Rivista Anarchica Online
La lunga marcia dell'inquisizione
di Italo Mereu
All'appuntamento dell'Anno Santo non potevamo mancare. Si vuol far conoscere, tra l'altro, la
grandezza storica della Chiesa Cattolica Apostolica Romana. E noi siamo qui a portare il nostro
piccolo ma significativo contributo all'esatta conoscenza della storia. Lo facciamo pubblicando
questo saggio di Italo Mereu, originariamente pubblicato nel volume «Diritto e potere nella Storia
d'europa - Atti del quarto Congresso internazionale della Società Italiana di Storia del diritto, in
onore di Bruno Paradisi» (Firenze 1982, Olschki editore, vol. II, pagg. 1127-1147), con il titolo «Il
metodo inquisitorio tra ideologia ed effettività nella dialettica del potere dell'Europa
continentale». Italo Mereu (Lanusei, 1921) insegna Esegesi delle fonti della storia del diritto italiano all'università
di Ferrara. E' già noto ai nostri lettori per averne noi recensito i suoi ultimi due libri: «Storia
dell'intolleranza in Europa» (recensione di Piero Flecchia sul n. 82, aprile 1980) e «La morte
come pena» (recensione di Monica Giorgi sul n. 103, agosto/settembre 1982). In precedenza
Mereu aveva pubblicato altri libri sempre di argomento giuridico. Nel panorama non certo esaltante della «cultura» italiana, caratterizzata perlopiù da un
conformistico grigiore catto-comunista, Mereu - che si definisce un «liberale extra», fuori cioè
dalle trite schematizzazioni di ideologia e di partito - è una figura anomala, anche perché i suoi
studi, i suoi interessi e le sue passioni sono diretti in gran parte a mettere a nudo quel mostro
sacro che è la Chiesa Cattolica. Un argomento, questo, sempre più tabù, se si pensa che anche gli
ex-anticlericali del partito radicale applaudono nella chiesa un'organizzazione umanitaria, tutta
tesa a risolvere i drammi della fame e delle ingiustizie. Per non parlare del PCI e delle altre forze
marxiste, specularmente simili al centralismo autoritario vaticano e da sempre ostili a qualsiasi
discorso anticlericale. Ma non c'è solo la Chiesa in questo saggio di Mereu: c'è tutta un'analisi documentata dei
meccanismi giudiziari dell'Inquisizione ed un polemico raffronto con quelli in vigore oggi,
nell'Italia repubblicana nata dalla resistenza. Rispetto ai tempi dell'Inquisizione, dimostra Mereu,
non è cambiato granché. In certi casi, anzi ...
La Santa Inquisizione è veramente santa e vive perciò nella sua eterna idea; quella che è morta era nient'altro che una sua contingente incarnazione storica. Benedetto Croce
1. Narra il Morellet - enciclopedista e traduttore francese di Dei delitti e delle pene - che per
suscitare l'orrore del metodo inquisitorio aveva pensato di ripubblicare il Directorium inquisitionis
di Nicola Eymerich, celebrato «maestro» dell'Inquisizione medioevale; e che un altro
enciclopedista - il Malesherbes -, da lui interpellato, gli aveva fatto osservare che erano proprio le
stesse procedure in vigore presso i tribunali laici. Io rimasi sconcertato da tale affermazione - scrive
nei suoi Memories - e al momento mi sembrò un paradosso di quello spirito bizzarro: Mais depuis j'ai bien reconnu qu'il avait raison. (1) («ma dopo ho dovuto riconoscere che egli
aveva ragione»). La stessa osservazione si potrebbe ripetere oggi, a quanti s'industriano a tessere panegirici sulla
costituzionalità e sulla liberalità dei nostri metodi processuali. Purtroppo - nonostante riforme,
scoperte, rivoluzioni (borghesi e proletarie) che hanno investito le istituzioni e hanno migliorato il
livello generale della vita - ancora oggi, in molti degli Stati europei dell'est e dell'ovest, e negli Stati
dell'America latina, il modello adottato è sempre quello della Santa Inquisizione. Allo storico del
diritto non resta che constatarlo (2). Riforma protestante e riforma cattolica, illuminismo e rivoluzione francese, costituzionalismo,
liberalismo e comunismo - in questo campo - non hanno portato altro che mutamenti di facciata,
con aggiornamenti dall'apparenza innovativa dettati dall'opportunità politica; ma quanto alla
sostanza, cioè alle strutture portanti dell'impianto processuale, siamo sempre all'età del sospetto.
Non c'è che da prendere in mano un codice di procedura penale o un testo di leggi sulla pubblica
sicurezza per accertarlo. Si vedrà che le procedure sono identiche a quelle medioevali, i ritmi processuali gli stessi, come
uguali sono le facoltà concesse al deus ex machina del processo, il giudice istruttore. C'è solo un modo diverso - più sfumato, più soave, quasi più accattivante - nel chiamare con nomi
nuovi istituti vecchi. L'unica, la vera innovazione che siamo stati capaci di portare a termine è
quella dell'uso spregiudicato dell'eufemismo. La capacità tutta «moderna» d'indicare con parole
suadenti e dall'apparenza rivoluzionaria, le antiche strutture. Pochi esempi, riferiti ad alcuni dei
vecchi istituti, serviranno a dar conto della situazione (3). L'arbitrio lo si chiama «libero convincimento»; il sospetto, indizio; la legge del sospetto, legge di
prevenzione; l'inquisitore, giudice istruttore; il procuratore fiscale, pubblico ministero; la tortura,
carcere preventivo; il carcere duro, carcere speciale; l'eretico, deviante; i fedeli, le masse; i
fautores, fiancheggiatori; l'abiura, autocritica; l'Inquisizione «roccaforte della Chiesa» è
trasformata nei servizi segreti baluardo della Repubblica. Tutto come prima, soprattutto i modi di
privare un cittadino della libertà personale - nonostante i testi costituzionali che dal 1848 - almeno -
affermano il contrario - sono identici a quelli medioevali. Per emettere un mandato di cattura - anche oggi - è sufficiente che esistano indizi di colpevolezza,
la cui valutazione è affidata al «libero convincimento» del giudice come dice l'articolo 252 del
Codice di procedura penale, con un eufemismo per non dire all'arbitrio dell'inquisitore, come
invece dicevano molto più chiaramente i testi del Santo Ufficio. Che si tratti proprio dell'arbitrio lo
si può dedurre dall'articolo 269 dove si dice che se la scarcerazione è ordinata per mancanza di
sufficienti indizi ma rimangono motivi di sospetto (e qui il legislatore è costretto ad usare il termine
fondamentale per non ripetere un'altra volta il sinonimo) possono essere imposti all'imputato uno o
più fra gli obblighi indicati nell'articolo 282. Chi poi volesse controllare quali sono questi che il
Codice chiama pudicamente obblighi, e che nel diritto dell'Inquisizione erano chiamati con
altrettanta verecondia antidoti o cauzioni, troverà che si tratta della facoltà concessa al giudice
d'imporre ad un cittadino il domicilio coatto per un sospetto, mediante una semplice ordinanza.
(Mentre gli inquisitori avevano l'obbligo - anche in questo caso - di celebrare il processo e di
emanare una sentenza).
Il giudice ovvero l'inquisitore Dopo l'arresto anche oggi c'è l'interrogatorio da parte del giudice. E' questo il mezzo tecnico con
cui si sostituisce il contraddittorio fra le parti e s'inverte l'onere della prova. Con l'interrogatorio l'autorità che sospetta deve solo avere la prova, mediante la confessione, di
quella verità che già crede di conoscere. La confessione, in questo senso, è una scoperta del metodo
inquisitorio; ed è l'adattamento giuridico dell'omonimo sacramento da cui è mutuata. L'inquisitore e
l'imputato, si trovano nell'analoga posizione del confessore e del penitente. Con questo di diverso:
mentre nella confessione è il penitente che sa e che spontaneamente si presenta e si confessa
dinanzi al sacerdote che lo ascolta, lo assolve e/o lo penitenzia; qui invece è l'inquisitore che sa, o
dice di sapere (o presuppone di conoscere). Con questa impostazione invertita prende avvio - come
dice Nobili - quella tecnica inquisitoria del come spiega che ... la quale è all'ordine del giorno anche
oggi negli uffici istruttori; e che si risolve nella sostanziale ripetizione della purgatio ab infamia del
Medioevo (4). Se, poi, l'imputato dirà di voler conoscere chi concretamente lo accusa, comincerà il gioco «a
mosca cieca» fra l'inquisitore che «vede» (o crede di vedere) ma tace, e il sospettato che dovrà
rispondere ignorando il nome dell'accusatore. Inizia così il processo delle ombre senza volto -
secondo la similitudine di Cordero - che dichiarano, affermano, testimoniano, smentiscono,
accusano, senza mai lasciarsi afferrare a farsi riconoscere. Il giudice - infatti - potrà rivelargli le
fonti dell'accusa solo «se non può derivarne pregiudizio all'istruzione», come stabilisce l'articolo
367 del C.P.P. E' un modo moderno per ripetere quanto disponeva la decretale Statuta quaedam (5)
che ordinava agli inquisitori di non rivelare agli inquisiti i nomi dei testimoni, quando potesse
derivarne un danno all'accusatore. O come diceva il Masini: «Avvertasi parimenti, che
dall'interrogationi che si fanno al Reo, egli non venga a sapere, o comprendere in modo alcuno, chi
sia stato il denunciatore, o quali siano i testimoni i quali hanno deposto contro di lui» (6). Se l'imputato dirà di non ricordare, di non sapere, o tenterà di sfuggire alle domande, o darà risposte imprecise o comunque non soddisfacenti, ci sarà
la sospensione dell'interrogatorio, e la prigione. Inizia così la «tortura», cioè la fase dedicata alla
demolizione psicologica dell'imputato mediante il carcere preventivo e l'isolamento. Capisco lo stupore degli osservanti il dogma dell'ipocrisia giuridica di fronte ad affermazioni così
denudanti ed esplicite. La tortura - dall'Ottocento ad oggi - è diventata una specie di tabù maledetto di cui è vietato
occuparsi. E' simile alle funzioni fisiologiche che si adempiono, ma di cui non è bene parlare. Non
è un dato «tecnico» indifferente, ma un'arma di battaglia che si usa per screditare gli avversari
politici. E' un fatto emotivo che ossessiona e che coinvolge, e dinanzi al quale anche il nostro
spirito scientifico si arresta, ed entra in trance. Lo dissocia e lo rifiuta. E seppure un celebrato
«maestro» delle passate generazioni - il Carnelutti - avesse scritto che era un mezzo idoneo a
procurare risposte veritiere e che non vi sarebbe alcuna ragione perché non fosse adottato «purché
non si arrechino danni notevoli al corpo dell'imputato» (7), tuttavia, è rimasto come un brutto
sogno dell'inconscio collettivo, che ogni volta si rimuove, o non parlandone, come se non fosse un
fatto istituzionale, oppure esorcizzandolo, con il ricorso alla fede nel progresso (da parte dei laici) o
alla fede religiosa (da parte dei credenti). Così un istituto giuridico viene trasformato in un simbolo
di fede; e con la fede non si ragiona. Ora, con questi sentimenti si può fare della poesia ma non già della storia, come avvertiva
Benedetto Croce (8), proprio commentando il supplizio di Serveto, la strage degli ebrei e dei
moreschi, e i numerosi roghi che l'Inquisizione aveva acceso in Europa. E la «verità effettuale» è lì
ad attestarci, come non solo in passato, ma anche oggi, che la tortura è sempre praticata, sia pure
con metodi più crudelmente intelligenti - come ci ha documentato Fiorelli (9) - e più
scientificamente aggiornati, quali sono le sostanze chimiche che ammorbidiscono la resistenza
psicologica (come il penthotal), o abbassano la soglia della coscienza (come gli ansiolitici), oppure
deformano il pensiero (come i dislettici).
Il carcere è già tortura Tornando a noi, possiamo dire che il carcere e l'isolamento carcerario, quale oggi è abitualmente
praticato, è uguale all'analogo isolamento in cui erano costretti gli eretici. E' stata una delle prime
forme di tortura che la Chiesa ha applicato, quella d'isolare un sospettato, di farlo vivere scomodo,
in un ambiente angusto e squallido, avanti di processarlo. Diceva la decretale Multorum quaerela,
parlando dei sospetti eretici: Duro tamen carceri tradere sive arcto («Bisogna rinchiuderli in un
carcere duro ossia con tortura») (10). E il Pegna puntualmente commentava: necesse est saepe in
duros carceres detrudere («spesso è necessario rinchiuderli in un carcere duro») (11). Lo scopo di
tale trattamento ce lo spiega in maniera chiara Bernardo Gui: Detinendos per annos plurimos ut
vexatio det intellectum. («bisogna trattenerli in carcere per molti anni finché la tortura non gli
rischiari le idee») (12). E' una tortura psicologica che mira a disporre un individuo, pur di tornare alla vita comune, ad
ammettere qualunque cosa il giudice voglia fargli confessare. In questo senso è uno dei mezzi più
efficaci per indurre un'inquisito a confessare quanto l'inquisitore o l'inquirente dice di sapere o
presume di conoscere. E' uno strumento preventivo ed esemplificativo che ha un potere enorme.
Essere imprigionato per un sospetto del giudice, e dover attendere mesi ed anni, chiuso in una
prigione (e per certi delitti in una prigione speciale, cioè come dicevano i pontefici, più dura delle
altre) senza la possibilità di poter comunicare con nessuno, con tutta la propria vita controllata
esattamente, con gli spostamenti improvvisi da un carcere all'altro, con la propria carriera troncata,
il proprio lavoro interrotto, con difficoltà di comunicare con le persone care, tutto ciò costituisce un
tipo di tortura tanto più abile quanto meno è sanguinante. Anche oggi, l'interrogatorio è coperto dal segreto, come ai tempi dell'Inquisizione. Le disposizioni
su questo punto sono tassative ed identiche. Segreto e metodo inquisitorio, infatti, nascono insieme,
ed insieme vivono e prosperano, perché sono legati allo stesso cordone ombelicale: il sospetto. Solo
che il segreto dell'inquisizione era veramente un segreto e come tale sempre rispettato; mentre oggi,
è tale solo nelle disposizioni del codice, e all'indomani si possono leggere sui giornali quanto - si
dice - avrebbe dichiarato un imputato e quanto gli avrebbe obiettato il giudice. Il verbale scritto sostituisce ancora oggi la procedura orale. Tutto ciò che l'imputato dichiara, tutto
viene segnato da un cancelliere (che ai tempi dell'Inquisizione veniva chiamato notaio). C'è qualche differenza, è vero. Nella nostra procedura il pubblico ministero ha maggiori possibilità
d'azione di quanto non ne avesse il procuratore fiscale, in quanto - nei processi per direttissima - la
sua funzione è paragonabile a quella del giudice istruttore. Ma, ad eccezione di questo, tutto il processo istruttorio ruota intorno all'arbitrio del giudice
inquirente, che tutto può disporre; dell'arresto o della liberazione dell'imputato; della chiusura degli
atti istruttori o del loro proseguimento per molti anni. Tutto come ai tempi dell'Inquisizione. E non è detto che contro questo modo di procedere è dato opporre gravami, perché è solo dalla
legge che il giudice è autorizzato a far ciò. Il principio di legalità è sempre assolutamente rispettato.
Ogni azione del giudice è sempre mossa da un preciso dettato del codice. Come erano disposte
dalle Costituzioni dell'inquisizione romana tutte le azioni che mettevano in pratica gli inquisitori.
Il ruolo della Chiesa 2. Inventrice e animatrice di questo metodo processuale, fondato sul sospetto inteso come
presunzione di colpevolezza, è stata la Chiesa cattolica (e qui - sia detto fra parentesi - noi parliamo
della chiesa non come comunione di credenti, ma come istituzione giuridico-politica, della «chiesa
costantiniana», per intenderci). Ma, a proposito di quest'invenzione, è forse necessario - innanzitutto - metterne in evidenza
l'assoluta originalità, in confronto dei metodi processuali precedenti. Quello inquisitorio - infatti - è
un metodo del tutto nuovo; e trova la sua spiegazione storica nella politica dell'apostolato armato
fondata sul sintagma: o consenso o repressione; e la sua giustificazione ideologica nella sistematica
cristiana, che vede l'uomo come un «minus habens», bisognoso di sorveglianza e di correzione da
parte dell'autorità ecclesiastica, la quale, per questo, ha il diritto-dovere di arrestarvi anche in base a
un sospetto o a un indizio, mentre sta a voi scagionarvi con una prova (E' soprattutto in questa
inversione la novità del metodo inquisitorio). Senza aver chiari questi presupposti non si spiegano gran parte degli istituti che formano la nuova
metodologia processuale: l'arresto per un sospetto, l'interrogatorio, il carcere preventivo, la tortura,
la confessione, il segreto, e i testimoni segreti, gli atti scritti, firmati dall'inquisito e controfirmati
dal notaio, la diversa posizione in cui sono posti l'accusa e la difesa, la figura del giudice-inquisitore, la teoria degli indizi, delle presunzioni e neppure s'intende la persecuzione dell'eretico e
del deviante fino all'eliminazione fisica. Sono figure giuridiche che acquistano un significato
organico solo se le riportiamo nell'ambito della prassi autoritativa e dell'ideologia totalizzante da
cui parte la Chiesa. E sono, nella loro sistematicità, figure giuridiche nuove, perfettamente
funzionali e specifiche per gli scopi che la Chiesa si propone di raggiungere. L'eventuale
rassomiglianza che è possibile trovare con istituti similari, ha bisogno di molte specificazioni e
chiarimenti per poter essere portata come precedente. Sono sopravvivenze, residui, frammenti che,
come in un mosaico, acquistano un significato e uno scopo solo se li riportiamo nell'ambito
istituzionale nel quale sono stati inseriti, e in rapporto al quale hanno assunto una nuova e diversa
funzione da quella originaria. In altre parole svolgono la stessa funzione degli elementi
architettonici pagani usati nella costruzione delle chiese cristiane. Ora, sulla paternità di quest'invenzione c'è stato, in passato, un sostanziale disaccordo fra i pochi
storici che si sono interessati ai problemi della storia della procedura penale. Alcuni - come il Kohler (13) e il Salvioli (14) - hanno sostenuto che sarebbero stati soprattutto gli
italiani gli inventori di questo nuovo metodo processuale; altri - come l'Esmein (15) - hanno
insistito a lungo sulla forza creatrice e trainante della legislazione dei re di Francia. A noi pare una discussione antistorica e fuorviante. Antistorica: perché è stata proprio la Chiesa cattolica - fra il XII e il XIV secolo - l'auctoritas che
ha impostato ed imposto questo nuovo sistema processuale per poter combattere più liberamente gli
eretici, i devianti, i sospettati e i fiancheggiatori, che proprio in quel periodo sono presenti un po'
dovunque in Europa, con l'epicentro in Francia. L'origine del sistema è, dunque, storicamente
databile, e la causa determinante è da porre solo nella volontà di obbligare tutti i fedeli al più totale
conformismo ideologico e alla più assoluta ortodossia, con l'eliminazione dell'eretico e la
persecuzione del diverso. Da qui il carattere eccezionale che - in origine, almeno - ha questo nuovo
metodo. Che poi nei confronti dell'accusatio e della denuntiatio («dell'accusa e della denuncia») i
laici se ne siano appropriati e anzi l'abbiano migliorato - nel senso che lo hanno reso ancora più
duro - non toglie nulla al carattere «canonico» della scoperta. Fuorviante: perché attribuendo la paternità ai francesi o agli italiani, non si tiene in conto che il carisma della Chiesa, nel Medioevo, aveva non solo l'auctoritas («l'autorità») necessaria per imporre
alle diverse «nationes» un sistema tanto rivoluzionario in confronto a quello accusatorio, ma era
anche la sola che avesse l'organizzazione ed il personale adatto per metterlo in pratica dovunque.
Ma nonostante ciò, le numerose bolle pontificie, i ripetuti richiami, le continue spiegazioni, ci
dicono, più di un lungo discorso, quanto il nuovo sistema - seppure appoggiato da tanta autorità -
dovesse apparire ostico e di difficile applicazione. Non tener conto di ciò vuol dire ignorare il contributo che la Chiesa cattolica ha dato alla
costruzione del diritto processuale penale dell'Europa continentale. E qui vien fatto di chiedersi: come mai la Chiesa cattolica ha sentito il bisogno, per eliminare gli
eretici e per scoprire i devianti, di avere un proprio metodo processuale? Non esisteva già il metodo accusatorio romano, che nel Medioevo, con la «scoperta» del Digesto,
proprio nel periodo in cui l'Inquisizione muove i primi passi, comincia ad essere studiato ed
apprezzato nelle Università? Il metodo accusatorio non era stato esaltato come il più efficace e il
più corretto anche dai canonisti e dai teologi? Non aveva scritto San Tommaso che solo Dio
conosce la verità ex propria notai, e che solo lui, pertanto, può giudicare anche senza testimoni,
mentre all'uomo non è concesso essere allo stesso tempo accusatore e giudice? Non aveva
sostenuto che il giudice è interprete di giustizia, ed è per questo necessario che svolga la sua opera
verso i terzi, il che avviene solo quando uno è l'attore e l'altro il reo? Che non può condannare se
non in base alle prove, e che nel dubbio è meglio assolvere, perché giudicare in base ai sospetti è un
peccato mortale? (16) Per rispondere a queste domande bisogna partire dal presupposto smitizzante e scandaloso, ma non
per questo meno vero, dello spirito profondamente antiromanistico - almeno nei confronti dei
principi processuali romani - che la Chiesa ha sempre avuto. Molti frammenti del Digesto
contrastavano apertamente con i propri principi fondamentali. Nel Digesto si affermava ad esempio
che nessuno può essere punito per il solo pensiero: cogitationis poenam nemo patitur (17). E questo era in contrasto aperto con la persecuzione dell'eresia che è un crimine di pensiero; e con
la pratica della tortura sopra l'intenzione, che la Chiesa praticherà abitualmente su tutti i sospetti
eretici. In un altro passo del Digesto (18) si diceva che nessuno doveva essere condannato in base
ai sospetti, e che era meglio lasciare impunito il colpevole, piuttosto che condannare un innocente.
E anche quest'affermazione - ricavata da un rescritto di Traiano - era quanto di più «anticattolico»
potesse esserci, visto che la Chiesa proprio sul sospetto doveva fondare tutta la propria sistematica
preventiva e punitiva. Nello stesso frammento di Ulpiano, all'inizio, era detto che nel processo
penale non bisognava mai condannare un assente, mentre la Chiesa trasformerà l'assenza nella
prova per poter procedere alla condanna in contumacia. Ma c'era soprattutto il sistema processuale per accusatio che andava contro tutti i presupposti
repressivi dai quali partiva la Chiesa. Accusatore ed accusato erano posti, nel Digesto, sullo stesso
piano. Chi accusava doveva provare. Da qui la pena del taglione verso l'accusatore che fosse
risultato colpevole di calunnia. L'accusato aveva il diritto di difendersi e di farsi difendere. Il
processo aveva uno svolgimento rapido, e come caratteristica l'oralità e la pubblicità. Non erano ammesse denuncie o testimonianze segrete. Il giudice ascoltava le parti, e sulla base
delle prove esibite, decideva.
Contro gli eretici trionfa il sospetto Ora basterà pensare ai fini che la Chiesa si proponeva di raggiungere, per capire quanto un sistema
così strutturato fosse inadeguato e scomodo per combattere l'eretica pravità, che si presentava
spesso come un delitto occulto, e come tale, difficilmente perseguibile. E la clandestinità, d'altra
parte, lo rendeva più subdolo e ne favoriva il diffondersi tra i fedeli. Si aggiunga che, fino ai tempi
di Graziano, la Chiesa si era trovata di fronte all'antico principio agostiniano secondo il quale il
delitto pubblico doveva essere punito pubblicamente, mentre quello occulto non poteva essere
pubblicizzato. Erano altrettanti ostacoli che si opponevano all'impiego di una repressione pubblica. Per uscire dall'impasse, la Chiesa aveva cominciato potenziando la forma della denunciatio, con la
quale un fedele dava la notitia peccati («la notizia del proprio o dell'altrui peccato») all'autorità
spontaneamente o perché obbligato in confessione, senza essere tenuto a sostenere pubblicamente
l'accusa. Con questa forma processuale, la Chiesa aveva fatto un passo avanti. Ma sarà con l'inquisitio che la sistematica del sospetto diverrà perentoria ed invincibile. Il
confronto dialettico fra le parti verrà eliminato e sostituito con la «prudenza» (alias, con l'arbitrio)
del giudice che tutto domina e controlla. Non ci sarà più bisogno della diffamatio, del notorio o
delle voci, ma sarà sufficiente il sospetto dell'autorità a tutto legittimare. Volendo schematizzare potremmo dire che la formula reus et accusator («colpevole e accusatore»)
da un lato e iudex («giudice») dall'altro, del sistema accusatorio, sarà trasformata nel binomio
accusator-iudex contra reum, del metodo inquisitorio. Il che significherà porre l'accusa in una
posizione preminente e privilegiata nei confronti dell'inquisito, togliere il giudice dalla posizione di
neutralità, e fargli assumere quella di accusatore-giudice (cioè d'inquisitore) contemporaneamente,
eliminando tutte le caratteristiche proprie del vecchio sistema. Dal punto di vista dogmatico, nel primo sistema la posizione di uguaglianza delle parti era
rigorosamente rispettata. Accusatore e reo avevano gli stessi diritti e doveri. Il giudice non poteva
sentenziare ad arbitrio ma solo sulla base delle prove. Nel sistema inquisitorio prevarrà il sistema di
disuguaglianza. Le parti non hanno le stesse possibilità e non sono poste sullo stesso piano. All'accusatore-giudice viene riconosciuto il diritto di sospettare, d'arrestare, di inquisire, di
torturare e di giudicare, senza che l'accusato possa opporre gravami (se non in alcuni casi e
limitatamente al beneplacito degli inquirenti). L'accusato per esser creduto dovrà provare e neppure
la prova sarà sempre sufficiente potendo il giudice condannare anche in base al sospetto. Il sospetto diventa cosi l'asse portante di tutto il nuovo sistema preventivo e punitivo; il genus («la
forma») più adatto di ogni altro a scoprire il deviante, il collaborazionista, il fiancheggiatore, il
sospettato, l'eretico. Il principio, nelle bolle di tutti i pontefici e nei trattati dei «maestri» inquisitori, è affermato senza
reticenze, e l'impiego viene proclamato ed ammesso senza sottointesi. Da Alessandro III a Lucio III
a Innocenzo III per finire con Paolo III il concetto viene sempre affermato: la Chiesa non solo
punisce gli eretici, ma non tollera neppure il sospetto per quanto leggero possa essere. Lo ripete
Paolo III, quando con la bolla Licet ab initio fonda la nuova inquisizione romana: «Diamo ai
cardinali inquisitori il potere d'investigare contro quanti si allontanano dalla via del Signore e dalla
fede cattolica, o la intendano in modo diverso, o siano in un modo qualunque sospetti d'eresia, e
contro i loro seguaci, fiancheggiatori e difensori; come contro chi presta loro aiuto, consiglio o
favori» (19). Il sospetto diventa il concetto portante. Tutta la nuova procedura penale e tutte le innovazioni che la
Chiesa vi apporterà (dall'istruttoria scritta e segreta, alla tortura, alla confessione, ecc.) non sono
che un'applicazione di quel principio rinnovatore nel campo processuale e in quello della
prevenzione del reato. D'altra parte è evidente l'importanza repressiva che la Chiesa attribuisce al nuovo supporto.
Facendone il centro di un complesso intreccio di ipotesi, allo stesso tempo preventive e repressive,
ha raggiunto lo scopo. Ha trasformato il sospetto in una specie di vite senza fine che è collegata e
può muovere una molteplicità di ingranaggi repressivi: il sospettato potrà essere arrestato,
scomunicato, sottoposto a purgatio o ad abiuratio («a purgazione o ad abiura»); se contumace
potrà essere condannato, del pari se recidivo; comunque resterà sempre un segnato e la suspicio
potrà sempre essere riattivata e messa in moto contro di lui. E' un «marchingegno» giudiziario esemplare nella sua ideazione e realizzazione. Anche l'oscurità
che è data dal non avere mai precisato che cosa sia giuridicamente il sospetto, è conseguente allo
scopo che il legislatore si propone: quello di disporre all'ubbidienza i fedeli e di consentire
all'autorità mezzi rapidi d'intervento per fugare i dubbi: senza dover dare spiegazioni, senza dover
fornire prove (anzi invertendo l'onere della prova si è posta in condizione di chiederle), senza dover
sottostare alle procedure e alle formule che qualunque ordinamento processuale comporta.
Ideologicamente è introdotto e giustificato in nome della fede: dal punto di vista dell'effetività è il
quod principi placuit legis habet vigorem («ciò che vuole il principe ha valore di legge») ridotto ad
istituto giuridico tecnicamente funzionale ed efficiente. Limiti all'efficacia di tale supporto praticamente non ne esistono. Essere sospettato vorrà dire essere un diverso, un non allineato, essere un «quasi eretico», cioè uno
da escludere e da evitare. L'emarginazione di una persona già da allora comincia da una qualifica
verbale che ha la virtù magica di creare il vuoto attorno. Essere chiamato cataro o albigese nel
Medioevo, luterano, calvinista, marrano e (in campo scientifico) copernicano o galileista nel '600, è
un'offesa. Come sarà in seguito un'offesa esser chiamato aristocratico, giacobino, liberale, repubblicano,
anarchico, socialista, ecc. sono parole che qualificano e hanno la capacità di creare il sospetto sulla
normalità di una persona, sul suo buon nome, sulla sua rispettabilità. Definiscono ed escludono un
concorrente, un avversario, e caratterizzano un'amico «senza bisogno di giudizi di merito». Prius ergo est suspicio («Dunque innanzitutto c'è il sospetto») come aveva affermato l'Ostiense.
Una muta di cani poliziotti Per mezzo del sospetto la presunzione di colpevolezza si istituzionalizza, diventa un istrumentum
regni («strumento di governo») molto efficace in quanto non è possibile fissargli degli esatti
confini giuridici. Contro un metodo che muove da queste premesse, non esistono possibilità di opposizione e di
difesa. Tutto dipende dell'arbitrio dell'autorità. Stat pro ratione voluntas. L'arbitrio del giudice
viene codificato e consacrato. Alessandro III, Onorio III, Gregorio IX, Alessandro IV e Urbano IV, Bonifacio VIII e Clemente V
ripeteranno sempre la formula: simpliciter et de plano et sine strepitu advocatorum et forma
iudiciorum («in forma semplice ed extraguidiziaria, senza il chiasso degli avvocati e la ritualità dei
giudizi»). Non ci sono limiti di tempo, né obbligo di citazioni, né dovere di sentire la difesa. Il
giudice può comportarsi a suo talento. Può rifiutare le eccezioni, può circoscrivere l'ambito della
causa o allargarlo come lui riterrà più opportuno, può respingere gli appelli che lui riterrà dilatori,
può non ammettere dei testimoni e far tacere gli avvocati. Il giudice diventa l'arbiter incontrastato
delle indagini e del processo. Non ha vincoli o limiti da rispettare. Può agire come meglio crede.
Ma il «meglio» deve essere sempre gradito al potere. Con siffatte disposizioni è dato l'arbitrio
assoluto al potere del giudice: ha il diritto di usare la procedura che crede, può iniziare l'azione in
seguito a denuncia o d'ufficio, e non va mai contra legem («contro il dettato legislativo»). Anzi il
principio di legalità è sempre rispettato nella maniera più rigorosa, perché è proprio dalla legge (e
solo da quella) che gli deriva così grande autorità. Potere e giudice diventano una correlata
inscindibile. I maestri inquisitori lo riconoscono apertamente. E' in effetti grande e singolare questo
privilegio - scrive il più dotto ed autorevole dei «maestri» nel periodo della riforma cattolica, il
Pegna - perché un inquisitore potrà giudicare simpliciter et de plano senza essere costretto al
rispetto della forma, e tutti gli atti saranno sempre validi anche senza il rispetto della procedura
stabilita (20). E'evidente come la Chiesa voglia - per un esatto calcolo politico - che la figura del «prete poliziotto
e inquisitore» sia privilegiata non solo per attribuirgli maggior prestigio e la più indiscussa e temuta
autorità nel perseguire la politica basata sul binomio: o consenso o repressione, ma anche perché sa
che è questo l'unico modo per tener vincolati e sempre all'erta, sotto il proprio controllo, un gruppo
addottrinato e selezionato di «vigilantes». D'altra parte, quest'autorità assoluta che gli inquisitori hanno verso tutti i fedeli è controbilanciata
dall'obbedienza totale a cui sono tenuti nell'osservare le disposizioni che arrivano dal centro. Da
una parte: onori, privilegi, autorità, prestigio e l'arbitrio più completo nel procedere contro i
«sospettati»; e dall'altra obbedienza altrettanto assoluta, agli ordini ricevuti. Sembrano posizioni
contraddittorie e invece non lo sono. Gli inquisitori somigliano a una muta di cani poliziotti («cani
bianchi e neri», come li qualificherà un domenicano) attentamente addestrati e opportunamente
selezionati che, se aizzati contro qualcuno, lo azzannano e lo dilaniano, ma sono pronti, al minimo
cenno del padrone, a desistere e a fare la cuccia. E' una specie di arbitrio controllato. L'inquisitore
praticamente non ha limiti al suo potere. Però qualunque cosa faccia, dovrà sempre annotarla e
registrarla, consentendo in tal modo all'autorità tutoria la possibilità di verifica e d'ispezione.
Abbiamo così due aspetti che appaiono in contrasto fra di loro e che invece sono correlati: da un
lato (verso i terzi) l'arbitrio assoluto d'imputazione; dall'altro (verso la Chiesa) il dovere di
registrare tutto e d'obbedire. In questa situazione, la scrittura e il formalismo assolvono a una duplice funzione. Verso i delatori, gli inquisiti, i testimoni, hanno quella di terrorizzarli con la certezza che tutto ciò
che è stato detto o riferito (a qualsiasi titolo e con qualunque motivazione) sarà sempre registrato
dal notaio, in presenza di almeno due testimoni, così che non sarà possibile in seguito smentire,
ritrattare, cambiare, quanto in precedenza è stato dichiarato e sottoscritto. Verso l'autorità centrale
avrà quella di consentire, in ogni momento, ispezioni e controlli su come un certo procedimento è
stato portato avanti, oppure archiviato. Verba volant scripta manent: sembra l'adagio che presiede
all'istituzione del verbale scritto, che in questo tipo di procedura è un'altra, e non tra le meno
significanti, incarnazione del potere che sospetta. Dubitare sempre di tutto e di tutti, anche degli
stessi inquisitori delegati. Ogni testimone ascoltato, ogni reperto raccolto, tutte le perquisizioni effettuate, tutti i beni
sequestrati, il modo in cui una persona è stata arrestata, incriminata o lasciata libera, il tipo di
procedura che verrà impiegata, tutto dovrà essere annotato in appositi verbali, che nell'età della
riforma dovranno essere formulati secondo un modello che nelle carte processuali è sempre
rispettato. Ma la scrittura, oltre quello di testimonianza certa, ha il compito d'essere il «cervello elettronico»
che incasella ed archivia tutti i precedenti di un determinato inquisito. I precedenti in questa
procedura assumono una funzione determinante. Essere stato processato per suspicio de levi o per
suspicio vehemens («per un sospetto leggero o per un sospetto veemente») comporta differenza non
solo di trattamento ma di pena. Aver abiurato una prima volta, ed esser di nuovo processato implica
una diversità notevole di trattamento. Dal formalismo alla burocrazia. I due aspetti sono
interdipendenti fra di loro. L'inquisizione dovrà essere, specie nell'edizione moderna, soprattutto
un'organismo burocratico, che riceve le direttive superiori, e nei casi più gravi ed incerti dovrà
scrivere e attendere le disposizioni da Roma.
Il diritto, tecnica della coazione 3. Se dopo la descrizione degli elementi che compongono questa forma processuale, andiamo a
controllare quanto ne scrive il più celebrato «maestro» dell'Inquisizione medioevale, vedremo come
il nucleo genetico della definizione si potrebbe riassumere in un breve sintagma: suspicio
auctoritatis («sospetto dell'autorità»). Scrive l'Eymerich: (Inquisitio) est quando non est aliquis accusator, sed fama laborat in aliqua civitate vel loco, quod
aliquis dixit vel fecit aliqua contra fidem, et clamor ad aures inquisitoris pervenit pluries publica
fama deferente et clamosa insinuatione producente. Et tunc inquisitor inquirat non ad instantiam
partis, sed ex officio (21). E un inquisitore italiano del Seicento ne dà la seguente traduzione in lingua italiana: Il secondo modo nel quale si può formare il processo è per via d'Inquisizione; ed è quando non vi è
alcun accusatore, o denuntiatore, che venga a far sapere al Santo Officio il delitto, ma corre fama,
e o voce pubblica, in qualche città; o terra, o Terra, o Luogo, che alcuna persona ha fatto o detto
alcuna cosa contro la Santa Fede; e in tal caso, non precedendo denuntia, né accusa alcuna, ma
solo per pubblica fama venendo a notitia del Santo Officio, che sia stato commesso alcun delitto,
dovrà esso Inquisitore, per debito dell'ufficio suo, formare inquisizione particolare (22). Con tali elementi posti a fondamento dell'azione processuale e penale, il diritto viene trasformato
da «tecnica della coesistenza» in «tecnica della coazione», cioè in «istrumentum regni». E ancora
una volta il merito è da attribuire alla vitalità autoritaria del sospetto. Liberata dal peso della prova,
fondata sull'attività insindacabile del giudice, dotata di un potere pubblico sul sospettato, questa
tecnica avrà un'indiscutibile potere di dissuasione, perché potrà essere impiegata sempre e
comunque. Potrà intervenire sulla base della voce pubblica, oppure d'ufficio, anche sine infamia
praecedente «senza infamia precedente»), come potrà esser mossa da una delazione o da un'accusa
segreta, o da una decisione autonoma dell'inquisitore; potrà sottoporre l'imputato a lunghi
interrogatori, alla carcerazione preventiva per la durata di anni, come alla tortura; come potrà
condannare senza prove, sulla base del solo sospetto, alla purgatio o all'abiuratio e tutto ciò potrà
fare nel rispetto assoluto della legalità, che sarà una delle caratteristiche peculiari della Chiesa, in
ogni periodo. Anzi, il teorico più acuto e più zelante delle persecuzioni ereticali, Alfonso De
Castro, in una sua opera ingiustamente dimenticata, De potestate legis poenalis, scriverà lunghi
capitoli per sostenere la tesi che il giudice non deve mai operare sine lege, e tanto meno contra
legem (23). Ed aveva ragione. Il principio di legalità - con le leggi che legittimano l'arbitrio del giudice - ha i
suoi più accorti esegeti proprio nei «maestri» dell'Inquisizione. Le ragioni che - fra il XIII e il XIV secolo - avevano indotto la Chiesa ad una operazione di questo
genere, sono di tre specie. La prima è di ordine politico e sociale. Se la fede - come dice Ullmann (24) - è il nesso unificatore di tutte le componenti della società e se
questa, d'altra parte, era un tutt'unico, indivisibile dal bene sociale, preoccuparsi di salvare la fede,
prima e sopra ogni cosa, era un dovere che appariva assoluto. Allontanarsi dalla via retta, quella
ortodossa, per seguire i sentieri solitari della speculazione individuale, non era altro che attaccare
quel bene che è l'unità della Chiesa, che in questo caso coincide con il bene dell'intera società. Per
questo l'interesse individuale poteva essere schiacciato dinanzi al prevalente interesse collettivo, e
l'eretico e il diverso non potevano non apparire come delinquenti, che era necessario punire, e con
ogni mezzo mettere in condizioni di non più nuocere. Tutto il processo inquisitorio risponderà in
pieno a questa logica del potere fondata sul concetto: o consenso o repressione. La seconda ragione si può sintetizzare nella formula giuridica: giurisdizione = amministrazione
(«iurisdictio = administratio»). A niente serve la prima senza la seconda. L'autorità si precisa come
potere (auctoritas imperandi) solo in quanto le è propria l'amministrazione (auctoritas
administrandi) come dice Costa (25). La prima è la fonte che giustifica il comando; la seconda è il
contenuto di cui si riempie volta a volta il potere formale. La prima senza la seconda vale poco.
Trasformare un delegato del potere centrale (l'inquisitore) in un rappresentante dell'autorità valeva
e a riaffermare la propria supremazia - anche nei confronti dei Vescovi -, e a darle un contenuto
giuridico che la rendeva operante e temibile e la trasformava in potere effettivo. D'altra parte, se è
vero che il crinale dell'ortodossia passa per una parola che spesso non significa nulla e talvolta è
ideologicamente scorretta, ne consegue che la controversia teologica si risolve, il più delle volte, in
gioco di potenza, cioè in dimostrazione d'auctoritas. L'impiego della suspicio, secondo quest'ottica,
più che a convincere tende ad asservire e a soggiogare. Dietro l'apparenza intellettuale il fenomeno
è volitivo; dietro e prima della caritas c'è l'auctoritas; più che di timori per la salute dell'anima si
tratta di preoccupazione per la salute dell'istituzione. Così, dietro la scusante di non turbare la quies
fidelium («la tranquillità dei fedeli») neppure con la similitudo mali («l'ombra del peccato») c'è
sempre la volontà di tutelare e di garantire, con vigilanza censoria e poliziesca, l'insegnamento
ortodosso, eliminando quanto si suppone potrebbe essergli contrario o comunque dannoso. Ecco
perché l'autorità papale teneva a che il Santo Officio apparisse (e fosse) un'organizzazione temuta.
La politica del terrore rientrava (e rientra) nell'ottica di un'organizzazione sociale che si fonda sul
concetto intangibile di autorità centrale. Ora uno dei modi per mettere in evidenza questo principio
era quello di permettere all'inquisitore di intervenire anche senza denuncia precedente, per ragioni
d'ufficio, senza dover dare spiegazioni, mostrandosi informato di cose che il sospettato non aveva
confidato se non a pochi, o di idee che aveva rivelato solo a qualche intimo. Ecco la funzione
politica del sospetto, e la nessuna importanza che dei fatti imputati non esistesse assolutamente la
prova. Era, appunto, alla coscienza dell'individuo che l'inquisitore si rivolgeva, chiedendo
spiegazioni e chiarimenti. Trincerarsi nei non ricordo non poteva che aggravare la posizione già
incerta del sospettato. D'altra parte esisteva una valida giustificazione ideologica. Comunque
l'istituzione si comporterà, potrà sempre dire di averlo fatto nell'interesse stesso del sospettato;
qualunque provvedimento prenderà contro di lui, potrà sempre sostenere che è stato preso nel suo
stesso interesse, per la pace sociale e per la salute ultraterrena dell'individuo. Ogni provvedimento
repressivo, ogni arresto ingiustificato, avrà sempre il suo movente invincibile ed arcano: la lotta
contro il Maligno e la salvezza ultraterrena dell'anima di ognuno. La terza ragione era d'ordine strettamente pragmatico. Le voci, le spiate, le delazioni, molto spesso dovevano essere esatte. La Chiesa non poteva non
tenerne conto; non le incoraggiava - anche perché era preferibile aver sempre a portata di mano
un'accusatore o un testimonio - ma comunque le registrava, e se ne serviva ogni qual volta se ne
presentasse l'occasione. Anche il delatore, in fondo, sia pur con timore, e con molta cautela, serviva
la causa della Chiesa. Il metodo inquisitorio, considerate tutte queste ragioni, era quanto di più indovinato ed appropriato
fosse possibile inventare.
4. Questo modello nuovo che - a salvaguardia della fede - permetteva all'autorità ecclesiastica
d'arrestare, di incarcerare, o di ridurre allo status di minus habentes tutti i sospetti eretici, devianti,
fiancheggiatori o comunque diversi, sarà subito accolto e adottato dagli stati laici. Basta scorrere le
Costituzioni federiciane, gli statuti comunali italiani, la legislazione francese, quella spagnuola,
quella tedesca, per accorgersi come ormai tutti gli ordinamenti prevedano il sistema inquisitorio. E'
un'autentica rivoluzione copernicana che si opera nel campo del diritto processuale, senza darlo a
vedere; anzi, quasi mimetizzandola. Si dice che i metodi normali sono quello per accusationem e
quello per denuntiationem e si parla dell'inquisitorio come di un metodo eccezionale. Questo in
teoria. Quanto all'effettività, a leggere i testi dei giuristi ci si accorge del contrario. Quello
accusatorio viene dolcemente strangolato sotto un profluvio di regole e di eccezioni - formalmente
ineccepibili e dottamente giustificate - che lo soffocano, lo mummificano e lo trasformano in un
flatus vocis. I giuristi lo dicono molto esplicitamente. Alberto da Gandino afferma che d'abitudine i
giudici, ai suoi tempi, usavano l'inquisitorio, se pure fosse contro il diritto romano. Chiari nel '500
scriverà altrettanto, aggiungendo che gli altri metodi oramai sono superflui. Anche Carpzow che
nel '600 dirà che quello accusatorio è il metodo normale, dedicherà molte pagine al nuovo modello,
e finirà col riconoscerlo come un remedium ordinarium (26). Finché non si arriverà al '700
illuminista e riformatore, e si vedrà - nella Teresiana - addirittura abolito il metodo accusatorio. Il
sistema inquisitorio ormai ha vinto e si è imposto in tutta l'Europa continentale.
L'inquisizione surgelata Con la Dichiarazione dei Diritti dell'uomo e del cittadino nell'89, si aprirà un nuovo capitolo, e il
modello accusatorio - da secoli applicato in Inghilterra - apparirà come il solo in grado di tutelare i
diritti dell'uomo, contro lo strapotere dello Stato. Sarà questo il miraggio che stimolerà e alletterà la
fantasia di politici e di giuristi fra l'89 e il '95, e scomparirà dall'orizzonte nel 1808 con il
napoleonico Code d'instruction criminelle, con il quale sarà portata a compimento quella finissima
operazione controriformistica che è nota sotto il nome di «sistema misto». Si sezionerà il processo
penale distinguendolo in due fasi, quella istruttoria e quella dibattimentale, la prima svolta
applicando il metodo medioevale, la seconda ispirata a quello accusatorio. Avremo così una specie
di metodo inquisitorio «surgelato», che conserva solo quegli elementi che il giudice istruttore, nel
suo insindacabile giudizio, ha ritenuto opportuno conservare e tramandare a giudizio. Questa grossa
trovata controrivoluzionaria, escogitata dalla borghesia vittoriosa, sarà la mossa vincente, perché
mentre consentirà all'esecutivo di disporre, in toto - come nell'antico regime - dell'azione penale, le
consentirà di tessere panegirici sulla forza innovativa della rivoluzione. Si dirà che con il nuovo
metodo sono saggiamente contemperate le esigenze della società con quelle del cittadino, e si
tesseranno lodi a non finire sulla bontà del nuovo sistema, il quale sarà adottato dovunque, e che -
per l'importanza controriformistica che ha avuto - potrebbe essere paragonato alla Licet ab initio,
con la quale, nel 1542, Paolo III riconosceva il sistema inquisitorio medioevale. Qui non è il luogo
di vedere come tutti i paesi a sistema inquisitorio adotteranno subito l'innovazione napoleonica -
l'unico a conservare il sistema inquisitorio puro fino ai nostri giorni sarà la Repubblica di San
Marino - e la riprodurranno ciascuno portandovi gli adattamenti e i mascheramenti necessari per
celarne la vera natura. Ma non è chi non avverta il senso ridicolmente controriformistico - una
«burletta» come è stato icasticamente definito da Delitala - che ha un dibattimento che
ipocritamente si vuole chiamare di «rito accusatorio» e che si svolge a distanza di anni dai fatti che
si tratta di giudicare, quando alcune prove sono inservibili, molte persone che dovrebbero
testimoniare o sono morte o hanno la memoria ingiallita dal tempo e il ricordo degli avvenimenti è
sfocato e molti particolari che potrebbero essere stati essenziali sono svaniti, mentre resta
invincibile solo la documentazione scritta e firmata del verbale istruttorio: la sola che possa dare
una testimonianza certa; l'unica in base alla quale il giudice è obbligato dalla legge - suo malgrado -
a giudicare. Per finire, se volessimo indagare le ragioni del successo in campo laico vedremmo che sono le
stesse della sua affermazione in campo ecclesiastico. Come analoghe saranno le giustificazioni. E
se la Chiesa aveva motivato l'impiego del nuovo modello con il dovere assoluto che ad essa
incombeva di salvare la vita ultraterrena di ognuno e di tutti, gli Stati laici lo giustificheranno
ricorrendo all'altrettanto imprenscindibile necessità di salvare il bene comune. Con tali presupposti
il sospetto dell'autorità è più che motivato, e la violenza legale entra così nel novero dei mezzi che
saranno a disposizione della classe dirigente per eliminare nemici ed avversari, e per scoprire i
sospetti eversori dell'ordine costituito. Il diritto processuale diventa così un istrumentum regni che
docilmente si adatta alla necessità del potere. Gli arcana imperii e gli arcana iuris («gli arcani del
potere e del diritto») andranno a nozze, e i giudici e i giuristi ne saranno i ministri officianti. E' nato
il diritto processuale come «tecnica della coazione». Si affermerà che il «diritto è politica» e che
solo «il politico conosce lo scopo vero della legge». Al giudice non resterà che adeguarsi a quello
scopo ed ubbidire. Oppure si sosterrà che quella del giudice è una funzione «neutrale» - al di sopra
della mischia politica - e si tesseranno le lodi della presunta neutralità del giudice. Ma a questo punto non è possibile intrattenerci nell'esaminare questo aspetto ideologico della
procedura, che quando si scriverà la storia dell'ipocrisia giuridica, sarà uno dei capitoli più
importanti. Per il momento ci basta aver fissato alcuni fatti istituzionali, perché i fatti, come
avvertiva Francesco Ruffini nei suoi Diritti di libertà, «sono simili agli scogli, riemergono
immutabili e lucidi dopo ogni ondata di chiacchiere» (27).
(1) Mémoires (inédits) de l'abbé Morellet, suivis de sa correspondance avec M. le comte R .... ,
ministre des fìnances a Naples. Précédés d'un éloge historique de l'abbé Morellet par M.
Lémontey, membre de l'Institut, Académie françoise. Paris 1825. 2e ed.. t. I. p. 61 sg.
(2) In questo contributo - giusto il tema del Congresso - il tema viene esaminato soprattutto sotto
l'aspetto del potere come istrumentum regni. Una trattazione organicamente più completa e
documentata degli istituti giuridici ai quali qui solo si accenna, il lettore potrà trovarlo nella mia
Storia dell'intolleranza in Europa - Sospettare e punire, Milano 1979.
(3) A me che sono italiano, sia consentito di citare come emblematiche le leggi in vigore in Italia,
sia perché il nostro sistema è quello più «garantista», come afferma un ex-presidente della Corte
Costituzionale (il Sandulli), sia perché - come scriveva il Kohler - «le idee fondamentali del
processo penale comune si sono tutte sviluppate in Italia; il continente non era capace di produrre
idee nuove».
(4) Massimo Nobili, Spunti per un dibattito sull'articolo 27 2° della Costituzione. Estratto da «Il
Tommaso Natale» - Fascicolo dedicato agli Studi in memoria di Girolamo Bellavista, anno VI.
numero unico, 1978. p. 834.
(5) 6.2, VI. V,2.
(6) Eliseo Masini, Sacro Arsenale overo Pratica dell'Officio della Santa Inquisizione, in Bologna
1665 (1° 1621), ad istanza del Baglioni, II parte, Modo d'esaminare i Rei nel Santo Officio.
(7) Francesco Carnelutti, Lezioni sul processo penale, Milano 1947, II, p. 168.
(8) Benedetto Croce, Cultura e vita morale. Interemezzi polemici. Bari 1926. II ed., p. 98 sg.
(9) Piero Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, Milano, Giuffré, 1954. vol. II, p. 276
sgg.
(10) Clem., 5. 3. 1. 1, §. Propter quod.
(11) Eymerich-Pegna, Directorium inquisitorum ... Romae 1587, Pars. III, quaestio 58. Comment.
107.
(12) Bernard Gui, Practica inquisitionis heretico provitatis ... , document publié pour la première
fois par C. Donais. Paris 1886. Pars V. Form. 13°.
(13) Joseph Kohler, Moderni problemi del diritto, Bari 1909, p. 113.
(14) Giuseppe Salvioli, Storia della procedura civile e criminale, in Storia del diritto italiano,
pubblicata sotto la direzione di Pasquale del Giudice, Milano, Hoepli, 1927, p. 151 sg.
(15) A. Hesmein, Histoire de la procédure criminelle en France depuis le siècle XIII jusqu'à nos
jours, Paris 1882. p. 178 e segg.
(16) Thomas Aquinatis, Summa theologica, IIa, IIae, LX. 1, 3.4, C.
(17) D. 48. 19, 18.
(18) D. 48, 19, 5.
(19) Bolla Licet ab initio (21 luglio 1542) di Paolo III nel Bullarium Romanum, Torino 1860, vol.
VI, pp. 334-346. § 1.
(20) Eymerich-Pegna. op. cit. Pars III. An in negotiis fidei summarie et de plano procedi posset,
etc. Comment. CIII.
(21) Eymerich-Pegna. op. cit., Pars II. De tertio modo procedendi in causa fidei.
(22) Masini, op. cit., Seconda parte - Secondo modo di formare il processo in causa di fede.
(23) Alfonso De Castro. De potestate legis poenalis, Antuerpiae 1568, f 70a.
(24) W. Ullmann. Individuo e società nel Medioevo, Bari 1974, p. 31.
(25) Pietro Costa, Semantica del potere politico nella pubblicistica del Medioevo, Milano 1969, p.
120 sgg.
(26) A. Esmein, op. cit., p. 309 sg.
(27) Francesco Ruffini, Diritti di libertà, Firenze 1975 (ed. anastatica della Nuova Italia). p. LX.
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