Rivista Anarchica Online
Indian soup
di Paolo Arduino
A proposito di una mostra
«Gli indiani dentro un cerchio. Una grande mostra rende loro finalmente giustizia». Così titolava
l'articolo della Nazione del 19-8 che annunciava la presenza a Genova dal 9 settembre al 6
novembre della mostra itinerante curata da « ... Richard Conn, uno dei più noti esperti mondiali di
arte e cultura dei Nativi Americani... ». In fotografia, un paio di tristi stivali, decorati a perline e
leggermente storti in mancanza di un paio di gambe che rendesse loro «giustizia», dava l'idea di
una violenza più fine e velenosa di quella dell'indiano morto-ammazzato. Suggeriva l'immagine di
una spirale che dopo aver prodotto l'assassinio di un popolo continuasse ora il suo sviluppo per
ucciderne definitivamente la memoria attraverso il folclore e la mitizzazione. Non amo né la «giustizia» dei titoli a tutta pagina, né la cultura ambulante, non amo i recuperi
culturali e i pianti da coccodrillo, non amo le amministrazioni di sinistra e le loro mistiche
illuminazioni: preferisco la furia dei conquistadores all'elegante svolazzo lasciato sulla carta dal
veleno della penna di uno zelante burocrate. Non amo la gente che vuole continuamente arricchirsi,
confrontarsi, in modo troppo disinvolto e senza mai pagare di tasca propria, con le culture passate e
presenti, morte, moribonde o viventi; non amo le escursioni gratuite e zampettanti, i passatempi
domenicali; non amo questa eccessiva liberalità circoscritta soltanto a ciò che non mette in seria
discussione la nostra vita. Non amo l'amore soffocante e appiccicoso che strozza e insozza tutto ciò
che gli capita a tiro; non amo questi pozzi senza fondo e questi tentacoli che si afferrano a tutto pur
di riempire quel vuoto incolmabile che una squallida esistenza allarga sotto i nostri piedi. Non amo
chi viaggia in corrente per «forza maggiore» senza un colpo di coda, senza un guizzo ideale. E' vero, sono timido, di fronte a una persona che non conosco spesso mi blocco, a volte arrossisco,
penso ingenuamente e un po' artificiosamente di aver di fronte un mondo sconosciuto, anche se la
realtà continua a contraddirmi, presentandomi esemplari umani sempre identici su un numero di
modelli limitato: con o senza il lunotto termico, a gas o a benzina o con l'ultimo libro di psicologia
che gli è rimasto malamente incrostato addosso. Son cose queste che gravano su ognuno, per questo
diffido anche di me stesso, per questo difendo la mia timidezza, le mie cautele e i miei dubbi, per
questo non mi accosto alle persone e tantopiù a una cultura con la stessa disinvoltura con cui piscio
al gabinetto. E' chiaro a questo punto che non amo lo spettacolo e i suoi clamori, in un mondo
ahimé che ci sguazza dentro come un'anatra in padule. E nonostante tutto la curiosità si spingerebbe là, pigiato su di un autobus o su di un treno insieme
ad altre persone per guardare una mostra, per riempirmi magari una domenica vuota, come molti;
dopo un gelato, un caffè o un panino, dopo i litigi con la moglie o la fidanzata, dopo un piatto di
lasagne troppo unte, dopo una settimana di lavoro beota a produrre cuscinetti o spinterogeni, perché
qualcuno domani possa democraticamente spiaccicarsi contro un muro a cento all'ora. Trascinato
da cotanta esistenza eccomi qui anch'io, idealmente, a buttar gli occhi e un po' di fango su questi
malinconici reperti, a guardare il laccetto per la cattura dei conigli, il telaio e i certosini lavori
artigianali, a desiderare magari un piccolo arazzo che starebbe a perfezione appeso in salotto sopra
il divano. Si deambula così da una bacheca all'altra come imbecilli, mentre il tempo scorre, quel
tempo che scorreva così diverso per quei «nativi» e che non è possibile mostrare sotto vetro: quel
trascorrere delle stagioni, quelle notti e quelle lune, quelle immersioni invernali in fiumi gelati, quei
sentimenti e quelle emozioni di cui, per fortuna, si conosce poco o nulla e sui quali non si può
gettare la nostra lebbra. Cattivi yankees!... E dopo le loro fucilate, dopo lo strangolamento delle
riserve, i pianti finali e le esecuzioni a biro degli «studiosi», evitiamo accuratamente di pensare che
siamo noi in questo preciso istante ad aggiungere l'ultimo anello della catena; siamo noi in questo
preciso istante, con la nostra stupidità e il nostro avallo a premere il grilletto dell'ultima fucilata, a
dar sostanza storica alla falsificazione. Siamo noi con la nostra cultura ambulante e stracciaiola a
creare nuovi ambiti di violenza, non avendo il coraggio di legare in nesso logico i pellerossa, le
lasagne al forno, i cuscinetti a sfera e i marocchini agli angoli delle strade: « ... che ormai ce ne
sono troppi e cominciano a rompere i coglioni». E ancora siamo noi a produrre episodi indefinibili
come questo, riferito da uno studente di colore (si dice così): di fronte alla signora che gli rifiutava
la stanza messa in affitto, alla sua accusa di razzismo si sentì rispondere: « ...lei si sbaglia, io non
sono razzista, è lei che è nero». ... Da una bacheca all'altra, sguardi estatici, oggetti evanescenti ... ectoplasmi. L'unica realtà
possiible sono i piedi gonfi e le nostre ginocchia, non già ferite, ma molli di stanchezza e il fastidio
per commenti più stupidi dei nostri. Il senso di inconcludenza, il riverbero delle luci sui cristalli e
una leggera emicrania (le solite lasagne?) e infine l'ingombrante coscienza di un'altra settimana di
lavoro allargano su di noi un'ombra importuna, una macchia d'unto, con il presentimento di un altro
pezzo della nostra vita da inscatolare con i diecimila spinterogeni della prossima settimana. In
questa domenica qualunque una materia dubbia ci suda nelle mani come un portachiavi in
fintapelle: è un tassello di cultura e serve per edificare quel tempio dove l'uomo trova rifugio e
conforto all'assillo dei grandi quesiti dell'esistenza. Ma nessun serio muratore prenderebbe in
considerazione un simile materiale: tuttalpiù si può mettere sotto i denti come una gomma da
masticare, per ammazzare il tempo, la noia e infine la vita e peccato che non sappia di nulla. No,
non voglio eriger templi né masticar gomme: vada Pertini a farsi il calumet, a scandagliare quelle
macerie, non molto diverse da quelle del Paese suo e di cui è inutile l'elencazione: in fin dei conti
perlomeno a questo funerale non gli toccherà di piangere. No, non voglio sparare l'ultimo colpo, non voglio rischiare la parola inutile ed insensata sui
pellerossa (se già non l'ho fatto); non voglio unirmi alla schiera dei più vili, di quelli che non
uccidono ma si avventano sulle carcasse, litigandosele in dispute presuntuose e in dotte citazioni (è
la storia). Preferisco il silenzio, preferisco, se un giorno fiorirà una parola, che nasca da questo
silenzio. Non accetto di contrabbandare la vita di un popolo con quattro stracci sotto vetro, non accetto l'idea
di libertà che s'è costruita una turba impecorita di servi, servi d'altri servi, baciaculi terrorizzati di
nuovi dominatori, non accetto di unirmi alle litanie e partecipare nei nuovi templi ai sacri riti.
Voglio stare in disparte e in silenzio, silenzio per capire, per pensare; eliminare ogni disturbo, ogni
possibile bla-bla di ogni possibile media e nel silenzio progettare, costruire quella parola come una
lama tagliente, che si unisca al grido di altre parole in altri silenzi, che mi renda quella misura del
tempo in cui paura e coraggio fondono nella rivolta, perché gli occhi d'ognuno guardino attraverso
un desiderio che rompa gli indugi, che spezzi le catene, che scopra la gola finora celata e l'offra al
coltello, alla parola che taglia, alla parola indivisa. Allora e solo allora rifiorirà il senso e la parola
profumerà di fiori e saprà di miele, penetrerà la tenebra e il cuore e sarà di tutti. Sarà gli stessi suoni
e la stessa lingua, ma cullerà in sé ciò che ora è schiacciato, calpestato e deriso: l'emozione, il gesto,
... la libertà. Ma saltiamo un'altra volta il fosso e torniamo alla nostra abituale fredda logica, al raziocinio
biforcuto di cui facciamo solitamente sfoggio per porci una domanda: è lecito, è corretto, criticare a
priori qualcosa di cui non conosciamo il contenuto? Queste acide righe esprimono la mia personale risposta al quesito. Sono abbastanza addomesticato
da non graffiare chi la pensa in modo diverso dal mio, faccio inoltre quotidiane capriole pur di
riuscire a prendere in considerazione l'opinione altrui, per essere, se non assalito, perlomeno
avvicinato da qualche dubbio; riesco perfino ad ammettere che le tonalità di nero con le quali
tratteggio solitamente la realtà possano essere a volte meno intense, ma insomma, ho buoni motivi
per pensare che certe pattumiere puzzino senza metterci dentro il naso. Riesco inoltre ad ammirare
il coraggioso che dopo aver affondato le mani in cento chiaviche estrae la perla rara e la mostra
orgoglioso per far riflettere coloro che, come me, sono più portati all'indignazione e alle esecuzioni
sommarie. E' chiaro che il chiodo sul quale picchiavo forava un altro legno. Andare a vedere una «brutta» o una «bella» mostra non vuol dire essere necessariamente stupidi, e alcuni, forse, riusciranno a
conservare il piombo di quell'ultima «fucilata» in previsione di ben diversi bersagli. Ma è ben
chiaro che l'idea stessa di queste mostre, le stesse tecniche di impianto, sottendono senza mezze
misure lo spettacolo, la mercificazione, la strumentalizzazione, ... glì scopi «educativi», e chi
partecipa a un gioco ideato da altri è costretto purtroppo a subirne le regole. Ciò detto, vorrei ancora precisare che quando in queste note poetavo di «silenzi» non intendevo
affatto l'isolamento sui monti con la sola compagnia del vento, bensì un maggiore sforzo per
liberarci dai preconcetti e dai cliché del dominio, che disturbano, come rumori assordanti la
normale comunicazione tra le persone; sottolineavo la mancanza di un linguaggio comune che,
vivificandosi in quei «silenzi», non suonasse inutilmente da una bocca all'altra, da un orecchio
all'altro, che ci permettesse un giorno di trascinare giù dal suo divano quel «sol dell'avvenire», che
lo convincesse infine che v'ha maggior piacere nel sorgere che nel guardare i films alla tivi.
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