Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 12 nr. 99
marzo 1982


Rivista Anarchica Online

Spiazzare il potere
di Salvo Vaccaro

L'Europa, o meglio, gli stati europei stanno vivendo momenti difficili; dopo la declassazione da potenza mondiale, per via della mancata unità interna e della strategia reaganiana che privilegia il bipolarismo, ci si mette pure la Polonia e i dissidi sorti tra NATO-europea e USA, e all'interno dell'Internazionale Socialista che registrano le divisioni strategiche di due linee politiche per il futuro e il ruolo dell'Europa.
Ma io voglio incentrare il mio discorso sulle lotte, giovanili e non, per la casa, la pace, contro la guerra, il nucleare e simili tematiche. Dico anche non giovanili, perché se c'è una caratteristica che collega le varie lotte dall'Inghilterra all'Olanda, dalla Svizzera alla Germania, dalla Francia alla Danimarca, è la mancanza di un'età unitaria in coloro che lottano essendone i protagonisti. Sono giovani, ma anche padri di famiglia, disoccupati, mezzi-occupati, bianchi, neri, emigrati, indigeni. Il perché di questa inattesa cementificazione che sbaraglia analisi vetero-politiche di classe, demografiche e statistiche, tenterò di vederlo strada facendo.
Manca l'Italia. Troppo presto per far un discorso sulle lotte in Italia che pure ci sono, e su temi analoghi, ma con caratteristiche che la allontanano dall'esempio europeo, per cui andrebbero indagate altrove, magari prendendo spunto da alcune riflessioni sulle eurolotte che qui farò. Forse avremo qualcosa da imparare, noi italiani, politici ultra-fini abituati alla lotta da decenni, con una forte sinistra parlamentare che recita parti meschine nell'agorà italiana e internazionale, immobilizzando energie che altrove riescono a irrompere prepotentemente sconvolgendo, non dico regimi politici, ma equilibri e acque stagnanti di socialismi di ultima nascita, di socialdemocrazie continentali, di neo-conservatorismi anglosassoni.
In effetti, tutto è stato imprevisto, almeno per chi osserva secondo un'ottica che privilegia i macro-aspetti della realtà. Il modello della germanizzazione sembrava invadere l'intera Europa; la dinamica di disciplinarizzazione dello spazio europeo, come si diceva incisivamente a proposito di manovre giuridiche, era già avviata e si collaudavano nel frattempo alcune tecniche di contenimento dei movimenti collettivi di rivolta per evitare che il '77 italiano si europeizzasse.
Invece è accaduto ciò che Essi non avevano previsto. E ciò inoltre senza che il modello '77 venisse preso a punto di riferimento dei giovani europei. Non ho alcuna intenzione di paragonare i due eventi, omogeneizzando scorrettamente fenomeni peculiari e differenti come il movimento tedesco antinucleare, gli alternativi svizzeri, i kraakers olandesi. Ma se c'è un filo conduttore che lega questi vari momenti di lotta è una diversa impostazione strategica, nella quale l'insubordinazione al comando, l'indisciplina sovversiva si attua non tanto per partito preso, secondo un mero calcolo politico per opera o frutto del lavoro militante di organizzazioni politiche, bensì per una certa tensione irriducibilmente soggettiva verso il cambiamento qualitativo dell'esistenza radicato qui e ora, nel presente come tempo e come spazio, che si manifesta in forme collettive di insubordinazione sociale, appunto.

il rifiuto del politico
Questa tensione rovescia radicalmente la prospettiva di una strategia politica collettiva, in quanto movimenti che riescono a gestire organizzativamente la propria forza scardinatrice senza ricorrere a forme o a tutele di organizzazioni politiche o organismi politici tipici nella loro forma classica (fissità della struttura, democrazia interna ruolizzata, delega degli incarichi). Si ha un rifiuto del politico come sfera di esistenza e di lotta, politico nel senso strategico che in Occidente ha assunto, comprese le formazioni marxiste, di gestione delle energie finalizzate a un futuro più o meno immediato, con un cinismo dei mezzi rispetto al fine, con un machiavellismo del fine stesso, per cui la parola "rivoluzione" è diventata politicamente vuota, in quanto coincidente, nell'immaginario simbolico che si è imposto, con rivoluzione politica di strutture e non di qualità della vita.
Queste lotte rivendicano pienamente invece una socialità delle forze rivoluzionarie che, rivalutando peraltro inconsciamente le intuizioni anarchiche - ma non è il caso di gioire, o di affibbiare incautamente padri, o nominare eventi nuovi - danno un senso alla lotta attuale che per il respiro che assumono oggi è indicativo, speriamo, di un cambiamento di rotta nell'immaginario rivoluzionario; nel quale dopo il crollo di certezze finora ritenute mitiche, si fanno avanti percorsi di lotta carattere ricco, polivalente e estremamente libertario. Se pur con affinità ben evidenti con i nostri movimenti anarchici, dicevo che non è il caso di gioire di queste affinità perché, a mio avviso, anche noi scontiamo un peso politico che ci ha impedito, almeno finora, di anticipare questi momenti, di saperne cogliere le novità per rinvigorirle con le nostre tematiche e i nostri contenuti. Ma soprattutto non è un caso che questi movimenti sorgano al di fuori di qualsiasi movimento politico organizzato, compreso il nostro; probabilmente, l'affinità è il risultato di percorsi autonomi di coscienza e di momenti di lotta evolutisi sino a renderli interessanti dal nostro punto di vista; probabilmente solo un nostro lavoro sotterraneo, indirizzato a micro-aspetti di momenti di socialità collettivi sono stati consciamente recepiti dai movimenti odierni, sotterraneità che diventa ben visibile nei kraakers olandesi in cui le influenze dei provos sono ben presenti all'interno.
Sembra di assistere alla riedizione dello scontro all'interno della 1a Internazionale tra Marx e Bakunin, sulla dicotomia esclusiva rivoluzione politica-rivoluzione sociale, con in più l'avvertenza, scaturita da decenni di dominio raffinato pesante sui corpi e sulle menti, della non-immediatezza rivoluzionaria dello spazio sociale. Tanto è vero che la società civile oggi non esprime contenuti qualitativamente diversi da quelli della società politica, seppur talvolta conflittuali. Occorre praticare un solco utopico oltre la socialità permeata e territorializzata dal Capitale-Stato che vanno assumendo ogni aspetto del sociale inquinandone il territorio con le loro pratiche di dominio, che vanno dall'informazione all'industria, dal denaro all'ideologia, dalla scuola alle carceri, ecc..
Fatto sta che i contenuti di socialità espressi nelle lotte non sono immediati, dati come elementi antagonistici, speculari alle determinazioni offerte/imposte dal dominio diffuso. Si assiste infatti a un sorprendente spiazzamento dei luoghi e delle modalità dei fenomeni di lotta che trasversalizzano (come si sarebbe detto a Bologna tempo fa...) l'intero campo dell'esistenza umana senza frantumarlo in compartimenti stagni (sessualità, lavoro, eros, bisogni, desideri, alimentazione, vestiario, ecc.). Ed è in questa strategia dello spiazzamento continuo che sta la forza dei movimenti che potenziano così la loro estraneità ai moduli di vita imposti e prodotti dal dominio nei suoi valori spettacolari.

l'esempio dei kraakers
Penso infatti ad alcune lotte ben precise, a partire da bisogni concreti, come la casa; la dinamica del bisogno seduce in un ricatto come strada obbligata alla risoluzione politica del problema: la trappola della contrattazione politica, del gioco della domanda/offerta pur in momenti di conflittualità. Scontro che si può esprimere politicamente in forme pacifiche - contrattazione sindacale, pressione politico-istituzionale - o in forme di lotta anche dure, ma tutte all'interno di un dialogo, di una comunicazione, seppur antagonistica, tra le parti in causa. E questa è la classica forma politica di lotta a partire da bisogni concreti, non misconosciuti. Ma ecco lo spiazzamento: nessun interesse a sfruttare politicamente il bisogno per imporre una contrattazione vincente, più semplicemente, ci si organizza per occupare le case e difenderle, sviluppando momenti di socialità creativa innanzitutto. Il problema politico del rapporto con le istituzioni è secondario, e vien posto dalle istituzioni stesse che per sentirsi legittimate devono contare su controparti, vere o fittizie. Il potere ha paura del vuoto come del black-out perché lo sente come il limite di estraneità al suo movimento assiomatizzante. Per questo il rapporto antagonistico è funzionale essendo fondamentale la partecipazione al processo - mai termine tanto esatto! - politico, anche sotto forme di forte conflittualità. (Naturalmente, quanto affermato deve essere discutibile, specie per le conseguenze che si avrebbero in un insoffittamento della logica dell'antagonismo hegelo-marxiano).
I kraakers invece puntano a svuotare di senso politico la loro lotta e la loro socialità collettiva, organizzandosi in momenti parziali e globali, al di fuori di rapporti statuali; lo scontro viene imposto e ci si difende da esso, in forme militari, militanti, di massa, politiche, secondo le opportunità del momento, ma non è l'unica ragione del loro vivere sovversivo. Nei kraakers, per esempio, comunicazione e produzione coincidono se riflettiamo che essi non chiedono lavoro, legittimando così la funzione dispensatrice del potere-che-offre-e-che-nega. Essi inventano lavoro, creano e producono non per valore, ma per l'uso monetario immediato nel tempo libero, che diventa fondamentale nella loro concezione della qualità della vita.
Anche rispetto al tema del valore-lavoro si assiste a uno spiazzamento di non poco conto. Il valore-lavoro diventa valore residuo, funzionale alla socialità del gioco creativo, del tempo libero, e libero non solo e non tanto dal lavoro, dalla famiglia, in funzione passiva, ma libero di creare, di amore, di piaceri, libero per poter vivere come fantasia e desiderio aggradano. Non è l'utopia del futuro, ma pratica dell'utopia che, pur non misconoscendo le scadenze di lotta per attaccare e difendere questa tensione qualitativa verso un'esistenza libera e non soltanto liberata, si esplica secondo ritmi dettati da questi desideri.
È vero che l'inflazione, la spesa pubblica, il capitale privato, l'informazione, l'ideologia di stato intesa in senso lato producono un consumismo come mercato di merci, anche a livello di consumo, a differenza del '77 italiano, assistiamo a uno spiazzamento: non siamo in presenza di un nuovo consumismo indifferente alla forma-merce. La scelta di campo effettuata verso una diversa qualità della vita elude la trappola; anche il consumo nel presente è funzionalizzato alla socialità collettiva dei movimenti, per cui anche la qualità del consumo è agganciata alla soddisfazione pratica dell'utopia, con il rifiuto delle merci inutili, o tradizionalmente borghesi, o semplicemente estranee al modo di vivere sociale praticato. Niente pellicce e caviale, p. es. come invece pretendevano alcune forme di autoriduzione ed "esproprio proletario" che si manifestavano in questa richiesta in base a un'analisi politica ispirata a un antagonismo radicale che vedeva in questi obiettivi un momento della strategia politica tesa a rivendicare immediatamente qualsiasi bisogno, senza auto-criticare la qualità del bisogno. Il perché lo si deve andare a cercare nella falsa contrapposizione tra momento politico e momento sociale, per cui i bisogni sorti nella sfera sociale sarebbero tout-court rivoluzionari e quindi la loro richiesta insopportabile per il Capitale. Fallace illusione.
Nessun mito del bisogno, dunque, come nessun mito del denaro per soddisfare il bisogno; non si eleva il denaro a significante dispotico del reale, a Senso dell'esistenza, per il semplice motivo che le coordinate del progetto qualitativo per l'autodeterminazione della propria vita passano per altri territori che nulla hanno a che vedere con il lavoro, il denaro, il bisogno. Tuttalpiù passano attraverso il desiderio, il piacere, la prassi della libertà.
Un riscontro lo ritroviamo nel nuovo taglio impresso alla rivalutazione del momento associativo come luogo attuale di tale prassi della libertà. In fin dei conti, gli Alternatives svizzeri si sono estesi a partire dalla creazione di un Centro Sociale ove produzione e comunicazione trovavano uno spazio "esterno" a quello consentito dal regime. La repressione non è che una reazione viscerale al timore delle potenzialità sovversive di un luogo sociale ove si praticano quelle attività libere socialmente disinnescate qualora inserite all'interno della divisione sociale del lavoro. La creazione di centri che aprono spazi di autonomia esterni al vivere collettivo delle nostre società è importante, non solo per la pratica di libertà che vi si esplica, ma anche perché sgancia il movimento da alcuni vincoli che lo legano con il mondo del reale reificato. Autonomia da alcuni vincoli significa poter impostare strategie di collettività sempre più grandi e in via di espansione autonoma per quanto riguarda la produzione, la ricchezza distribuita, la circolazione di informazioni, la produzione di stampati, la disponibilità a sperimentazioni di comunità a livello pedagogico, istruttive, sanitarie,ecc.. Un piccolo mondo che non è completamente estraneo al sociale, ma sganciato in qualche suo legame; la potenzialità scardinatrice consiste, a mio avviso, nella collocazione di queste comuni-progetto all'interno di un modo di vivere che le prevede come tappe, all'interno di un discorso più largo che le comprende non come alibi, spazi di isolamento e di autogratificazione - come può essere accaduto per qualche altra forma di comune - ma come spazi di libertà, come luoghi di attualizzazione di livelli di utopia strappati al mondo circostante attraverso diverse impostazioni di vita e attraverso dure lotte.
Non voglio enfatizzare né tantomeno mitizzare questa estraneità dei due mondi: è una tensione che si scontra giorno per giorno con la realtà reificata e reificante. Ma il taglio dello scontro piega questa tensione indirizzandola verso forme di lotta e momenti creativi di altra socialità libera, costringendo il nemico a rincorrere, e non viceversa.
Ecco un altro esempio della strategia di spiazzamento: saltare più veloci, da un campo all'altro, senza cristallizzare le proprie energie e le proprie tensioni, senza fissarsi in un luogo. Evitare che noi stessi produciamo la ragnatela che ci lega vincolandoci a questa realtà e impedendoci di volare, come direbbe Giorgio Gaber.

ma quale pacifismo?
Prendiamo la questione della guerra, oggi tanto coinvolgente e familiare quasi che si facesse strada nella ragione degli uomini occidentali per farsi accettare come variabile legittima del mondo della politica - e questo dopo "Niente più guerre dopo Hiroshima!" -: parlarne tanto la legittimerebbe come discorso, vanificando il rifiuto della guerra come critica della politica. Perché qua sta l'esatta intuizione politica che si fa strada, a mio parere, in Europa, obbligando le forze e gli interessi sovrani ad abbandonare il fariseismo e a scoprire il proprio cinismo (fine del "volemmose bene", delle marce per la pace italiane con tutte le famiglie e la religione d'Italia).
La guerra è politica, non la sua forma ultima o necessaria in momenti di crisi o di disequilibrio causato dai rapporti di forza. La guerra è la politica con altri strumenti, per cui coerenza vuole che noi si combatte la guerra come la politica, andando a contrattaccare incidendo su quei rami che portano verso la forma-nucleare dello scontro politico. Non è il "salviamoci tutti, mettiamo tra parentesi le differenze, scurdammoce o' passato, coalizziamoci, noi uomini liberi di buona volontà" ecc.. Queste sono alleanze politiche, non sono scelte nette che pongono discriminanti che servono da trampolini di lancio per una critica serrata e una prassi di lotta corretta.
Lo spiazzamento qua lo si registra in prima immediatezza osservando le parole d'ordine: il rifiuto del nucleare, della guerra è connesso strettamente con il rifiuto del mondo politico, con il rifiuto della Pace e dell'Ordine che questo mondo politico impone all'Occidente, sulle spalle di noi sfruttati e di quei paesi che scontano i conflitti decentralizzati prodotti dal gioco politico che in Europa è pacifico, almeno finora, altrove è bellico. Noi, in effetti, non dovremmo avere nulla a che spartire con la "cattiva coscienza del borghese tranquillo" piccolo e grande, che vede la sua macchina da guerra incontrollata minacciare se stessa e il suo programmatore, reprimendo lo spettro di coloro che hanno fatto da cavia a questa macchina subendo e pagando con la vita i conflitti che essa provocava. La lotta contro la guerra è oggi l'alibi per il Modo di Produzione Capitalistico di ieri e la base per la sua ristrutturazione e razionalizzazione a livello planetario sotto diverse coniugazioni tra Capitale e Lavoro, Stato e Capitale, razionalità del dominio e percorsi della soggettività.
Da qua, un invito alla lotta... alla Pace, all'Ordine in vista del rifiuto non solo della guerra, ma delle guerre come parametro su cui si modella l'esistenza dell'uomo nel suo dominarsi reciprocamente sotto le vesti dell'homo homini lupus di antropologica memoria.
Solo un livello qualitativo d'esistenza può assicurare, con le dovute spie critiche e autocritiche, la fine dell'Ordine Necrologico che informa la vita totalmente politica della civiltà occidentale e della sua razionalità necrofora nel suo statuto modulare di codificazioni e nel suo meccanismo di formazione e funzionamento.