Rivista Anarchica Online
Buttar via il lavoratore dopo l'uso
di Dario Paccino
Al recente convegno promosso da Federnatura su «Natura e lavoro», tenutosi a Terni il 26 e 27
marzo scorsi, Dario Paccino ha presentato questo vivace e polemico intervento, intitolato «Buttar
via il lavoratore dopo l'uso». Giornalista e scrittore, autore tra l'altro di Arrivano i nostri (Edizioni
Avanti!, 1956) e L'imbroglio ecologico (Einaudi, 1972), Paccino inviò un'interessante relazione al
Convegno internazionale di studi sull'autogestione (Venezia, 28-30 settembre 1979) promosso dal
Centro studi libertari «Pinelli»: quella relazione («Autogestire quale tecnologia?») fu pubblicata sul
numero 76 (agosto/settembre 1979) della nostra rivista. Attualmente Paccino sta lavorando ad un
nuovo libro, sempre sulla tematica ecologica, del titolo provvisorio L'oppio del popolo e
l'apocalisse, «oppio - ci tiene a precisare lo stesso Paccino - che non viene solo dal padrone
tradizionale, ma anche da quello rosso e da quello post-tutto».
I convegni (è norma di tutti i tempi) sono concepiti, organizzati, animati da gente del Castello,
capace, come Aristofane diceva di Socrate, di salire sull'albero di fico per cogliere, in prossimità
del cielo, la cavallinità al di là del cavallo, come è dato vederlo agli abitanti del Villaggio, inidonei
ad elevarsi al di sopra del fenomeno. Solo nel Castello, chiaramente, si può pensare al bene
comune, all'interesse generale, al divampare dello spirito, a tutti quei moventi, in una parola, che
inducono a promuovere un convegno, moventi che nulla hanno da spartire con le miserie della vita.
Forse che avrebbe mai fatto un convegno la 44enne Maria Fruet, impiccatasi a Selva di Levico
perché sfrattata dalla propria soffitta? Non ne avrebbe avuto né il tempo, né il desiderio, senza
contare che la sua, come dicono i profeti del postmoderno, era subcultura, un sapere appena al di
fuori della caverna. Per far convegni sono necessarie quelle biblioteche del Castello, dove si son
nutriti, e continuano a nutrirsi, le teste pensanti dell'Intellighentzia, dotate dell'energia necessaria
per discutere per tre giorni - com'è avvenuto a St. Vincent - per decidere se Marx, a un secolo dalla
sua morte fisica, sia tuttora vivo. Suppongo dunque che chi ha avuto la cortesia di invitarmi a questo convegno, non sappia che, per
quanto mi sia ingegnato, mai sono riuscito a trovare la strada del Castello. Sono a misura di
Villaggio, esterno alla cavallinità, onde mi si vorrà perdonare se, con questo mio intervento, resterò
terra terra, al cavallo, ai fatti. Permettete che ne citi qualcuno. Il primo - particolarmente significativo, dato il tema del convegno - mi pare questo: oggi, stando ai
dati ufficiali, nei paesi ricchi e liberi, il numero dei disoccupati si aggira sui trenta milioni, e la
previsione dei cattedratici del Castello è che questa cifra sarà largamene superata. E pare che il
fenomeno sia irreversibile, onde non ci resterebbe che rassegnarci alla piaga della disoccupazione
di massa. Sempre, noi tapini del Villaggio, dobbiamo fidarci del sapere del Castello, nonostante quanto s'è
visto con l'energia. Tutti ricorderete come dieci anni fa, quando si ebbe la prima impennata dei
prezzi del petrolio, dalla scienza castellana ci fu detto che la colpa ricadeva sui cattivi sceicchi, che
non potendosi, per il momento, sterminare, dettavano legge, onde non ci restava che votarci
all'austerità. Ora che i prezzi del petrolio stanno crollando, uno dei più autorevoli manager del
Castello, De Benedetti, preannuncia: «Perderemo altri cinquantamila posti di lavoro ». Non che lui
perda il proprio, ovviamente, il suo è il classico plurale majestatis: i cinquantamila posti di lavoro li
perderanno i proletari, dimostratisi così rozzi e materialisti, che un sapiente del Castello, André
Gorz, ha scritto un libro apposta, per dar loro l'addio: addio che s'è ben guardato dal dare ai padroni
che, mentre i prezzi del greggio stanno crollando, decidono, fuori di sé per effetto di fervore
spirituale, l'aumento di otto lire al chilo dell'olio combustibile. Con Sant'Agostino che, con riferimento a Dio, diceva «credo quia absurdum», noi, con riferimento
alla saggezza del Castello, dobbiamo dire: la nostra fede nei padroni è assoluta, proprio perché
assurda, considerata la nostra incommensurabile miseria, che ci fa pensare solo al pane e a
fornicare, e magari a impiccarci, se ci sfrattano. Ancor più di Gorz, chi ha capito quanto siamo
miserabili è il cancelliere tedesco-occidentale Kohl, che ha impostato la propria campagna
elettorale su questa inoppugnabile constatazione: «Quando un operaio ha da scegliere fra la
sopravvivenza dell'umanità e il posto di lavoro, vota per il posto di lavoro ». Ho letto che a Comiso stanno tornando gli emigrati. Se n'erano andati da casa perché non c'era
lavoro, e ora che, per la preparazione delle rampe missilistiche c'è bisogno di braccia, tornano al
focolare domestico. E' probabile che tanti verdi e pacifisti, dinanzi a così abietta degradazione,
sentiranno lo sdegno dentro come veleno corrosivo. Ma che farci se siamo ormai così in basso che
il proletariato di Marsiglia, diventato razzista, invidia posti di lavoro, che prima disprezzava, e
vuole strapparli agli immigrati, onde il Turati francese, Defferre, per spuntarla nel recente
ballottaggio, ha dovuto inventare una formula affine, per sublimità concettuale, al «non aderire né
sabotare » del partito socialista italiano rispetto alla prima guerra mondiale. Ha dovuto dire al corpo
elettorale: «La destra è responsabile di vent'anni di immigrazione selvaggia, la sinistra garantisce
l'immigrazione controllata ». Gli immigrati perciò, ora che Defferre ha vinto, saranno rispediti ai
paesi d'origine al canto dell'Internazionale, e col dono d'un pacchetto di caramelle da parte delle pie
dame di San Vincenzo. Inutile dire che se gli immigrati, nonostante questo trattamento di favore, facessero delle storie,
porgendo orecchio ai sobillatori, si provvederebbe col carcere, sempre in connessione, da che
mondo è mondo, con la struttura produttiva. Si sa che quando scarseggiava la manodopera, si
inventò, come metodo di riabilitazione dei detenuti, l'ergoterapia, il lavoro in galera come rimedio
ai mali dello spirito. Ora invece che, se il pudore lo permettesse, si creerebbe una Rupe Tarpea per i
disoccupati più fastidiosi, il carcere è una sorta di atomica sociale. Chi vi entra perché ha grilli
politici per la testa, deve sapere che non gli resta che la resa (con impegno, per soprammercato, di
partecipare docilmente alla trasformazione sociale in atto) o l'annientamento. Lo psichiatra Jervis,
anni fa, mostrò che la tortura - nei paesi fascisti dipendenti dalle opulente democrazie del Nord del
mondo - era strumento indispensabile di governabilità. Ora che essa è diventata routine anche nei
paesi civili, vediamo gli spiriti illuminati invocare la riforma carceraria, quasi che fosse
razionalmente concepibile l'addomesticamento di un proletariato chiaramente schizofrenico con un
sistema carcerario non terroristico, non annichilatore. Se l'imperativo è il bene comune, Deffere, e con lui tutti i notabili del Castello, hanno ragione, e
non solo per quanto riguarda il lavoro. Cosa che sicuramente ignorano gli amici dell'Associazione
per la difesa della natura e del paesaggio. Essi infatti hanno redatto, per il loro periodico, Natura
nelle Marche, un articolo che costituisce una veemente filippica contro gli autori della norma di
legge che consente di acquistare, a peso d'oro, i siti per le centrali nucleari, con la previsione - se
nemmeno i trenta denari di Giuda si mostrassero efficaci - dell'intervento d'autorità del ministro
dell'industria. Tutti, in sede di commissione, hanno approvato questa norma, con la sola eccezione
del deputato radicale. Personalmente, al contrario degli amici dell'Associazione per la difesa della natura e del paesaggio,
mi sarei stupito se fosse avvenuto altrimenti. Se si accetta - come ha sempre accettato la maggior
parte degli ecologi - il concetto di crisi energetica, e si rifiuta come spregevole propaganda ciò che
l'agenzia sovietica Tass ha scritto in questi giorni, e cioè che le multinazionali «hanno avuto più
profitti nel decennio della crisi energetica, che non durante tutta la loro storia precedente»; se si
accetta il mito dell'esistenza d'un bene comune gestibile dagli eletti del popolo, insediati nel
Castello; se si accetta la provvidenzialità del binomio carota e bastone; in una parola, se si accetta
l'esistente, definendo il resto utopia, non si vede perché condannare i parlamentari, perché, in nome
del bene supremo dello sviluppo, hanno varato una legge che permette finalmente anche all'Italia
l'uso dell'atomo per ovviare alla penuria energetica. Al tempo in cui era il padrone che cercava braccia, si arrivò a rifiutare, da parte del proletariato, la
monetizzazione della salute, e c'era addirittura chi sosteneva che il lavoro salariato è nocivo per se
stesso. Oggi che nei soli paesi ricchi ci sono trenta milioni di disoccupati, e il carcere si configura
come il regno del terrore, dove si può essere rinchiusi anche solo per assenteismo, si deve attribuire
animo di benefattore ai parlamentari che hanno scelto il metodo del bastone e della carota, quando
avrebbero potuto limitarsi alla repressione. Persino Kant, che pur era pietista, pervenne alla conclusione che l'uomo è irreparabilmente
malvagio. Io, abitante del Villaggio, aggiungo, al malvagio, un altro attributo: irreparabilmente
folle, ché altrimenti non si spiegherebbe che qualcuno possa parlare in nome nostro, e imporci, per
la nostra sicurezza, missili che in ogni caso (qualunque sia l'esito della guerra) comporteranno la
trasformazione del nostro continente in deserto radioattivo. Perché dunque volete, se mi offrono
lavoro in una fabbrica d'armi, che dica di no, oppure rinunci alla fabbrica che quasi sicuramente mi
darà il cancro? L'orso si può difenderlo, e anche lo stambecco, ma l'uomo no, considerato che
presupposto della difesa sia la sua liberazione. Un articolista dell'Osservatore Romano, in un testo dedicato al centenario della morte di Marx, cita
questa considerazione del pastore protestante Moltmann: «Ciò che nel cristianesimo religioso la
chiesa ha custodito e trasmesso quale luce interiore, diventa invece, nel cristianesimo
rivoluzionario (ispirato a Marx) la fiamma che si volge all'esterno, e divora tutto ciò che nel mondo
è guasto, non libero, ingiusto, iniquo». L'articolista osserva che col trionfo del socialismo reale (si
tratti di quello di Andropov o di quello di Defferre, anche se lui non cita questi nomi) anche Marx
s'è interiorizzato, diventando utopia, l'utopia della liberazione dell'uomo, concepita nell'immanenza,
al contrario del cristianesimo, che la concepisce nella trascendenza. Un articolo, questo dell'Osservatore Romano, che richiederebbe una infinità di considerazioni, ma
che comunque appare notevole (data la sede in cui è apparso) per il fatto di attribuire a Marx il
merito d'aver posto il problema della liberazione dell'uomo come pregiudiziale di tutto il resto. Il
che non vuol dire - come sembrano pensare coloro che si autodefiniscono gloriosamente
pragmatisti - condannarsi all'immobilità, dovendosi fare, prima di tutto il resto, la rivoluzione. Sì, non c'è dubbio, la rivoluzione potrebbe anche non essere più possibile dopo il deserto spirituale
cagionato dai marxisti, rivoluzionari o riformisti che siano. E va pure detto che la rivoluzione
canonica, che spazza via il negativo conquistando il Palazzo d'Inverno, non ha maggior credibilità
della nostra presunta democrazia. La rivoluzione, se proprio si vuol farla, è lavoro di tutti i giorni,
all'infinito. Cosa ben più epica di quella - per altro senza precedenti nella storia - realizzata da
Lenin. Comunque, qualunque sia la natura dell'evento rivoluzionario, è certo che senza di esso (se l'evento
stesso è effettivamente indirizzato alla liberazione dell'uomo), la verità resta confinata nel Castello,
espressa da Kohl con le parole citate. E allora come si può pensare di porre il problema, senza
contaminazioni oppiacee, del rapporto produzione-natura, produzione-salute? Forse che un
individuo, alla ricerca di lavoro in mezzo a milioni di altri diseredati, non ha lo stesso valore di un
limone, da buttare nella spazzatura dopo averlo spremuto?
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