettersi in proprio senza con ciò tradire le proprie idee, ma anzi cercare di portare avanti il discorso come possibile alternativa pratica al lavoro sfruttato e alienante. È chiaro che non è solo il bisogno di liberare la propria creatività che spinge a tale scelta, ma andiamo con ordine. Il bisogno di liberare la propria creatività, comporta, in termini di lavoro, anche il bisogno di esprimere la propria manualità. Il volersi svincolare dalla forma del lavoro che risulta alienante, per liberare la propria creatività, ha su di sé la spada di Damocle del rapporto tempo/produzione. La creatività non può soggiacere alle esigenze di mercato. Questa, che un'affermazione quasi statutaria di chi decide di mettersi in proprio, diventa uno dei principali capestri messi al collo dei "nuovi artigiani". Nel momento in cui il "nuovo artigiano" si affaccia alla ribalta del "mercato" ecco che una terribile verità lo colpisce tra capo e collo: se vuole sopravvivere deve... "vendere". E qui il lavoro diventa spesso un boomerang che mette K.O.. Chi credeva di essersi tirato fuori dall'ambiente perverso del capitale, con le sue leggi di mercato, di costo del lavoro, di materie prime, di vendite, di produzione, ecc. si accorge di esserci rientrato dalla finestra. A questo punto scattano vari meccanismi, a seconda di chi ha fatto questa scelta. O si buttano a mare tutti i bei discorsi sulla creatività, sulla manualità, sulla ricongiunzione tempo lavoro - tempo libero, ecc. e si rientra bel belli nella mentalità di ricerca del profitto cercando di produrre tanto e bene, di "battere la concorrenza" lavorando sui prezzi, con annessi e connessi. Oppure si ritorna con i piedi per terra senza per questo rinunciare alle proprie scelte.
Si finisce così per scoprire che oltre ad essere un problema esistenziale, quello del lavoro è soprattutto un problema... politico e sociale. Certamente il bisogno individuale di creatività, di espressione manuale, di autonomia da capi capetti e affini, fa da base ad una scelta del genere ed è ovvio, ma dato che con questa scelta la società con tutti i suoi ricatti e le sue trappole non scompare, ecco che il problema diventa politico e sociale. Anzi, più ci si addentra nel tipo di scelta, più diventa preciso e delineato ciò che questa scelta richiede e comporta. Dato che problemi come quelli riguardanti i rapporti di lavoro, l'ambiente di lavoro, l'organizzazione del lavoro stesso, il mercato, il circuito commerciale in cui ci si immette sono problemi politici e sociali che ricadono direttamente sulle spalle del "nuovo artigiano" al di là delle motivazioni esistenziali della sua scelta. Non è per un caso infatti che coloro che scelgono di rifiutarli impostando tutto il discorso su temi prettamente esistenziali come creatività, manualità, tempo di lavoro/produzione, prima o poi si ritrovino a fare i conti con gli altri problemi più "politici" che credevano di aver buttato alle ortiche. Per cui per salvare le scelte esistenziali si accettano i compromessi imposti dalle scelte politiche.
Eppure è proprio per questi problemi "politici" e per le possibili soluzioni che si possono loro dare, che io ritengo quella dell'artigianato una delle scelte ancora possibili per iniziare da subito ad applicare l'anarchia. A parte il valore, comunque sovversivo, del "non contate su di me", pur con tutti i rischi che può avere il suo aspetto di "fuga", credo che la riproduzione in piccolo di problemi reali sociali prima elencati, sia un ottimo banco di prova per le nostre idee. Certo esiste ancora il mercato, con le sue leggi, esiste ancora il ricatto del costo di produzione, esiste ancora, in parole povere, il denaro, e la società che vi è costruita attorno. Però esiste anche l'enorme valore propulsivo dell'utopia anarchica, esiste il valore disgregante della gramigna sovversiva che è l'ideale anarchico.