Rivista Anarchica Online
Dietro la crisi
di Maria Teresa Romiti
Continua e ossessiva come sempre, la crisi economica è il punto focale per
tutti i
mass-media. Se ne discute ovunque; sono tutti convinti di avere in tasca la ricetta
giusta per eliminare la malattia misteriosa che ha colpito il mondo occidentale.
Eppure, volendo affrontare il problema, appare arduo, se non quasi impossibile,
riuscire soltanto a formulare una teoria in cui sistemare i dati in un modo coerente,
tanto è vero che le previsioni fatte dai super-esperti, gli economisti di chiara fama,
vengono smentite impietosamente dai fatti. Del resto non sono neppure riusciti ancora
a mettersi d'accordo se questo è un periodo di crisi o no. Così mentre il segretario
statunitense per il commercio è convintissimo che questi sono gli ultimi sussulti della
crisi moribonda, il segretario al tesoro sostiene che ci troviamo di fronte ad un periodo
recessivo lungo e grave che non si riesce a sbloccare. Addirittura in Italia, mentre
alcuni piangono su una recessione tragica, c'è chi, come Francesco Forte economista
del PSI., è convinto che ci ritroviamo in piena ripresa, un vero e piccolo Boom. Come
si vede ampie divergenze e se l'economia è sempre stata una scienza controversa, la
situazione odierna è veramente troppo caotica. Tentare un'analisi è quindi un progetto
ambizioso, forse destinato al fallimento, ma non per questo meno interessante. E da
che partire se non dal fantasma che ti tiene svegli buona parte del mondo: l'inflazione? Se un tempo, infatti,
l'inflazione era un fenomeno, seppure in certi casi grave,
temporaneo, oggi la sua caratteristica maggiore è la costante presenza, tanto da
considerare la stabilità dei prezzi solo una favola. Le cause? Certamente molteplici,
ammettono gli esperti, ma poi i vari tentativi di analizzarle, così come i rimedi
proposti, falliscono miseramente. L'inflazione, novello Golem, sembra vivere di vita
propria, ribelle a qualsiasi controllo, tanto che l'obbiettivo dichiarato non è più
eliminarla, ma solo evitare che raggiunga livelli sud-americani. Ci si rassegna a vivere
con questo nuovo fenomeno. E poi che fare? Lo stato moderno con le sue necessità di controllo
sempre maggiore, capillare, con
una burocrazia in continua crescita, spesso imprenditore di settori poco remunerativi o
comunque a gestione faraonica, non può che aumentare la spinta inflazionistica, né del
resto, viaggiano in direzione diversa le grandi aziende che, operando in situazione di
quasi monopolio, possono permettersi il lusso di far assorbire dall'aumento dei prezzi
qualsiasi maggiorazione dei costi. E sarebbe in ogni caso, troppo rischioso per la
stabilità sociale aumentare troppo la pressione fiscale o dare drastici tagli alla spesa
pubblica, specie nel settore dell'assistenza. Molto più indolore far assorbire gli oneri
attraverso l'inflazione, fenomeno misterioso a cui, tra l'altro, la gente si abitua. Anzi
un comportamento consumistico imperante, unito probabilmente alla convinzione
dell'inutilità di molti provvedimenti, aumenta a sua volta le spinte inflazionistiche.
Del resto non è una novità che, in economia, la psicologia, la fiducia nei
provvedimenti, giochino un ruolo importante, a dimostrazione il successo del governo
Spadolini basato anche su un sottile gioco di richieste ed aspettative. Poco importa se poi l'inflazione si
accompagna alla stagnazione economica o alla
recessione, tanto che oggi si preferisce parlare di stagflazione, intendendo proprio
l'unione dei due fenomeni, qualche scotto va pure pagato. Ci si abitua a tutto, pure ad una situazione recessiva
che ha colpito anche il cuore
dell'impero. Gli Stati Uniti hanno avuto in marzo una diminuzione del tasso di
crescita del P.N.L. dello 0,7%, e l'indice di produzione è calato dello 0,8%. E il resto
del mondo non sta certo meglio, tralasciando i paesi del terzo mondo, in una
situazione caotica sempre sull'orlo del collasso, l'Europa ha problemi sempre maggiori
e perfino Giappone e Germania non riescono più a contenere i danni. Potrebbe essere altrimenti?
L'industria non è più in grado di autofinanziarsi ed è
costretta a ricorrere al credito in maniera sempre più massiccia, ma il sistema
creditizio è bloccato dalla politica monetaria che impone alti tassi di sconto nel
tentativo di arginare l'inflazione e da un settore pubblico che fagocita la liquidità
rimasta. E poi i banchieri, e non solo loro, hanno scoperto che i profitti possono essere
alti in queste situazioni, anzi aumentando il settore dei sevizi invece che quello degli
investimenti si guadagna di più con minor rischio. D'altra parte i prezzi delle materie
prime sono precipitati, perfino il petrolio, il mitico oro nero, sta crollando nonostante
tutti i tentativi di difesa. L'unica attività che sembra prosperare è la speculazione
finanziaria che giocando tra valute fluttuanti, oro, borse, titoli ha trovato il paese della
cuccagna. Gli unici che sembrano destinati a dover pagare per questo groviglio sono i lavoratori,
sopratutto quelli a minor reddito, non-specializzati o con specializzazioni obsolete. La
disoccupazione nei soli Stati Uniti ha raggiunto il 9%, è in aumento in Germania,
Francia, Inghilterra, per non parlare dell'Italia dove ormai ha superato il 10%,
nonostante la Cassa Integrazione che in parte copre il problema. Senza contare le
difficoltà nel trovare il primo impiego, l'aumento della scolarità e l'uscita dal mondo
del lavoro di molte donne. Fenomeni che concorrono a formare una disoccupazione
nascosta, ma non per questo meno reale. Se la disoccupazione è un fenomeno tipico
dei periodi di recessione e in quanto tale non stupisce, stupisce invece la mancanza di
reazione sociale. In una situazione come quella che stiamo vivendo dove
disoccupazione, insicurezza del posto di lavoro si accompagnano ad una generale
lievitazione dei prezzi, compresi i generi di prima necessità, sarebbe logico aspettarsi
un aumento delle tensioni, delle rivolte, dei conflitti. Invece, a parte casi particolari, si
assiste a una quasi totale acquiescenza. Non a caso gli ultimi contratti delle grandi
case automobilistiche americane, General Motors e Ford, veri e propri contratti
capestro, sono stati approvati dalla maggioranza degli operai. E in Italia, dove le lotte
sono spesso state radicali, oggi si accetta tutto. Se in questo quadro si possono tentare
alcune spiegazioni parziali od inventare alcuni punti nodali, sembra veramente
difficile riuscire a costruire un modello coerente. E questo non solo per chi, come me,
ha poca esperienza, ma anche per gli economisti che procedono più che altro a tentoni,
quasi rinunciando a una teoria organica. Non riuscire a formulare una teoria può anche
essere solo l'indicatore che gli strumenti usati sono vecchi, non aderenti alla realtà. Se si considera
l'economia non più come una scienza universale, ma come un modello
valido solo per particolari società, allora le difficoltà delle teorie economiche
potrebbero essere solo le difficoltà di modelli che non servono più ad analizzare le
società. La crisi economica viene definita ed analizzata all'interno delle strutture di
mercato, ma se l'errore fosse proprio questo, se questa non fosse una semplice crisi?
Se il periodo che stiamo vivendo fosse un cambiamento più profondo e più ampio
della società, allora le difficoltà sarebbero dovute all'impossibilità di analizzare un
fenomeno nuovo all'interno di vecchie categorie. Ipotesi ardita, magari fasulla, ma che
può essere utile analizzare. Con un'analisi più sociologica si possono trovare dei punti
significativi per individuare dei cambiamenti, come quelli esemplificati da Polanyi
nella "Grande trasformazione", parlando della rivoluzione industriale. Essa fu
caratterizzata da una tecnologia di vasta portata che permise un nuovo modo di
organizzare il lavoro: "Non fu l'avvento della macchina in quanto tale ma l'invenzione
di macchinari e di impianti complessi e perciò specifici che cambiò completamente il
rapporto del mercante con la produzione", spiega molto bene Polanyi, dal sorgere di
una nuova classe sociale che organizzò la nuova forma di produzione e raggiunse il
potere attraverso cambiamenti sociali e politici, dallo stabilirsi di una nuova cultura,
che aveva una diversa visione del mondo, con nuovi valori etici e nuove idee che
influenzarono lo sviluppo della scienza, della filosofia, della letteratura e da una
parallela catastrofe culturale che in pochi decenni spazzò via la vecchia cultura,
disgregò antichi modelli lasciando le persone in uno stato di prostrazione e abulia. Del
resto, di fronte a cambiamenti così profondi, la posizione dell'uomo nella società, il
suo rapporto con se stesso e gli altri, il suo sistema di valori fino a quel momento
certo e immutabile vengono sconvolti, è il crollo del proprio mondo, la distruzione del
sistema di riferimento che gli permetteva di pensare ed agire. Oggi non si possono vedere forse profonde
analogie? Non è in corso una rivoluzione
tecnologica, l'automazione, che sta cambiando l'organizzazione del lavoro? Non è
sorta una nuova classe, la tecnoburocrazia, che sta lottando per il potere? Ma ancora di
più non è la nostra stessa cultura che sta cambiando? Non sorgono nuove etiche, un
sistema di valori nuovi? E ancora più importante, non è la vecchia cultura che si sta
disgregando? Se la cultura borghese è in rapido declino, ancora più significativo è il
crollo della cultura marxista, nata e vissuta tutta all'interno del sistema capitalistico,
ideologia che, pur diversa, era inserita nello stesso schema e che quindi non può
sopravvivere al cambiamento. Questo non potrebbe spiegare, almeno in parte,
l'incapacità di reazione degli operai, in gran parte egemonizzati dalla cultura
marxista? E non si potrebbe anche considerare il rifiuto del politico come riflessione
cosciente del vivere sociale, che sembra caratterizzare questi ultimi anni, come parte
del crollo di una cultura che ha privilegiato il politico in tutti i suoi aspetti fino a
portarlo alle sue estreme conseguenze? Domande, ipotesi che andrebbero approfondite, verificate, in uno
sforzo di analisi che
non è sicuramente fine a se stesso.
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