Rivista Anarchica Online
I "nuovi artigiani"
di G. R.
Ormai sono in tanti: dal venditore di borse, a quello di cosmetici naturali, dall'orafo (ex-collaninaro) al tutto fare
che aggiusta dall'interruttore alla corazzata. La schiera di persone che
sceglie di iniziare un'attività in proprio si allarga sempre di più. Non ci sarebbe niente di
particolare se non fosse che la gran parte di queste attività è seguita nella denominazione da un
aggettivo che dice tutto: alternativo. Cambia tutto, il negozio resta negozio, ma il termine
alternativo gli conferisce quel marchio che vuol dire: il gestore di questo negozio è un compagno,
che vende preferibilmente ai compagni, i prodotti stessi sono compagni perché non sono
inquinati o inquinanti, non sono il frutto dello sfruttamento dei lavoratori, ecc.. Costano di più e
spesso sono di qualità inferiore, però sono alternativi. È facile fare dell'ironia su quella che
ancora una volta sembra una moda, ma in realtà quello del lavoro artigiano è un problema che
racchiude elementi molto importanti ed interessanti. Si possono dividere coloro che fanno questa scelta in due
categorie, però alquanto fittizie: i
bottegai e i "nuovi artigiani". I bottegai sono coloro che hanno deciso di mettersi in proprio per
una scelta prettamente personale. Un modo per tirarsi fuori dalla stretta frustrante del lavoro
salariato. Una specie di "non contate su di me" detto al padrone, ma altrettanto spesso detto ai
compagni di lavoro e qualche volta di lotta. In parole povere si tratta di un salto della barricata,
l'unica differenza è che una volta si sognava di aprire un negozio di parrucchiera o un bar
tabaccheria, oggi tira di più "l'alternativo". Non c'è nessuna differenza tra un vecchio e un nuovo
bottegaio, a parte la coda di paglia di quest'ultimo così lunga che rimane impigliata nella serranda
la sera quando chiude il negozio. Col tempo comunque anche quella passa. L'altra categoria quella dei "nuovi
artigiani" ha altre motivazioni anche solo da un punto di vista
individuale, che a mio parere sono interessanti. Il rifiuto di farsi sfruttare o di fuggire da un modo
di lavorare alienante è parallelo a tutta una serie di bisogni in positivo che caratterizzano in modo
marcato questa scelta. In pratica non è più il sogno di un puro e semplice miglioramento
economico, un mettersi a posto, ma è il desiderio di cambiare anche il modo di lavorare,
l'ambiente in cui si lavora, il rapporto tempo/produzione, i rapporti di lavoro, ecc.. Non credo sia qui il caso di
dissertare sui massimi sistemi, parlando di "piccolo è bello" piuttosto
che di autogestione delle fabbriche, di scienza al servizio dell'uomo e della sua fatica per
sopravvivere. Resta però il fatto che la scelta artigiana è per gli anarchici non solo una scelta
pratica possibile, per tirarsi fuori dal giogo del lavoro salariato, ma anche come ho detto un
ottimo banco di prova per la verifica di tutte le idee sulla gestione del lavoro stesso, del suo
tempo, del suo ambiente, della sua organizzazione. Non solo, ma io ritengo e qui rivendico, come
ho detto, il valore sovversivo dell'utopia, che esso possa essere uno dei migliori strumenti di lotta
diretta per lo sgretolamento del sistema. Certo i rischi che il sistema possa in ogni momento inghiottire
un'alternativa di questo genere,
che possa deformarla facendola risultare come il frutto della sua libertà, che possa bloccarla con
il ricatto economico, esistono eccome. Ma io credo, e mi si consideri pure un ottimista o un
illuso, che non gli sia ancora possibile paralizzarla o reprimerla, proprio perché il difetto sta nel
manico, cioè nel sistema stesso e nelle sue contraddizioni, con il suo "libero mercato", con il suo
antagonismo, la sua concorrenza. Caratteristica primaria dei "nuovi artigiani" è il bisogno di liberare
la propria creatività, di
liberarla in modo immediato, pratico, manuale, vedendo subito i frutti delle proprie idee
realizzate. Per troppo tempo ci si è sentiti frustrati da lavori assolutamente idioti, senza senso,
ripetitivi a cui si cercava di dare un'importanza artefatta caricandoli di ruoli pomposi, per cui una
lettera impostata da un impiegato di primo livello non era la lettera impostata da uno di terzo,
ecc.. Per troppo tempo ci si è sentiti castrare le proprie idee fino quasi a convincersi di non
averne più. Il passo pratico per scrollarsi di dosso tutto questo ha avuto ed ha tante strade su cui
indirizzarsi. La prima era il rifiuto del lavoro tout court e quindi l'arte di arrangiarsi, che nasce
dal rifiuto di considerare il lavoro come un tempo reale, come un bisogno reale prima o dopo la
rivoluzione. O meglio dal rifiuto di considerare possibile l'esistenza di un lavoro che permettesse
di liberare la propria creatività. Scarsamente possibile dopo la rivoluzione, impossibile prima,
tanto vale quindi "arrangiarsi", cioè muoversi in quegli spazi con forme più o meno scoperte di
parassitismo, che la società capitalista lascia... come valvola di sfogo. La seconda via era quella
di accettare (pur non ammettendola) la divisione tempo di lavoro - tempo libero, cercando di
rubare al primo più spazio possibile per il secondo. Ciò deriva spesso dall'impossibilità
pratica,
diciamo pure economica, di rifiutare praticamente il ricatto e il giogo del lavoro salariato. Quindi
assenteismo cosciente, boicottaggio passivo, ecc.. La terza via era appunto quella del mettersi in proprio senza
con ciò tradire le proprie idee, ma
anzi cercare di portare avanti il discorso come possibile alternativa pratica al lavoro sfruttato e
alienante. È chiaro che non è solo il bisogno di liberare la propria creatività che spinge a
tale
scelta, ma andiamo con ordine. Il bisogno di liberare la propria creatività, comporta, in termini di
lavoro, anche il bisogno di esprimere la propria manualità. Il volersi svincolare dalla forma del
lavoro che risulta alienante, per liberare la propria creatività, ha su di sé la spada di Damocle del
rapporto tempo/produzione. La creatività non può soggiacere alle esigenze di mercato. Questa,
che un'affermazione quasi statutaria di chi decide di mettersi in proprio, diventa uno dei
principali capestri messi al collo dei "nuovi artigiani". Nel momento in cui il "nuovo artigiano" si
affaccia alla ribalta del "mercato" ecco che una terribile verità lo colpisce tra capo e collo: se
vuole sopravvivere deve... "vendere". E qui il lavoro diventa spesso un boomerang che mette
K.O.. Chi credeva di essersi tirato fuori dall'ambiente perverso del capitale, con le sue leggi di
mercato, di costo del lavoro, di materie prime, di vendite, di produzione, ecc. si accorge di
esserci rientrato dalla finestra. A questo punto scattano vari meccanismi, a seconda di chi ha fatto
questa scelta. O si buttano a mare tutti i bei discorsi sulla creatività, sulla manualità, sulla
ricongiunzione tempo lavoro - tempo libero, ecc. e si rientra bel belli nella mentalità di ricerca
del profitto cercando di produrre tanto e bene, di "battere la concorrenza" lavorando sui prezzi,
con annessi e connessi. Oppure si ritorna con i piedi per terra senza per questo rinunciare alle
proprie scelte. Si finisce così per scoprire che oltre ad essere un problema esistenziale, quello del lavoro
è
soprattutto un problema... politico e sociale. Certamente il bisogno individuale di creatività, di
espressione manuale, di autonomia da capi capetti e affini, fa da base ad una scelta del genere ed
è ovvio, ma dato che con questa scelta la società con tutti i suoi ricatti e le sue trappole non
scompare, ecco che il problema diventa politico e sociale. Anzi, più ci si addentra nel tipo di
scelta, più diventa preciso e delineato ciò che questa scelta richiede e comporta. Dato che
problemi come quelli riguardanti i rapporti di lavoro, l'ambiente di lavoro, l'organizzazione del
lavoro stesso, il mercato, il circuito commerciale in cui ci si immette sono problemi politici e
sociali che ricadono direttamente sulle spalle del "nuovo artigiano" al di là delle motivazioni
esistenziali della sua scelta. Non è per un caso infatti che coloro che scelgono di rifiutarli
impostando tutto il discorso su temi prettamente esistenziali come creatività, manualità, tempo di
lavoro/produzione, prima o poi si ritrovino a fare i conti con gli altri problemi più "politici" che
credevano di aver buttato alle ortiche. Per cui per salvare le scelte esistenziali si accettano i
compromessi imposti dalle scelte politiche. Eppure è proprio per questi problemi "politici" e per le
possibili soluzioni che si possono loro
dare, che io ritengo quella dell'artigianato una delle scelte ancora possibili per iniziare da subito
ad applicare l'anarchia. A parte il valore, comunque sovversivo, del "non contate su di me", pur
con tutti i rischi che può avere il suo aspetto di "fuga", credo che la riproduzione in piccolo di
problemi reali sociali prima elencati, sia un ottimo banco di prova per le nostre idee. Certo esiste
ancora il mercato, con le sue leggi, esiste ancora il ricatto del costo di produzione, esiste ancora,
in parole povere, il denaro, e la società che vi è costruita attorno. Però esiste anche l'enorme
valore propulsivo dell'utopia anarchica, esiste il valore disgregante della gramigna sovversiva che
è l'ideale anarchico.
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