Rivista Anarchica Online
Spiazzare il potere
di Salvo Vaccaro
L'Europa, o meglio, gli stati europei stanno vivendo momenti difficili; dopo la declassazione da
potenza mondiale, per via della mancata unità interna e della strategia reaganiana che privilegia il
bipolarismo, ci si mette pure la Polonia e i dissidi sorti tra NATO-europea e USA, e all'interno
dell'Internazionale Socialista che registrano le divisioni strategiche di due linee politiche per il
futuro e il ruolo dell'Europa. Ma io voglio incentrare il mio discorso sulle lotte, giovanili e non, per la casa, la
pace, contro la
guerra, il nucleare e simili tematiche. Dico anche non giovanili, perché se c'è una
caratteristica
che collega le varie lotte dall'Inghilterra all'Olanda, dalla Svizzera alla Germania, dalla Francia
alla Danimarca, è la mancanza di un'età unitaria in coloro che lottano essendone i protagonisti.
Sono giovani, ma anche padri di famiglia, disoccupati, mezzi-occupati, bianchi, neri, emigrati,
indigeni. Il perché di questa inattesa cementificazione che sbaraglia analisi vetero-politiche di
classe, demografiche e statistiche, tenterò di vederlo strada facendo. Manca l'Italia. Troppo presto per
far un discorso sulle lotte in Italia che pure ci sono, e su temi
analoghi, ma con caratteristiche che la allontanano dall'esempio europeo, per cui andrebbero
indagate altrove, magari prendendo spunto da alcune riflessioni sulle eurolotte che qui farò. Forse
avremo qualcosa da imparare, noi italiani, politici ultra-fini abituati alla lotta da decenni, con una
forte sinistra parlamentare che recita parti meschine nell'agorà italiana e internazionale,
immobilizzando energie che altrove riescono a irrompere prepotentemente sconvolgendo, non
dico regimi politici, ma equilibri e acque stagnanti di socialismi di ultima nascita, di
socialdemocrazie continentali, di neo-conservatorismi anglosassoni. In effetti, tutto è stato imprevisto,
almeno per chi osserva secondo un'ottica che privilegia i
macro-aspetti della realtà. Il modello della germanizzazione sembrava invadere l'intera Europa;
la dinamica di disciplinarizzazione dello spazio europeo, come si diceva incisivamente a
proposito di manovre giuridiche, era già avviata e si collaudavano nel frattempo alcune tecniche
di contenimento dei movimenti collettivi di rivolta per evitare che il '77 italiano si europeizzasse. Invece
è accaduto ciò che Essi non avevano previsto. E ciò inoltre senza che il modello '77
venisse preso a punto di riferimento dei giovani europei. Non ho alcuna intenzione di paragonare
i due eventi, omogeneizzando scorrettamente fenomeni peculiari e differenti come il movimento
tedesco antinucleare, gli alternativi svizzeri, i kraakers olandesi. Ma se c'è un filo conduttore che
lega questi vari momenti di lotta è una diversa impostazione strategica, nella quale
l'insubordinazione al comando, l'indisciplina sovversiva si attua non tanto per partito preso,
secondo un mero calcolo politico per opera o frutto del lavoro militante di organizzazioni
politiche, bensì per una certa tensione irriducibilmente soggettiva verso il cambiamento
qualitativo dell'esistenza radicato qui e ora, nel presente come tempo e come spazio, che si
manifesta in forme collettive di insubordinazione sociale, appunto.
il rifiuto del politico Questa tensione rovescia radicalmente
la prospettiva di una strategia politica collettiva, in quanto
movimenti che riescono a gestire organizzativamente la propria forza scardinatrice senza
ricorrere a forme o a tutele di organizzazioni politiche o organismi politici tipici nella loro forma
classica (fissità della struttura, democrazia interna ruolizzata, delega degli incarichi). Si ha un
rifiuto del politico come sfera di esistenza e di lotta, politico nel senso strategico che in
Occidente ha assunto, comprese le formazioni marxiste, di gestione delle energie finalizzate a un
futuro più o meno immediato, con un cinismo dei mezzi rispetto al fine, con un machiavellismo
del fine stesso, per cui la parola "rivoluzione" è diventata politicamente vuota, in quanto
coincidente, nell'immaginario simbolico che si è imposto, con rivoluzione politica di strutture e
non di qualità della vita. Queste lotte rivendicano pienamente invece una socialità delle forze
rivoluzionarie che,
rivalutando peraltro inconsciamente le intuizioni anarchiche - ma non è il caso di gioire, o di
affibbiare incautamente padri, o nominare eventi nuovi - danno un senso alla lotta attuale che per
il respiro che assumono oggi è indicativo, speriamo, di un cambiamento di rotta nell'immaginario
rivoluzionario; nel quale dopo il crollo di certezze finora ritenute mitiche, si fanno avanti
percorsi di lotta carattere ricco, polivalente e estremamente libertario. Se pur con affinità ben
evidenti con i nostri movimenti anarchici, dicevo che non è il caso di gioire di queste affinità
perché, a mio avviso, anche noi scontiamo un peso politico che ci ha impedito, almeno finora, di
anticipare questi momenti, di saperne cogliere le novità per rinvigorirle con le nostre tematiche e
i nostri contenuti. Ma soprattutto non è un caso che questi movimenti sorgano al di fuori di
qualsiasi movimento politico organizzato, compreso il nostro; probabilmente, l'affinità è il
risultato di percorsi autonomi di coscienza e di momenti di lotta evolutisi sino a renderli
interessanti dal nostro punto di vista; probabilmente solo un nostro lavoro sotterraneo, indirizzato
a micro-aspetti di momenti di socialità collettivi sono stati consciamente recepiti dai movimenti
odierni, sotterraneità che diventa ben visibile nei kraakers olandesi in cui le influenze dei provos
sono ben presenti all'interno. Sembra di assistere alla riedizione dello scontro all'interno della 1a
Internazionale tra Marx e
Bakunin, sulla dicotomia esclusiva rivoluzione politica-rivoluzione sociale, con in più
l'avvertenza, scaturita da decenni di dominio raffinato pesante sui corpi e sulle menti, della non-immediatezza
rivoluzionaria dello spazio sociale. Tanto è vero che la società civile oggi non
esprime contenuti qualitativamente diversi da quelli della società politica, seppur talvolta
conflittuali. Occorre praticare un solco utopico oltre la socialità permeata e territorializzata dal
Capitale-Stato che vanno assumendo ogni aspetto del sociale inquinandone il territorio con le
loro pratiche di dominio, che vanno dall'informazione all'industria, dal denaro all'ideologia, dalla
scuola alle carceri, ecc.. Fatto sta che i contenuti di socialità espressi nelle lotte non sono immediati,
dati come elementi
antagonistici, speculari alle determinazioni offerte/imposte dal dominio diffuso. Si assiste infatti
a un sorprendente spiazzamento dei luoghi e delle modalità dei fenomeni di lotta che
trasversalizzano (come si sarebbe detto a Bologna tempo fa...) l'intero campo dell'esistenza
umana senza frantumarlo in compartimenti stagni (sessualità, lavoro, eros, bisogni, desideri,
alimentazione, vestiario, ecc.). Ed è in questa strategia dello spiazzamento continuo che sta la
forza dei movimenti che potenziano così la loro estraneità ai moduli di vita imposti e prodotti dal
dominio nei suoi valori spettacolari.
l'esempio dei kraakers Penso infatti ad alcune lotte ben
precise, a partire da bisogni concreti, come la casa; la dinamica
del bisogno seduce in un ricatto come strada obbligata alla risoluzione politica del problema: la
trappola della contrattazione politica, del gioco della domanda/offerta pur in momenti di
conflittualità. Scontro che si può esprimere politicamente in forme pacifiche - contrattazione
sindacale, pressione politico-istituzionale - o in forme di lotta anche dure, ma tutte all'interno di
un dialogo, di una comunicazione, seppur antagonistica, tra le parti in causa. E questa è la
classica forma politica di lotta a partire da bisogni concreti, non misconosciuti. Ma ecco lo
spiazzamento: nessun interesse a sfruttare politicamente il bisogno per imporre una
contrattazione vincente, più semplicemente, ci si organizza per occupare le case e difenderle,
sviluppando momenti di socialità creativa innanzitutto. Il problema politico del rapporto con le
istituzioni è secondario, e vien posto dalle istituzioni stesse che per sentirsi legittimate devono
contare su controparti, vere o fittizie. Il potere ha paura del vuoto come del black-out perché lo
sente come il limite di estraneità al suo movimento assiomatizzante. Per questo il rapporto
antagonistico è funzionale essendo fondamentale la partecipazione al processo - mai termine
tanto esatto! - politico, anche sotto forme di forte conflittualità. (Naturalmente, quanto affermato
deve essere discutibile, specie per le conseguenze che si avrebbero in un insoffittamento della
logica dell'antagonismo hegelo-marxiano). I kraakers invece puntano a svuotare di senso politico la loro lotta
e la loro socialità collettiva,
organizzandosi in momenti parziali e globali, al di fuori di rapporti statuali; lo scontro viene
imposto e ci si difende da esso, in forme militari, militanti, di massa, politiche, secondo le
opportunità del momento, ma non è l'unica ragione del loro vivere sovversivo. Nei kraakers, per
esempio, comunicazione e produzione coincidono se riflettiamo che essi non chiedono lavoro,
legittimando così la funzione dispensatrice del potere-che-offre-e-che-nega. Essi inventano
lavoro, creano e producono non per valore, ma per l'uso monetario immediato nel tempo libero,
che diventa fondamentale nella loro concezione della qualità della vita. Anche rispetto al tema del
valore-lavoro si assiste a uno spiazzamento di non poco conto. Il
valore-lavoro diventa valore residuo, funzionale alla socialità del gioco creativo, del tempo
libero, e libero non solo e non tanto dal lavoro, dalla famiglia, in funzione passiva, ma libero di
creare, di amore, di piaceri, libero per poter vivere come fantasia e desiderio aggradano. Non è
l'utopia del futuro, ma pratica dell'utopia che, pur non misconoscendo le scadenze di lotta per
attaccare e difendere questa tensione qualitativa verso un'esistenza libera e non soltanto liberata,
si esplica secondo ritmi dettati da questi desideri. È vero che l'inflazione, la spesa pubblica, il capitale
privato, l'informazione, l'ideologia di stato
intesa in senso lato producono un consumismo come mercato di merci, anche a livello di
consumo, a differenza del '77 italiano, assistiamo a uno spiazzamento: non siamo in presenza di
un nuovo consumismo indifferente alla forma-merce. La scelta di campo effettuata verso una
diversa qualità della vita elude la trappola; anche il consumo nel presente è funzionalizzato alla
socialità collettiva dei movimenti, per cui anche la qualità del consumo è agganciata alla
soddisfazione pratica dell'utopia, con il rifiuto delle merci inutili, o tradizionalmente borghesi, o
semplicemente estranee al modo di vivere sociale praticato. Niente pellicce e caviale, p. es. come
invece pretendevano alcune forme di autoriduzione ed "esproprio proletario" che si
manifestavano in questa richiesta in base a un'analisi politica ispirata a un antagonismo radicale
che vedeva in questi obiettivi un momento della strategia politica tesa a rivendicare
immediatamente qualsiasi bisogno, senza auto-criticare la qualità del bisogno. Il perché lo si deve
andare a cercare nella falsa contrapposizione tra momento politico e momento sociale, per cui i
bisogni sorti nella sfera sociale sarebbero tout-court rivoluzionari e quindi la loro richiesta
insopportabile per il Capitale. Fallace illusione. Nessun mito del bisogno, dunque, come nessun mito del denaro
per soddisfare il bisogno; non si
eleva il denaro a significante dispotico del reale, a Senso dell'esistenza, per il semplice motivo
che le coordinate del progetto qualitativo per l'autodeterminazione della propria vita passano per
altri territori che nulla hanno a che vedere con il lavoro, il denaro, il bisogno. Tuttalpiù passano
attraverso il desiderio, il piacere, la prassi della libertà. Un riscontro lo ritroviamo nel nuovo taglio
impresso alla rivalutazione del momento associativo
come luogo attuale di tale prassi della libertà. In fin dei conti, gli Alternatives svizzeri si sono
estesi a partire dalla creazione di un Centro Sociale ove produzione e comunicazione trovavano
uno spazio "esterno" a quello consentito dal regime. La repressione non è che una reazione
viscerale al timore delle potenzialità sovversive di un luogo sociale ove si praticano quelle
attività libere socialmente disinnescate qualora inserite all'interno della divisione sociale del
lavoro. La creazione di centri che aprono spazi di autonomia esterni al vivere collettivo delle
nostre società è importante, non solo per la pratica di libertà che vi si esplica, ma anche
perché
sgancia il movimento da alcuni vincoli che lo legano con il mondo del reale reificato. Autonomia
da alcuni vincoli significa poter impostare strategie di collettività sempre più grandi e in via di
espansione autonoma per quanto riguarda la produzione, la ricchezza distribuita, la circolazione
di informazioni, la produzione di stampati, la disponibilità a sperimentazioni di comunità a
livello pedagogico, istruttive, sanitarie,ecc.. Un piccolo mondo che non è completamente
estraneo al sociale, ma sganciato in qualche suo legame; la potenzialità scardinatrice consiste, a
mio avviso, nella collocazione di queste comuni-progetto all'interno di un modo di vivere che le
prevede come tappe, all'interno di un discorso più largo che le comprende non come alibi, spazi
di isolamento e di autogratificazione - come può essere accaduto per qualche altra forma di
comune - ma come spazi di libertà, come luoghi di attualizzazione di livelli di utopia strappati al
mondo circostante attraverso diverse impostazioni di vita e attraverso dure lotte. Non voglio enfatizzare
né tantomeno mitizzare questa estraneità dei due mondi: è una tensione
che si scontra giorno per giorno con la realtà reificata e reificante. Ma il taglio dello scontro piega
questa tensione indirizzandola verso forme di lotta e momenti creativi di altra socialità libera,
costringendo il nemico a rincorrere, e non viceversa. Ecco un altro esempio della strategia di spiazzamento:
saltare più veloci, da un campo all'altro,
senza cristallizzare le proprie energie e le proprie tensioni, senza fissarsi in un luogo. Evitare che
noi stessi produciamo la ragnatela che ci lega vincolandoci a questa realtà e impedendoci di
volare, come direbbe Giorgio Gaber.
ma quale pacifismo? Prendiamo la questione della guerra, oggi
tanto coinvolgente e familiare quasi che si facesse
strada nella ragione degli uomini occidentali per farsi accettare come variabile legittima del
mondo della politica - e questo dopo "Niente più guerre dopo Hiroshima!" -: parlarne tanto la
legittimerebbe come discorso, vanificando il rifiuto della guerra come critica della politica.
Perché qua sta l'esatta intuizione politica che si fa strada, a mio parere, in Europa, obbligando le
forze e gli interessi sovrani ad abbandonare il fariseismo e a scoprire il proprio cinismo (fine del
"volemmose bene", delle marce per la pace italiane con tutte le famiglie e la religione d'Italia). La guerra
è politica, non la sua forma ultima o necessaria in momenti di crisi o di disequilibrio
causato dai rapporti di forza. La guerra è la politica con altri strumenti, per cui coerenza vuole
che noi si combatte la guerra come la politica, andando a contrattaccare incidendo su quei rami
che portano verso la forma-nucleare dello scontro politico. Non è il "salviamoci tutti, mettiamo
tra parentesi le differenze, scurdammoce o' passato, coalizziamoci, noi uomini liberi di buona
volontà" ecc.. Queste sono alleanze politiche, non sono scelte nette che pongono discriminanti
che servono da trampolini di lancio per una critica serrata e una prassi di lotta corretta. Lo spiazzamento qua
lo si registra in prima immediatezza osservando le parole d'ordine: il rifiuto
del nucleare, della guerra è connesso strettamente con il rifiuto del mondo politico, con il rifiuto
della Pace e dell'Ordine che questo mondo politico impone all'Occidente, sulle spalle di noi
sfruttati e di quei paesi che scontano i conflitti decentralizzati prodotti dal gioco politico che in
Europa è pacifico, almeno finora, altrove è bellico. Noi, in effetti, non dovremmo avere nulla a
che spartire con la "cattiva coscienza del borghese tranquillo" piccolo e grande, che vede la sua
macchina da guerra incontrollata minacciare se stessa e il suo programmatore, reprimendo lo
spettro di coloro che hanno fatto da cavia a questa macchina subendo e pagando con la vita i
conflitti che essa provocava. La lotta contro la guerra è oggi l'alibi per il Modo di Produzione
Capitalistico di ieri e la base per la sua ristrutturazione e razionalizzazione a livello planetario
sotto diverse coniugazioni tra Capitale e Lavoro, Stato e Capitale, razionalità del dominio e
percorsi della soggettività. Da qua, un invito alla lotta... alla Pace, all'Ordine in vista del rifiuto non solo
della guerra, ma
delle guerre come parametro su cui si modella l'esistenza dell'uomo nel suo dominarsi
reciprocamente sotto le vesti dell'homo homini lupus di antropologica memoria. Solo un livello qualitativo
d'esistenza può assicurare, con le dovute spie critiche e autocritiche, la
fine dell'Ordine Necrologico che informa la vita totalmente politica della civiltà occidentale e
della sua razionalità necrofora nel suo statuto modulare di codificazioni e nel suo meccanismo di
formazione e funzionamento.
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