Rivista Anarchica Online
L'anarchico Schirru (e il comunista Fiori)
di Paolo Finzi
«Abbasso il fascismo! Viva l'anarchia!»: un grido lanciato dalla sedia cui è stato legato, nel piazzale
interno del forte di Casal Braschi, a Roma. Un grido che suona risposta di un individuo, uno solo, al
rimbombante boato «A noi!» fatto risuonare poco prima, all'unisono, dai 22 ufficiali e dalle 462
camicie nere, schierate da ore in attesa dell'esecuzione. Poi, la scarica dei moschetti: così muore,
all'alba del 29 maggio 1931, Michele Schirru, 32 anni, originario del paesi no sardo di Padria, emigrato
in America una decina d'anni prima e tornato con il deliberato proposito di attentare alla vita del duce.
Così muore l'anarchico Schirru. Voleva riuscire là dove altri prima di lui - primo tra tutti un altro anarchico, Gino Lucetti - avevano
fallito. Ma anche a lui era andata male: era stato arrestato in una pensione romana, mentre ormai da
mesi era in Italia e non riusciva a trovare l'occasione, il luogo, le modalità per assassinare il tiranno.
Una volta arrestato, Schirru rivendicava subito la sua intenzione e veniva quindi condannato a morte
per l'intenzione di uccidere Mussolini: ho messo in evidenza queste parole perchè significativamente
sono state scelte da Giuseppe Fiori quali sottotitolo per il suo volume (L'anarchico Schirru,
Mondadori, Milano 1983, pagg. 256, lire 12.000) dedicato alla ricostruzione della biografia del nostro
compagno. Il volume di Fiori esce nella collana «I processi» curata da Giulio Bollati e da quel Corrado
Stajano che anni fa con il volumetto Il sovversivo ci ha dato un'intelligente e sensibile ricostruzione
della vita e della morte di un altro anarchico assassinato - in un contesto ben differente, ma pur sempre
assassinato - dallo Stato: Franco Serantini. Intervistando su questa rivista Stajano («A» 36, marzo 1975), pur non tralasciando alcune critiche (in
particolare all'immagine oleografica e stereotipata data del movimento anarchico), sottolineavamo
l'importanza di quel vol umetto che illuminava una vicenda umana e sociale che altrimenti sarebbe
caduta in un oblio più o meno generale. Senza quel libro, infatti, Serantini sarebbe rimasto, un pò
asetticamente, uno dei «compagni vittime della repressione», ricordato solo da chi ne condivide la fede
politica. Grazie al libro di Stajano - e grazie anche alla maggiore rispondenza che la nostra campagna
ha avuto dopo l'uscita del libro - ancora oggi, a ormai 11 anni dalla sua morte, Serantini è rimasto un
simbolo anche per molti che le nostre idee non condividono ma che non sono insensibili alle lotte, alle
sofferenze e alle sconfitte di chi, con pulizia, lotta per la libertà. Mi sono soffermato un attimo sull'analogia tra quel libro di Stajano e questo di Fiori perchè si impone,
a mio avviso, una considerazione preliminare, certo non originale ma non per questo meno valida ed
importante: mi riferisco alla considerazione che Gaetano Salvemini citava nella sua premessa
all'autobiografia dell'anarchico romagnolo Armando Borghi, quando - per vincere la riottosità di
Borghi a scrivere dei fatti di cui era stato spettatore e protagonista - rimproverava agli anarchici il fatto
di non (voler) scrivere la propria storia, limitandosi a lamentarsi che «gli altri», quando poi la
scrivevano, ne tradivano lo spirito se non anche i fatti. «Se non sarete voi a scrivere la vostra storia -
osservava in sostanza Salvemini - lo faranno gli altri, con i loro pregiudizi ed anche con le inevitabili
difficoltà che incontra chi anarchico non è nello scrivere di un movimento così particolare come il
vostro». Osservazione giustissima, questa di Salvemini. Certo, alla base dello scarso impegno complessivamente dedicato dal movimento anarchico di lingua
italiana alla stesura in proprio della sua storia ci sono state - in passato - ragioni che non si possono
sottovalutare: per esempio, l'estrazione in massima parte proletaria (ed anche sottoproletaria) dei suoi
militanti, in un'epoca in cui proletario significava pochi anni al massimo di scuola e poi via,
giovanissimi, al lavoro. C'erano poi le esigenze pressanti della lotta, soprattutto quando sembrava che
i tempi fossero proprio quelli «decisivi» per la rivoluzione sociale. Né va trascurata la repressione che,
su scala internazionale, ha costretto i nostri militanti (compresi quelli culturalmente più preparati: si
pensi al tormentato esilio di un Camillo Berneri) ad occuparsi di questioni ben più drammatiche ed
urgenti. Qualunque fossero le motivazioni e comunque si giudichi questa sottovalutazione
dell'importanza della memorialistica e della storiografia da parte del nostro movimento, il risultato è
stato quel che è stato ed ancor oggi - quando pure il movimento nel suo complesso potrebbe «produrre»
molto di più sul terreno storiografico - la nostra storiografia è piena di «buchi»: anzi, credo si possa
tranquillamente affermare che sono più numerosi i buchi che il resto... Tutto ciò non può essere ignorato nel momento in cui ci si appresta alla lettura di un libro come questo
di Fiori che ha il primo, indiscutibile merito di contribuire a riempire un vuoto storiografico,
restituendoci nella sua dimensione umana ed ideale la figura e la vicenda di Michele Schirru. Ho scritto
restituendoci perchè pensavo a noi anarchici, che mai abbiamo dimenticato Schirru, periodicamente
l'abbiamo ricordato sulla nostra stampa (magari ripubblicandone il fiero testamento), che al suo nome
abbiamo intestato alcuni gruppi anarchici. Ma l'importanza del libro di Fiori, come si accennava prima
per quello di Stajano, sta innanzitutto nel fatto che, ad un pubblico ben più vasto di quello che
sappiamo e possiamo raggiungere con i nostri mini-mass-media, offre per la prima volta notizia
dell'esistenza di un tale Schirru, anarchico, e della sua vicenda. Il riconoscimento di questo indubbio merito non può costituire però
un freno inibitore al nostro spirito critico ed alla nostra volontà di evidenziare le nostre
osservazioni: e di critiche ne abbiamo da fare più di una. Francamente, già l'autore, per come lo conoscevamo, lasciava presagire qualcosa: senatore
filopiccista della sinistra indipendente, ex-direttore del quotidiano paracomunista «Paese Sera»,
editorialista del TG2, Fiori l'avevamo sentito commentare molte volte i fatti di cronaca e
naturalmente non eravamo quasi mai d'accordo con lui. Non era solo una questione di divergenza
ideologica: fin qui, niente di strano. Il fatto è che Fiori, nella sua foga contro «gli estremisti» e nella
sua volontà di accomunarli tout court al fascismo, era arrivato a sostenere - in un intervento
televisivo - che tra le componenti originarie del fascismo c'erano gli anarcosindacalisti. Fregnacce,
dicono a Roma. E altre si potrebbero citare. Che Fiori non abbia «simpatia» (quella simpatia che nasce dalla stima) per gli anarchici risulta
evidente anche da questo libro. La stessa simpatia con la quale indubbiamente guarda a Schirru
sembra dettata più dal più generico fatto che egli sia stato un antifascista sardo (e Fiori, che ha già
scritto una notissima biografia di Antonio Gramsci, con una prossima dedicata ad Emilio Lussu
intende completare la sua trilogia sull'antifascismo sardo, attraverso tre suoi significativi esponenti)
che da una stima di fondo per le sue idee: idee che Fiori non ha certo compreso, nè mi pare si sia
molto sforzato di farlo, accontentandosi di riproporre la solita immagine stereotipata e superficiale
dell'anarchismo. Quando, per esempio, Fiori parla della permanenza di Schirru a Torino, all'epoca dei moti contro la
guerra del '17 o nel periodo immediatamente successivo alla fine del primo massacro mondiale,
sembra che l'unica forza d'opposizione presente sia quella rappresentata da Antonio Gramsci e dai
suoi compagni ordinovisti. Sembra che anche su scala nazionale l'unica opposizione significativa
alle tendenze riformiste del socialismo sia quella che poi, nel gennaio '21, si strutturerà nel Partito
Comunista d'Italia. Gli anarchici, l'Unione Anarchica Italiana, il quotidiano Umanità Nova,
l'Unione Sindacale Italiana scompaiono nel nulla. E, per quanto riguarda Torino, perfino la forte
presenza anarchica nel movimento di classe (basti citare il ruolo svolto dagli anarchici Ferrero e
Garino alla testa della FIOM), non viene nemmeno accennata da Fiori. Tutto sembra ruotare
intorno a Gramsci. Il che è falso. Ed anche sull'attività ed il ruolo svolto dalla numerosissima emigrazione anarchica italiana negli
Stati Uniti, si potrebbero muovere a Fiori dei rilievi critici. Non si tratta di questioni di poco conto, anche perchè quando Fiori si trova ad affrontare la
questione dell'antifascismo, delle divergenze politiche, ideali, strategiche tra le varie forze che vi
confluiscono, queste dimenticanze formeranno un tassello in più nell'interpretazione a tratti faziosa
a tratti completamente falsa che ne dà Fiori. Dalle pagine del suo libro, infatti, pare che la
contrapposizione principale in campo antifascista, alla fine degli anni '20 ed all'inizio del decennio
successivo, sia stata quella tra buonsenso comunista e avventurismo giellino. Da una parte, il PCd'I
con la sua tradizione di radicamento tra le masse popolari, la concretezza che gli deriva
dall'impermeabilità a qualsiasi utopismo, il rifiuto di qualsiasi avventurismo e l'etico rifiuto del
terrorismo anche nella sua utilizzazione specificatamente antifascista (fino a comprendere, quasi, lo
stesso tirannicidio). Dall'altra parte, i militanti di Giustizia e Libertà, borghesi come estrazione
individuale e come ideologia, inclini più al «bel gesto» di stampo romantico che ad una seria
attività politica, irrimediabilmente attratti dall'uso degli esplosivi. In questa sua visione
dell'antifascismo - che abbiamo forzatamente schematizzato ma che sostanzialmente non si discosta
da quella che emerge dalle pagine di questo volume - Fiori non può fare a meno di collocare gli
anarchici a ruota dei giellini, riproponendo l'immagine dell'anarchico bombarolo, utopista,
generoso, sognatore ma al contempo pericoloso: privo, comunque, di solidi legami culturali,
organizzativi, ecc. con il proletariato. E' una visione, questa di Fiori, che non corrisponde assolutamente al vero e che non fa che
allinearsi, nella sostanza, mutatis mutandis, alla storiografia comunista ufficiale prodotta dagli
intellettuali organici di turno. Non è possibile, per evidenti ragioni di spazio, rispondere
adeguatamente alla concezione riproposta da Fiori. Ma almeno su un punto specifico - quello della
violenza - vorrei fare un'osservazione: e si tratta, ancora una volta, di una questione centrale,
soprattutto per un libro che ripropone un gesto per sua stessa natura violento come il tirannicidio. Fiori riporta numerosi passi di articoli di Togliatti e di altri dirigenti del PCd'I nei quali si rigettano
«l'attentato» ed altre forme di violenza politica, soprattutto individuale. Ne risulta un'immagine
perbenista, quasi nonviolenta, di un partito e soprattutto di un gruppo dirigente che in realtà si sono
macchiati, già in quegli anni e con ancora maggiore intensità nei successivi, di crimini orribili, di
violenze individuali e di massa inenarrabili, di complicità, delazioni, liste di proscrizione. Il PCd'I
di cui Fiori si affanna tanto a descrivere il rifiuto della violenza, quasi lasciando credere che si
trattasse di un rifiuto etico, era in realtà la sezione italiana di quell'Internazionale stalinista che della
violenza ha fatto il suo metodo principe per egemonizzare il «movimento operaio», per stroncare le
altre correnti dissidenti, per imporre dentro i confini del «primo stato proletario» una delle dittature
più feroci e ahimè più durature dei nostri tempi. E' ridicolo che Fiori voglia riproporre ancor oggi
quell'immagine del partito comunista, quando, tra mille reticenze e con una finalità comunque
strumentale, dall'interno dello stesso PCI si cominciano timidamente a riconoscere alcune di quelle
responsabilità. Chiudendo il libro dopo averlo letto una prima volta, queste ed altre critiche che il testo di Fiori
(che pure ha pagine molto efficaci, come quelle in cui ricostruisce l'ambiente sardo in cui avvenne
la prima formazione politica di Schirru) mi ha immediatamente stimolato, sono come passate in
second'ordine. Su tutto, dominava la grandezza morale del gesto di Schirru, la tragedia di un uomo
che nella sconfitta del suo gesto di rivolta vede specchiarsi la tragedia di un popolo oppresso dalla
tirannia. Un popolo al quale, con il suo estremo sacrificio, quel giovane anarchico sardo, tornato
apposta dall'America, seppe indicare la via maestra della rivolta individuale.
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