Rivista Anarchica Online
L'uomo è le cose che fa
di Piero Flecchia
Molto opportunamente nel penultimo numero la rivista ha dato ampio spazio a un servizio a più
mani sul "Lavoro". Il tema comune, il filo unificante, è nel titolo del servizio "Lavoro: la
necessaria schiavitù?". Titolo felice, perché sembrerebbe alludere a un interrogativo salutare
circa l'evento che fonda l'etica del lavoro in occidente: la maledizione biblica, il "Ti guadagnerai
il pane con il sudore della tua fronte!". La formula è tra le più pesantemente tossiche tra le molte
distillate da quella macchina di perfidie che è sempre una religione al servizio del dominio. Con
questa formula il clero di Gerusalemme, che tra l'altro aveva inventato anche il trucchetto delle
decime (e fino a circa 70 anni or sono in tutti i catechismi era stampato, in aggiunta e appendice
al II comandamento "... e pagare le decime al clero secondo gli usi e consuetudini"), questo
fottutissimo clero, in nulla diverso da tutti gli altri cleri, raccontando che il lavoro era una
maledizione divina riusciva: a) ad insegnare che non ci si diverte lavorando e neanche il mestiere del prete
è un divertimento, b) ma soprattutto riusciva ad occultare che l'uomo è le cose che fa. Al
punto b): "L'uomo è le cose che fa" non si sfugge; ecco perché davanti a una catena di
montaggio si cade nell'assenteismo. Ma ovviamente l'assenteismo è immorale, e lo è
autenticamente, perché quel che non fai tu lo "devo" fare io. Infatti io mi trovo a scrivere
questo
articolo che non mi diverte, non mi gratifica, perché altri hanno trascurato il chiaro nesso etica
giudeo-cristiana - lavoro-società. Se si afferra chiaro che "L'uomo è le cose che fa", appare
immediatamente evidente che tutto il generico discorso "sentimentale" delle buone intenzioni e
della astratta eguaglianza davanti a Dio, che precorre e fonda la nostra eguaglianza democratico -
parlamentare - elettoralista, ne è il fondamento culturale, come è il fondamento culturale del
marxismo; se si afferra che "L'uomo è le cose che fa", ecco che immediatamente va a carte
quarantotto tutto il discorso evolutivo-marxista, discorso sulle "magnifiche sorti progressive", la
cui dimensione di nuda e pura truffa fu denunciata in modo definitivo da Giacomo Leopardi: che
val meglio leggere di Alberoni e altri sociologi dell'amore e del lavoro e del lavoro socialmente
amoroso! Tutta e solo e sempre merda! Merda del clero sacerdotale a seppellire il lavoratore;
clero ieri del tempio di Gerusalemme, oggi clero sindacalconfindustrialpolitico. Accettando, per ipotesi, che
"L'uomo è le cose che fa", ne consegue che lo spazzino è pura
immondizia, che l'infermiere, per la sua contiguità alla produzione escremenziale è fratello nostro
nella merda; che il macellaio è un potenziale assassino; che un operaio alla catena di montaggio,
o un generico manovale è un circa ebete; che i negozianti fondano la categoria del furto, pur
molto dopo politici e finanzieri. La società delle caste afferma proprio questo: "L'uomo è il
lavoro che fa". Lo dimostra vero. Infatti noi tutti sappiamo che gli uomini tra loro non sono
eguali, e la società castale registra e traduce operativamente queste differenze. Ma queste differenze
diventano poi, nelle caste, delle diseguaglianze: vocabolo con implicazioni
a un tempo quantitative e qualitative. La società ha bisogno, tecnicamente bisogno, del manovale
come del prete, ma in qualche modo il prete dà al manovale molto meno di quanto sottrae. Ecco
dove ha origine il concetto di "Lavoro come necessaria schiavitù", dove ha origine il discorso
clericale sul lavoro. Discorso di tutti i cleri, da quello cattolico a quello marxista, né va escluso il
clero del capitale. Quello che essi chiamano "lavoro" si può invece definire più esattamente
"Un
momento del processo di riproduzione di una struttura di dominio". Che poi anche i preti
finiscano per servire ed essere ridotti in schiavitù, vittime delle stesse superstizioni con le quali
occultano la verità a sé e al popolo, questo è ancora un altro discorso. Marx qui vide molto
esatto: l'alienazione è universale, ma meglio ancora vide quel vero San Tommaso del capitalismo
statalista che fu Hegel. L'ideologia del lavoro, e l'ideologia è sempre menzogna, è proprio questa
faccenda che occulta il reale scopo e funzione del lavoro: edificare la coscienza del singolo
individuo. Senza lavoro, un tempo, si sapeva che non si poteva diventare uomini. Crescere cioè a
una dignità cosciente di quelli che sono i propri "doveri". Ovviamente la parola può far storcere il
naso: ma il fatto che ci sia montato sopra il clero, il fatto che da sempre i doveri siano diventati il
nostro debito verso le diverse fiscalità dei dominatori, questo non fa men vera e necessaria parola
e soprattutto il concetto che la parola sottende. Il primo tra i nostri doveri è quello verso noi stessi: di
essere solo e soltanto quel che sentiamo di
essere. Ecco il fondamento granitico dell'anarchia malatestiana. Ma Malatesta chiaramente
sapeva che "L'uomo è le cose che fa", insegnamento che da sempre il cristianesimo e i suoi
epigoni cercano di occultare. Gli anarchici sostenevano la necessità di conoscere un mestiere
manuale artigiano, perché l'uomo è una unità inscindibile di corpo e mente, e il corpo va
cresciuto con la mente. E per crescerlo, per trasformare in personalità matura la unità psicofisica
"persona" ci vuole del duro e metodico e volitivo lavoro. Il far niente è degli ebeti, dei servi
furbi, dei capi viziosi. Il far niente è delle plebi e delle aristocrazie degenerate a feccia delle
plebi. La folla ebete che abita le mura delle cattedrali e dei templi, le porte dei palazzi e
palasport, nella sua nuda miseria e follia e depravazione è solo la metafora e la rappresentazione
evidente della miseria e degradazione e profonda degenerazione che le mura dei templi e dei
palasport custodiscono, virus infettante e purulento, matrice di tutte le pestilenze. Contro queste il Buddha
ammonisce, ultima sua parola dal letto di morte: "Siate attivi!",
intendendo con questo attivismo ben altra cosa dell'attivismo del doppio lavoro, che però, pur
degradata, contiene ancora una immagine, un ricordo della necessità di una coscienza e di una
volontà vigile e attive. Infatti è in ogni caso molto più da onorare chi si autosfrutta con il
doppio
lavoro che non sfrutta gli altri con l'assenteismo, perché il primo, se non altro, ha impegnato se
stesso in uno sforzo di volontà, ponendo così un fondamento per una azione pratica. Il secondo,
molto spesso è solo un volgare zotico che sogna l'ozio di tutti i clericalismi: quell'ebete far niente
che non conduce a nulla. Molto peggio! Consegna il singolo alle strutture del tempio, ne fa uno
schiavo e un mercenario, un delatore! Poiché l'uomo è le cose che fa, e poiché il lavoro
è l'atto decisivo per la sua umanizzazione, non
c'è alternativa: o un lavoro che lo produca uomo, o accettare la finzione della maledizione biblica
del lavoro. Non c'è una terza via. E soprattutto non c'è una teoria separata dalla pratica: una
metodologia registrata in una serie di testi, o in un testo sapienziale, leggendo il quale, applicando il quale, si
possa fare il gran salto verso la
libertà, la liberazione. Chi crede in queste cose o è un fesso o è un trafficante implicato nel
mercato della fede, ramo editoria, settore "sacri testi". L'editoria, al più può produrre a volte dei
sani modi di guardare ai fatti, libri che ci aiutano per un tratto di strada, come appunto in materia
di "riflessione sul lavoro" è lo splendido discorso di un capo samoano, che recentemente la
Longanesi ha mandato in libreria. Il titolo di questa serrata riflessione sul mondo del dominio
dell'uomo bianco, paradossale riflessione alla rovescia (un sedicente selvaggio giudica il
civilizzatore) - anche se il discorso è certamente una trascrizione ancora mediata da un bianco,
che però può giudicare questa società in modo così diverso solo per essere passato
attraverso la
testa del samoano Tuiavii - è "Il Papalaghi" - ed. Longanesi, lire 6.000. Due esempi della radicale critica,
degna del miglior polemista libertario, alla nostra cultura,
svolta da questo samoano.
a) critica al nostro concetto di tempo: "Quando io cavalco attraverso un villaggio, arrivo certo
più in fretta; ma quando vado a piedi,
vedo di più, e gli amici mi chiamano nelle loro capanne. Arrivare veloci a una meta è di rado un
vero vantaggio. Il Papalaghi (così Tuiavii chiama il bianco) vuole sempre arrivare in fretta alla
meta. La maggior parte delle sue macchine servono solo allo scopo di arrivare più in fretta. È
giunto alla meta, e già un'altra lo chiama...".
b) critica al nostro concetto di lavoro: "È bello andare una volta al ruscello a prendere l'acqua,
è bello farlo parecchie volte in un
giorno, ma se uno dal levarsi al calare del sole non dovesse fare altro che prendere acqua al
ruscello, e questo tutti i giorni e ogni giorno tutte le ore, fino a che le sue forze lo consentono,
sempre e continuamente, alla fine costui verrebbe colto dall'ira e scaglierebbe il secchio lontano
da sé, infuriato per le catene che legano il suo corpo. Poiché nulla è così pesante per
l'uomo
come fare continuamente la stessa cosa. Ci sono però dei Papalaghi che non raccolgono
solo acqua giorno dopo giorno sempre alla
stessa fonte (questo potrebbe ancora essere un grande piacere), no, vi sono anche quelli che solo
alzano una mano o l'abbassano oppure la spingono contro un bastone, e questo in un luogo
sporco, senza luce e senza sole; che non fanno nulla che sia prova di forza e dia qualche gioia,
gente che dal pensiero del Papalaghi è costretta a levare o abbassare la mano oppure batterla
contro una pietra, perché con ciò si mette in moto o si regola una macchina che taglia anelli
bianchi o insegne da petto o conchiglie da calzoni o qualche altra cosa. In Europa ci sono più
uomini di quante palme ci siano nelle nostre isole i cui volti sono grigi come la cenere, perché
non conoscono gioia alcuna nel loro lavoro, perché il mestiere divora ogni piacere e dal loro
lavoro non nasce alcun frutto, neppure una foglia di cui poter gioire. E per questo negli uomini
cova un odio cocente per il proprio mestiere. Tutti hanno nel cuore
una qualche cosa, come un animale che è tenuto alla catena e si ribella e vuole liberarsi e non vi
riesce. E tutti confrontano i loro mestieri gli uni con gli altri, e sono pieni di invidia e di
malcontento, e si parla di mestieri più elevati e più bassi, sebbene tutti i mestieri siano soltanto
un fare a metà. Perché l'uomo non è soltanto mano o piede o soltanto testa; tutto in lui
è unito.
Mano, piede, testa vogliono stare insieme. Quando tutte le membra e i sensi lavorano insieme,
solo allora il cuore dell'uomo può godere in sana letizia; mai però quando solo una parte
dell'uomo vive e le altre devono essere come morte. Questo porta l'uomo allo smarrimento, alla
disperazione e alla malattia.
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