Rivista Anarchica Online
A proposito di incesto - quando ci vuole, ci vuole
di Fausta Bizzozzero
"Hanno fatto bene" è stato il commento più diffuso qui al nord. L'ho captato
in tram, nei
bar, per la strada. Qualcuno si è differenziato: "io l'avrei castrato", immaginando una
punizione ancora più crudele per chi ha utilizzato i suoi attributi sessuali solo come
strumenti di potere, di sopraffazione, di violenza. Il fatto è noto: a Catania, nel quartiere
S. Cristoforo, due donne hanno ammazzato il violentatore delle loro figlie nonché marito
di una di esse. L'hanno ammazzato a colpi di pistola (la pistola di lui) con
premeditazione, con lucidità, e poi hanno scaricato il suo corpo alla centrale di polizia e si
sono consegnate rivendicando il loro gesto. Il fatto è certamente eccezionale ed ha tali
implicazioni da giustificare il dibattito che intorno ad esso si è creato e le conseguenti
multiformi interpretazioni e prese di posizione. Se l'incesto è un tabù vecchio come il mondo (o
quasi), sul significato della sua origine i
pareri e le interpretazioni sono diversi (si vedano i due articoli successivi che affrontano
l'argomento da due diverse angolazioni). Io trovo molto più convincente l'interpretazione
di Levi-Strauss (che poi è anche quella di Clastres) per cui il tabù dell'incesto, presente in
tutti i popoli primitivi, è la norma che fonda la socialità (poiché permette l'ampliamento
delle relazioni sociali) ed è anche il momento di passaggio dalla natura alla cultura, dalla
natura in cui tutto è dato come possibile, alla cultura che l'uomo produce con la creazione
di norme, codici di comportamento, miti. In questo senso, quindi, si può pensare alla
violazione del tabù come a una regressione alla natura, poiché l'evoluzione dell'essere
umano è contrassegnata dalla sua capacità di mediazione e di elaborazione, cioè dalla
cultura, non certo dalla natura. Tutti noi sappiamo quanto l'incesto sia diffuso, soprattutto e non a caso, in situazioni
economicamente e culturalmente arretrate: il sud dell'Italia ma anche le zone di montagna
e le campagne, in particolare le campagne del veneto cattolico e bigotto in cui, come
risulta da una recente ricerca condotta da Alessandro Salvini dell'Università di Padova,
sembra che le bambine vengano utilizzate prima dal padre e poi passate a tutti gli altri
maschi della famiglia col beneplacito di tutto il clan familiare. E tutti sappiamo anche che
se l'incesto costituisce la violazione di un tabù con radici assai profonde, è però una
violazione così diffusa da farla sembrare quasi socialmente "accettata", malvolentieri,
scuotendo la testa, come se si trattasse di qualcosa di sbagliato ma inevitabile,
ineliminabile. E tutti sappiamo anche che questa violazione, questa antinorma, fa parte
della sfera del "non detto", per cui all'interno della famiglia tutti sanno ma tacciono,
all'esterno chi sa tace e le dirette interessate subiscono e tacciono. Queste sono cose che si
fanno ma non si dicono, son cose che si compiono di nascosto, sono tragedie che si
consumano all'interno del muro di cinta della fortezza-famiglia, al riparo da sguardi
indiscreti e dai giudizi della gente e, soprattutto con la connivenza delle altre donne della
famiglia, prima fra tutte la madre. Ogni tanto qualche vittima si ribella e denuncia il
padre-padrone-stupratore, tutti/tutte scuotono la testa in preda ad una sgradevole
sensazione di malessere, dicono "povera ragazza" e si affrettano a non pensarci più. In
definitiva sarebbe molto meglio che non ci fossero questi sporadici episodi di ribellione,
che tutto restasse nella grande sfera del "non detto", del "rimosso" collettivo o individuale
che permette alla gente di continuare a vivere, se poi di vivere si tratta. Non è quindi il caso di incesto in
sé ad aver scatenato tante reazioni quanto il
comportamento delle due donne. Vissute sempre in un quartiere sovrappopolato con
ferrei codici di comportamento che prevedono l'assoluta sottomissione ai loro uomini, la
delega totale, la connivenza, in cui le bambine di tredici anni sono già considerate pronte
per l'uso, la reazione di queste due donne non può che sembrare eccezionale,
completamente al di fuori degli schemi prestabiliti. Per diverse ragioni. Innanzitutto la
ribellione che si è concretizzata nella decisione di sopprimere il maschio-padrone-violentatore. Una ribellione che
presuppone il rifiuto degli antichissimi codici femminili,
di un millenario modello culturale in cui alla donna spettano di diritto solo il silenzio e il
pianto e niente è troppo amaro da sopportare. E presuppone anche l'aspirazione a un'altra
vita, la confusa sensazione che possa esistere un modo altro di essere donne. Carmela
Zuccaro voleva per sua figlia un futuro diverso dal suo: non la classica "fuga" a tredici
anni, non il primo figlio a quattordici e il primo nipote a trenta. Ma la loro ribellione
sottende anche il rifiuto dei nuovi messaggi, di un'altra cultura "progressista" che non ha
ancora soppiantato la vecchia e con essa convive: la cultura del sesso propinato in tutte le
salse, della pornografia, della pubblicità ammiccante, dei cinema a luci rosse, la cultura
(ma meglio sarebbe chiamarla sub-cultura) del sesso a tutti i costi. Due culture che
possono sembrare molto diverse ma che in fondo in fondo non lo sono poi tanto: il
protagonista, il destinatario privilegiato dei messaggi continua ad essere l'uomo mentre la
donna continua ad essere un "bene di consumo" a cui è stata solo cambiata la confezione. Ma il loro gesto,
rispetto alla cultura sicula, è stato ancora più sfrontato: non solo si sono
ribellate in prima persona (senza delegare ad altri maschi) ma si sono anche appropriate e
servite di strumenti tipicamente maschili: l'appuntamento, l'automobile, la pistola. Hanno
fatto quello che da che mondo è mondo in Sicilia solo i maschi possono fare, e in questo
modo hanno anche espresso il loro rifiuto delle istituzioni, della giustizia, dei tribunali.
Non l'hanno denunciato, l'hanno ucciso. In campo femminista le posizioni sono diversificate. Da un lato Ida
Faré (femminista
storica e redattrice di Grattacielo) per cui "sono due donne che hanno commesso un
omicidio. Capisco la loro esasperazione, il contesto di tragedia tutta passionale e
mediterranea, i motivi che le hanno spinte alla vendetta ma, ecco, solo di vendetta si
tratta: si sono arrogate, al pari del padre, un diritto sul corpo considerato come cosa loro"
e Mariella Regoli di Effe: "non dimentichiamo che l'episodio è avvenuto in una città dove
il delitto d'onore è pane quotidiano ma dove soprattutto negli ultimi tempi la già scarsa
fiducia istituzionale ha subìto un duro colpo a causa di una serie di processi per stupro
dove i violentatori hanno avuto pene lievissime e le vittime sono state quasi trasformate
in colpevoli. Ecco, queste donne che io non ritengo degne di rispetto ma semmai di
comprensione, hanno forse espresso la loro piena sfiducia nei confronti della legge e della
giustizia". Dall'altro Anna Foa e Mirella Serri che sul Manifesto si pongono la domanda
"Può un omicidio essere la testimonianza di un rinnovamento positivo della mentalità
tradizionale?" e dopo aver analizzato il caso concludono che le due donne "sono degne di
tutto rispetto". Posizioni che, pur nella notevole diversità (ridicole le prime due,
coraggiosa e intelligente la terza), rispecchiano un vizio di fondo comune e cioè la
convinzione che le donne non debbano usare mezzi violenti perché la violenza è
prerogativa esclusivamente maschile, non fa parte del bagaglio culturale femminile. Ma
chi l'ha detto che le donne, proprio in quanto donne, debbono essere nonviolente? Mi
sembra un'enorme sciocchezza. Ma come, la vera "rivoluzione" femminista non doveva
forse essere proprio "culturale"? Non doveva forse intessere e reinventare nuovi modi di
essere? Forse che ci dobbiamo tenere sul groppone l'immagine della donna dolce e
materna, insomma nonviolenta? Neanche per sogno. So perfettamente quanto sia difficile utilizzare lo strumento
"violenza" in modo corretto,
so bene che comporta mille implicazioni psicologiche, di comprensione esterna, ecc. ecc.,
ma so anche che queste difficoltà sono identiche sia per gli uomini che per le donne, con
la differenza che mentre i primi dimostrano una agghiacciante faciloneria nel suo utilizzo,
le seconde vi ricorrono solo con sofferenza, in casi disperati, come ultima possibilità e si
dimostrano così intrinsecamente migliori. Ma quando ci vuole ci vuole, perdio. Come nel
caso di Iana e Melina. Non penso certo che si possano risolvere problemi sociali
ricorrendo a una sorta di "giustizia sommaria" generalizzata, ma anche gesti di questo
tipo, che assumono un significato esemplare, possono contribuire a cambiare
l'immaginario maschile e femminile e quindi a modificare la società. C'è solo da augurarsi
che la filosofia della sopportazione venga sostituita dalla filosofia della rivolta.
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