Rivista Anarchica Online
Perché questa campagna
di Paolo Finzi
Dunque, il 19 aprile si aprirà a Firenze il processo d'appello contro Monica Giorgi e una dozzina
di coimputati, a vario titolo ritenuti responsabili di associazione sovversiva, banda armata, ecc.,
nonché di alcuni episodi rivendicati o attribuiti ad "Azione Rivoluzionaria". Al termine del
processo di primo grado, svoltosi a Livorno tra l'11 maggio ed il 13 luglio 1981, fu proprio
Monica a subire la condanna più dura: 12 anni (di cui 2 condonati) e 6 mesi di carcere, 3 anni di
libertà vigilata, interdizione perpetua dai pubblici uffici, ecc..
Nonostante la pesantezza delle accuse formulate contro di lei in istruttoria, nonostante il clima
politico-giudiziario generale non certo favorevole a sentenze basate "sull'accertamento dei fatti",
la condanna di Monica contraddisse le previsioni di tanti, compresi i giornalisti della stampa
quotidiana locale ("Il Tirreno" e "La Nazione") che, partiti in quarta contro Monica, si erano
ritrovati al termine del processo su posizioni sostanzialmente innocentiste. Non staremo qui a
ripercorrere le vicende processuali, di cui già abbiamo più volte trattato sulla rivista, sia in sede
di cronaca del processo, sia nel commento alle motivazioni della sentenza, sia infine pubblicando
scritti di Monica in proposito. Tantopiù che, nelle pagine che seguono, riportiamo la prima (e più
significativa) parte dei motivi d'appello presentati dall'avvocato pisano Ezio Menzione, uno dei
difensori di Monica a Livorno: scritti con rigore logico, ma anche con passione, questi motivi
d'appello mostrano ancora una volta su quali basi inconsistenti sia stata costruita una condanna
così pesante. Ciò che qui ci preme ribadire è l'importanza che attribuiamo al caso di
Monica e la necessità che,
nella campagna in sua difesa, ci si impegni a fondo. Noi abbiamo ben presenti le estreme
difficoltà con le quali una simile campagna oggi inevitabilmente si scontra: vi è un'inflazione di
mini-campagne, mezze-mobilitazioni, ecc. in difesa di questo e di quello, perlopiù a base dei
soliti slogan, rivendicanti "innocenze" che a volte vengono addirittura smentite dagli stessi
imputati. Vi sono problemi di stanchezza di un'opinione pubblica frastornata, vi è il continuo
tentativo del "partito armato" (in tutte le sue variopinte sfaccettature) di strumentalizzare quanto
si muove sul terreno della lotta alla repressione, vi sono in definitiva quegli aspetti che vengono
analizzati (e a cui rimandiamo) nel documento elaborato dal Circolo "Ponte della Ghisolfa" e dal
collettivo Annares - che pubblichiamo su questo numero. Di tutto ciò siamo coscienti, e non da
oggi. È con questa consapevolezza che riteniamo il caso di Monica un caso al tempo stesso "diverso"
e
terribilmente normale. La sua normalità sta nell'essere uno dei tanti casi di ingiustizia sommaria,
compiuta nell'ambito della lotta che le istituzioni stanno portando avanti contro le organizzazioni
lottarmatiste: il solito caso, con i soliti "pentiti", con i soliti innocenti buttati nel mucchio, con le
solite prove che prove non sono, con i soliti testimoni che appena depongono a favore degli
imputati vengano ritenuti inattendibili, con la solita ricostruzione della colpevolezza sulla base
delle opinioni e degli scritti (che poi, nel caso di Monica, sono in gran parte scritti di altre
persone da lei pubblicati), ecc. ecc.. In questo senso, il suo caso presenta, con particolare
nitidezza, i tratti distintivi di quell'involuzione illiberale, di quell'imbarbarimento della
"giustizia" che noi siamo impegnati a denunciare e contrastare, perché vi riconosciamo un aspetto
non certo secondario del processo di "totalitarizzazione" della società. Un passo avanti, dunque,
verso il 1984. La diversità di questa vicenda, rispetto a molte analoghe, sta, tra l'altro, nel
comportamento di
Monica. Viviamo infatti in un'epoca di esasperazione e di violentismo non solo verbale, di eclissi
della ragione e del senso umano; un'epoca in cui al lugubre fanatismo dei lottarmatisti fanno da
contrappunto le squallide confessioni di chi è pronto a vendere anche la madre pur di sortir di
galera; un'epoca in cui la possibilità stessa di ragionare e di far valere la forza della ragione è
negata dal tiro incrociato del totalitarismo lottarmatista e dell'ondata reazionaria istituzionale. In
questo contesto assume particolare significato il comportamento processuale e, in genere,
l'atteggiamento di chi - come Monica e non molti altri - da una parte rivendica la sua militanza
"sovversiva" svolta alla luce del sole, il suo impegno per i carcerati, il suo rifiuto delle istituzioni;
e dall'altra ribadisce con forza la sua estraneità-avversione al progetto lottarmatista e ai suoi
metodi. In presenza di questa chiara presa di posizione, che Monica ha lucidamente confermato
nel suo scritto ("Quando i signori della guerra...") pubblicato sullo scorso numero, è possibile
condurre una battaglia che, comprendendole, vada al di là della solidarietà umana e della
denuncia delle ingiustizie processuali. Una battaglia che metta a nudo i meccanismi perversi
della "giustizia" e del potere, senza nulla concedere alla strategia dei "comunisti combattenti".
Battaglie come questa - scrivevamo qualche mese fa - debbono esser combattute con decisione,
se non si vuole che il Potere, approfittando dell'assenza di qualsiasi opposizione, la faccia
sempre più da padrone, in maniera sempre più cinica e sfacciata. A simili battaglie di giustizia
possiamo e dobbiamo cercar di coinvolgere quanta più gente possibile, in un nuovo corale atto
d'accusa contro quella "giustizia" di Stato che non a caso in Spoon River era simboleggiata da
una baldracca. Nelle settimane che ci separano dal processo d'appello è necessario impegnarsi
in questa
direzione.
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