Rivista Anarchica Online
L'immaginario scomparso
di Collettivo "Le Scimmie"
Partire da un'analisi ed una lettura «diverse» delle società tribali per cercare di cogliere il perché -
storico, psicologico, ideologico. ecc. - della sottomissione della donna (e dell'immaginario femminile)
all'uomo (e all'immaginario maschile). Questo è uno dei fili conduttori del lavoro collettivo di un
gruppo di compagne, che a Milano da qualche mese hanno iniziato a trovarsi per leggere, discutere,
dibattere. Si chiama «collettivo le scimmie», ne fanno parte anche due compagne della nostra
redazione. Questo è il loro primo elaborato, un nuovo spunto per un dibattito aperto.
Che senso può avere parlare della condizione della donna nelle società tribali? Non sarebbe più
proficuo, e soprattutto più realistico, analizzarla oggi, nella nostra società, dove le differenze sono a
portata di mano? Potrebbe, in fondo, sembrare una ricerca delle radici nella convinzione ultima, anche
se non espressa, che le società tribali siano le nostre progenitrici: infanzia dell'umanità diventata adulta
a prezzo della perdita di una supposta eguaglianza. Non è certo questo il senso della ricerca. Anzi, siamo ben convinte che le società tribali, per quanto
differenti, siano società mature, frutto di una lunga evoluzione che ha privilegiato valori, logiche
differenti dalle nostre. Potrebbe, quindi, sembrare assurdo parlare di «società selvagge» come di
un'unica entità, tralasciando le differenze, pur notevoli, che esistono tra cultura e cultura. Ma qualsiasi
analisi, per essere significativa, deve operare una riduzione della realtà, sempre troppo complessa, in
un modello. Cioè in definitiva: «... attraverso un artefatto, un marchingegno che imita il sistema reale
(cioè un pezzo di mondo) che è difficile o impossibile per il nostro coinvolgimento e per la sua
complessità affrontare direttamente quando ci si propone di comprenderlo o anche di agire su di esso»
(1). Questo vuol dire però che: «...i modelli non riproducono tutti gli aspetti della situazione reale
modellizzata, bensì solo alcuni (a seconda delle nostre conoscenze di base, dei nostri valori, dei nostri
desideri soggettivi e idiosincrasie, tavolta): un modello quindi presuppone sempre una analogia» (2).
Quello che tentiamo è, quindi, solo un modello, con tutti i rischi, le approssimazioni, le
generalizzazioni che questo comporta. A questo punto è chiaro perché possiamo considerare le società tribali come un insieme; quello che
vogliamo porre in evidenza è la loro «differenza»: il loro essere «società contro lo stato», società dove
non esiste il rapporto dominanti/dominati, dove il potere non assume la forma di comando/obbedienza.
Ecco perché ci sembra importante considerare la condizione della donna in quelle società. Oggi il
rapporto ineguale tra uomo e donna non è che uno dei tanti rapporti di dominio, riproduzione a tutti
i livelli della diseguaglianza. Ci sembra più importante considerare il rapporto uomo/donna in società
dove la parola «comando» era una parola senza senso. Come si strutturava il rapporto tra i sessi?
Esisteva un problema donna? Se sì, in che misura? Che contraddizioni celava? Una simile ricerca pone un'altra grossa difficoltà. Se la nostra realtà è troppo vicina per essere
osservata, la realtà di queste società può essere troppo lontana per essere capita. Risolvere, analizzare
queste società attraverso gli schemi della nostra cultura è, infatti, senza senso; lo scarto è troppo
grande. Ci ritroveremmo di fronte ad un sistema privato della sua coerenza interna, ridotto e mutilato.
Bisogna tramutarsi in viaggiatori mentali, lasciarsi alle spalle la propria cultura per osservare l'altra più
da vicino. Bisogna restare sospesi nel vuoto sforzandosi, per quanto questa operazione sia solo teorica
e parziale, di uscire dai propri schemi affinché lo scarto si riduca e l'altra cultura diventi intelleggibile.
Il pensiero selvaggio Punto di partenza per capire «le società selvagge» è comprendere il diverso pensiero che le sottende,
con la sua logica, le sue categorie che dividono e nello stesso tempo danno senso a quel mondo.
Ovviamente è anche questa una generalizzazione perché ogni cultura si differenzia attraverso passaggi
logici e soluzioni diverse pur sottese da una logica completamente altra rispetto alla nostra. Se il pensiero occidentale, scientifico/razionale, si fonda sulla riduzione all'unità (dal generale al
particolare o viceversa), il pensiero selvaggio è pensiero classificatore per eccellenza, deve incasellare
ogni cosa pena la dissoluzione stessa dell'universo. I Dogon, popolazione africana, « ... suddividono
i vegetali in 22 famiglie principali, certune delle quali sono ripartite in 11 sottogruppi. Le 22 famiglie,
elencate secondo un criterio appropriato, si dividono in due serie, rispettivamente composte dalle
famiglie di ordine dispari e dalle famiglie di ordine pari. Nella prima serie, che simboleggia le nascite
singole, le piante considerate maschi e femmine sono associate rispettivamente alla stagione delle
piogge e alla stagione secca; nella seconda, che simboleggia le nascite gemellari, esiste la medesima
relazione, ma invertita. Ogni famiglia è ripartita in tre categorie; albero, arbusto, erba; infine ogni
famiglia è messa in correlazione con una parte del corpo, una tecnica, una classe sociale, un'istituzione»
(3). Divisioni simili valgono per moltissime tribù, dai Navajo agli Hopi, dai Tupi agli Eschimesi. L'esigenza fondamentale sembra essere la costruzione di un sistema di scarti, di differenze, che
permetta di rendere intelleggibile il mondo, cioè il principio logico è: « ... di potere sempre opporre
dei termini, che un impoverimento preliminare della totalità empirica permette di concepire come
distinti» (4). L'universo intero viene suddiviso in coppie di termini opposti che separano totalmente il mondo; dove
le due parti dello schema sono necessariamente rigide, incomunicabili e di essenza completamente
diversa, ma contemporaneamente complementari (5). L'opposizione è totale, non ammette rapporti,
come dice una ragazza hawaiana: «Quando ero piccola i tradizionalisti ricordavano spesso quella
orribile usanza dei bianchi di invertire a volte il lenzuolo superiore con quello inferiore, come se
ignorassero che quanto appartiene all'alto (ma luna) deve restare in alto, e quanto appartiene al basso
(ma lato) deve restare in basso ... » (6). Non bisogna pensare ad ogni coppia come ad un'unità separata,
sospesa nel vuoto. Ogni cultura costruisce precisi passaggi logici da un termine all'altro formando una
serie di dicotomie successive il cui insieme costituisce l'universo. Se quindi la nostra cultura è la
cultura dell'uno, la cultura selvaggia è cultura del due, della pluralità, del molteplice. L'intero è formato sempre da due parti tra loro irriducibili, e questo implica anche che tra i due termini
non si può instaurare una gerarchia perché ciò presupporebbe una essenza comune, mentre essi sono
due insiemi completamente disgiunti. Se è vero che non si può essere due cose opposte, ci dice la
cultura selvaggia, è vero anche che un termine solo non può esistere. L'uno distrugge l'universo. C'è
sempre una lato da cui stare. Anche se, volendo, si può cambiare lato, accettando tutto ciò che questo
comporta. Così la società selvaggia ci insegna che si è uomo o donna, ma anche che un uomo può
essere donna come una donna può essere uomo. Si può sempre scegliere di cambiare casella purché
si accetti tutto quello che la casella comporta. L'omosessuale Guaiaki era donna a tutti gli effetti:
portava il canestro, faceva lavori da donna, si vestiva da donna, come tale era accettato, ma proprio per
lo stesso motivo non poteva porsi in contatto con l'arco, con la caccia. Esempio altrettanto significativo
quello dei Nuer che prevedono che una donna possa essere uomo: non potrà essere madre, sarà padre,
le sue donne saranno ingravidate dai parenti, ma i figli saranno suoi a tutti gli effetti. Ha scelto il
maschio, ma deve rinunciare alla femmina.
Il potere Sarebbe facile dire che un simbolico non-gerarchico può fondare solo una società non-gerarchica, ma
questo significherebbe semplificare troppo le cose, significherebbe riportare, per un altro verso, le
società selvagge all'infanzia, considerarle (come tutta l'antropologia, escluso Clastres), società
dell'assenza. Sono invece società che si difendono coscientemente dal possibile instaurarsi del dominio,
utilizzando strategie attive, capaci di arrivare sino alla soppressione fisica di chi volesse esercitare
l'autorità. Esse quindi dimostrano di conoscere molto bene l'esistenza e le implicazioni del potere (7)
perché non ci si può difendere da un pericolo sconosciuto. Resta allora il problema: se tutte le società, che lo accettino o meno, conoscono il dominio, qual è la
sua origine? Difficile, se non impossibile, cercare di dare una soluzione al problema perché la nascita
si pone a questo punto troppo lontano, in un passato di cui non sappiamo nulla e di cui non potremo
sapere mai nulla. Qual è allora il senso di questa ricerca tutta ipotetica? Il senso del mito: limite ultimo
della ricerca scientifica, ma anche linea di forza lungo la quale si struttura il pensiero. L'ipotesi che abbiamo sviluppato, per quanto possa avere delle conferme deduttive nelle culture
conosciute, non è sostanzialmente dimostrabile. Se definiamo l'uomo come un animale culturale, cioè
se consideriamo la capacità di produrre cultura (sostituire a comportamenti istintuali una libera scelta),
di costruire un sistema simbolico, come la variazione caratteristica della specie umana, allora dobbiamo
pensare che l'immaginario, almeno all'inizio, si sia fondato anche sulle esperienze biologiche e fisiche
sia individuali che collettive. Se così fosse dovremmo ritrovare sul piano simbolico un'eco delle
differenze biologiche legate al sesso, il nostro immaginario, cioè, dovrebbe riprodurre sia in modo
mediato che diretto tutte quelle esperienze che sono inscidibilmente legate al sesso. In realtà, nelle società conosciute, le grandi esperienze femminili (cicli, mestruo, maternità) appaiono
sempre mediate, vissute sempre come «altre», e come tali le possiamo trovare nei miti, come ad
esempio, nel mito sull'origine del giaguaro.
Matako: origine del giaguaro Mentre si recava a pesca con la moglie, un uomo salì su un albero per catturare dei pappagalli che poi
lanciava alla compagna. Ma essa li divorava. «Perché mangi i pappagalli?» chiese l'uomo. Non appena
questi discese dall'albero la moglie gli spezzò la nuca con un morso. Quando essa tornò al villaggio,
i figli l'attorniarono per vedere cosa portava. La donna mostrò la testa del loro padre, e sostenne che
era una testa di tatù. Durante la notte mangiò i figli, e se ne andò nella boscaglia. Si era tramutata in
giaguaro. I giaguari sono delle donne» (8). Sono diversi i miti nell'America del Sud che raccontano di
una donna tramutatasi in giaguaro che uccide marito, figli, abitanti del villaggio, finché l'eroe non la
distrugge. Nel pensiero indigeno il giaguaro è il signore del fuoco, il rivale per eccellenza del
cacciatore ed anche, a volte, il mangiatore di uomini. Potenza pericolosa, quindi, potenza della natura
di ordine ambivalente, potenza da controllare, il cui contatto è vissuto come pericolo. Ancora più lampante questo mito Sherenté: «...Una volta le donne non esistevano e gli uomini
praticavano l'omosessualità. Uno di essi si trovò gravido e, poiché era incapace di partorire, morì. Un
giorno alcuni uomini scorsero, riflessa nell'acqua di una sorgente, l'immagine di una donna che stava
nascosta in cima ad un albero. Per due giorni essi tentarono di acciuffare il riflesso. Infine uno di loro
alzò gli occhi e vide la donna; la si fece scendere ma, poiché la desideravano tutti, essi la tagliarono
in pezzi che poi si spartirono. Ognuno avviluppò il proprio in una foglia e mise l'involto in un
interstizio della parete della propria capanna. Poi andarono a caccia. Al ritorno si fecero precedere da
un esploratore, il quale constatò che tutti i pezzi si erano tramutati in donne e li informò della cosa»
(9). In questo mito si ritrova la paura della procreazione (provoca la morte, solo la donna è in grado di farla
senza pericolo), la paura dell'altro, del femminile, potenza talmente pericolosa da dover essere uccisa
prima di poterla toccare. E' la stessa paura che si ritrova in altri miti dove si racconta che le donne un
tempo avevano la vagina dentata e durante il coito castravano gli uomini. Nessuna cultura ci ripropone le esperienze biologiche femminili come vissute; nell'ambito del simbolico sono sempre investite della «alterità» mentre, d'altra parte, le esperienze maschili risultano
solo dirette e mai mediate. Non è del resto possibile pensare che mestruo, cicli, maternità non siano
stati i fondamenti dell'immaginario delle donne. Questa assenza ha un significato preciso, costituisce
la traccia di una lontana frattura. Si potrebbe supporre che cicli, mestruo e, ancora di più la maternità,
l'esperienza della creazione di una nuova vita, siano stati vissuti dagli uomini come una sottrazione,
una mancanza da colmare: il segno di una potenza che era legata alla vita e quindi alla natura e in
quanto tale potenza pericolosa. Lo fa notare molto bene Ida Magli: «Soltanto l'uomo può aver percepito come ambivalente, e cioè
protettrice e al tempo stesso pericolosa, la potenza della donna: soltanto per l'uomo che non li possiede,
il mestruo, la gravidanza, il parto possono essere assunti a partecipare della qualità "tremenda e
numinosa" che è sempre "altra", e quindi rivela il legame della donna con la Potenza, e la rende
"diversa" e temibile per il maschio» (10). Il maschio quindi potrebbe essersi appropriato della cultura istituzionalizzandola e definendola come
proprio ambito in opposizione all'ambito femminile definito come natura. Se la donna era la potenza
della natura, l'uomo diventava la potenza della cultura: l'immaginario quindi sarebbe stato prodotto
dagli uomini e la donna ne sarebbe diventato il «segno fondamentale», ma solo il segno. Rimane comunque inspiegabile perché la donna abbia accettato questa esclusione. Quello che le società
tribali ci riportano è la donna come «segno», anzi il segno per eccellenza. Lo scambio si fonda sulle
donne, ed esse sono «segno» del potere; le donne spettano al capo, al guerriero, allo sciamano. Il
selvaggio controlla che il potere sia impotente, ma lo segna con il simbolo della potenza: «la donna». Forse proprio in questo rivolgimento simbolico, dove la donna passa da significante a significato si può
situare la nascita del potere; la nascita comunque di una asimmetria simbolica, l'esclusione dalla
produzione culturale di parte dell'umanità. Siamo in fondo ritornate al punto di partenza, alle società selvagge. Società che controllano
compiutamente il potere nelle sue forme, società perdute. Rimane da risolvere la domanda
sull'instaurarsi del dominio nell'ambito sociale. Quando avviene il «malencontre» tra il desiderio di
potere e il desiderio di sottomissione? Perché, come ci illustra Clastres: «...gli uomini obbediscono non
per forza o costretti, non sotto l'azione o l'effetto del terrore, non per paura della morte, ma
volontariamente: obbediscono perché così gli piace, sono nella servitù perché lo desiderano. L'uomo
de-naturato è l'uomo che ha scelto di non essere più uomo: attraverso una libera scelta, quindi» (11). Ma se la chieftainship «non è il luogo del potere», se questo è un potere impotente, controllato, vi sono
altri luoghi dove la volontà di potere si può esplicare? Non sembra. La società selvaggia conosce gli spazi dove il potere si può accumulare e se ne difende
con strategie attive, pronta ad uccidere se il caso. Ci dice Clastres che la società primitiva non è senza
conflitto, che il desiderio di potere esiste e che la risposta è la morte. E' il tragico destino del guerriero:
la società gli accorda prestigio ed alcuni privilegi, ma gli pone come limite la morte. Al guerriero la
società arriva ad accordare uno dei più grandi privilegi: potrà scegliere di morire. E' lo stesso tragico
destino dello sciamano o del capo che vogliano fare i capi. Scegli uomo. Sii libero. Puoi scegliere la strada che preferisci, ma devi accettare tutto di questa strada.
La gloria, il prestigio sono l'altra faccia della morte. Gloria, prestigio, uomo, virilità, morte. Il pensiero
selvaggio associa con logica ferrea. La morte è il privilegio del guerriero, privilegio non da poco in una
società che non ammette quasi mai il suicidio, ma privilegio che nel contempo salva la società dal
dominio. Non è del resto che il prezzo della libertà sia la staticità, come vorrebbe certa antropologia che raffigura
le società primitive come società sempre uguali a se stesse. Sarebbe veramente un costo troppo alto.
In realtà le società selvagge si rappresentano statiche, ma il cambiamento esiste e viene incorporato nel
mito, nello schema. E' come se una rete logica fosse posta sul mondo per cui ogni qualvolta si presenta
un cambiamento la rete deve essere distrutta per essere ricostruita subito dopo. Ne sono un esempio
tipico i riti della morte e della nascita. La perdita o l'acquisto di un nuovo membro impegnano la
società perché essa deve ricostruire tutto il mondo in funzione della modificazione avvenuta. Forse
proprio qui si potrebbe ipotizzare il passaggio maledetto: in questa distruzione/ricostruzione sarebbe
possibile l'instaurarsi del dominio. Se infatti il dominio venisse incorporato nella rete logica, esso
diverebbe automaticamente l'unica realtà riconosciuta perché in queste società non esiste un prima e
un dopo, ma solo lo spazio mitico su cui si fonda la società stessa: se sia vero o solo possibile è tutto
da dimostrare.
Una cultura da ricostruire Le riflessioni sul potere, sulla donna, sull'uomo sono ancora da provare. Quello che abbiamo tracciato
è solo un modello che dovrebbe facilitarci il lavoro successivo. Un'ipotesi di lavoro che, sappiamo
bene, potrebbe rivelarsi errata. Nulla di male, il no è altrettanto importante del sì. Molte altre domande
sono rimaste nel nostro cervello, molti altri spunti ancora confusi che speriamo di chiarire in seguito. Vorremmo solo accennare all'idea centrale del nostro lavoro, a questa a-simmetria del simbolico
prodottasi non si sa quando che ha così condizionato la nostra vita. Se questa è un'ipotesi valida, se è
vero che il simbolico è a-simmetrico, allora dobbiamo cercare di cambiario. Ma come cambiare una
cultura fondata sul «segno al femminile»? Forse la strada potrebbe essere quella di recuperare i tagli,
le cesure. Tra gli anarchici si è sempre parlato della divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale
come del segno della società del dominio. Bene, altrettanto importante si potrebbe considerare la
cesura maschile/femminile. Si dovrebbe, quindi, cercare di recuperare all'interno di ogni individuo,
senza cancellarle perché esistono, le grandi divisioni culturali basate sul segno/donna. Una cultura tutta
da ricostruire dove non ci sia più spazio per produttori e prodotti, ma in cui ognuno sia al tempo stesso
significante e significato.
(1) Il sapere come rete di modelli, pag. 5. (2) Ibidem, pag. 5. (3) Levi-Straus, «Il pensiero selvaggio», pag.52. (4) Levi-Strauss, Ibidem, pag. 89. (5) Non tutte le divisioni del pensiero selvaggio sono binarie, ma queste ultime sembrano derivare
dalle prime per successive opposizioni: per esempio una classica divisione ternaria cielo/terra/acqua
si può far risalire facilmente a due successive opposizioni cielo/terra e acqua/terra. (6) Levi-Strauss. Ibidem, pag. 160. (7) Potere è una parola molto complessa che racchiude molteplici significati rischiando sempre di
essere usata in modo mistificante. Qui sarebbe troppo lungo addentrarsi in un'analisi definitoria, per
cui nel contesto, a meno di ulteriori specificazioni, intendiamo potere come dominio. (8) Levi-Strauss, «Il crudo e il cotto», pag.138. (9) Levi-Strauss, Ibidem, pag. 154. (10) Ida Magli, «La femmina dell'uomo», pag.105. (11) Pierre Clastres, «L'archeologia della violenza», pag. 105.
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