Rivista Anarchica Online
Tra ideologia e realtà
di Nico Berti
Fino al 1924 Borghi è in Francia, poi va in America in esilio, e ritorna, come sapete, alla fine del
1945. Tutto questo periodo, il periodo dell'esilio, nel nostro Convegno non viene ricostruito perché
mancano documenti in proposito e la ricerca è molto difficile. C'è quindi un vuoto di studi non
indifferente, un vuoto che crea delle difficoltà di interpretazione a me che devo esaminare Borghi
nel secondo dopoguerra, cioè l'ultimo Borghi. Qui devo fare una premessa che ritengo necessaria. Le relazioni che avete ascoltato fino ad ora - a parte l'intervento di Carlo Doglio - riguardano il
Borghi fino al 1922, ossia il Borghi più importante, quando egli fu, dal 1914 al '22, segretario
dell'Unione Sindacale Italiana, un personaggio dunque di primo piano nella storia del nostro paese.
Diversamente, il Borghi del secondo dopoguerra, quello che io devo ricostruire, non ha più questo
rilievo, non è più cioè un «protagonista» perché non riesce più a incidere nella realtà del nostro
secondo dopoguerra. La domanda da porsi è dunque questa: perché Borghi perse la capacità di determinare la vita sociale
italiana? E' vero che l'intero movimento anarchico del secondo dopoguerra non era certamente influente
come lo era stato nel primo dopoguerra: nel secondo dopoguerra, per esempio, non c'è più l'U.S.I. Però è anche vero che Borghi, attraverso i suoi ricordi, e attraverso la riconsiderazione di tutta la
sua vicenda personale, rivede anche tutta la vicenda dell'anarchismo di mezzo secolo. Sono appunto
queste riflessioni la causa determinante della posizione emarginata (estraniata) di Borghi del
secondo dopoguerra, e sono perciò l'oggetto della mia indagine. Innanzitutto Borghi ricostruisce la storia dell'anarchismo dividendola all'incirca in tre fasi: una
prima fase va, grosso modo, dagli anni '70 del secolo scorso alla fine del secolo; una seconda fase
che comprende l'età giolittiana e il primo dopoguerra; una terza fase che è quella degli anni
dell'esilio. Qui ciò che conta è che Borghi adotta come criterio di scansione di queste tre fasi il susseguirsi
dell'integrazione e della scissione delle masse rispetto allo Stato. Dice Borghi: abbiamo un anarchismo fino alla fine dell'800 che rappresenta la rottura di tutte le
masse popolari con lo Stato liberale. L'età giolittiana cercherà di portare queste masse popolari
nello Stato liberale attraverso il veicolo dei Partiti. Questo tentativo viene interrotto dallo scoppio
della prima guerra mondiale, e nel primo dopoguerra il tentativo di Giolitti di allargare le basi dello
Stato liberale fallisce portando alla fine lo Stato liberale e quindi alla nascita del fascismo. Il disegno di condurre le masse dentro lo Stato riesce invece perfettamente al fascismo. Come ci è
riuscito? . Attraverso il sindacalismo, il sindacalismo corporativo. L'attenzione di Borghi si appunta perciò ora
sul sindacalismo come chiave di interpretazione del rapporto tra le masse e lo Stato nel secondo
dopoguerra. Il sindacalismo fino al 1920-22, afferma Borghi, rappresentava bene o male una rottura
che le masse popolari esprimevano verso lo Stato. Nel secondo dopoguerra questa frattura non c'è
più perché il sindacalismo viene perfettamente mediato dai partiti politici. Si ha la cattura completa
del sindacato da parte dei Partiti. Il sindacato del secondo dopoguerra è perfettamente funzionale al
disegno complessivo dei Partiti della sinistra, di conquista del potere. Questo vuol dire che si può
dare sindacalismo anti-capitalistico, ma non si dà più sindacalismo anti-statale, anti-istituzionale.
Quindi evidentemente Borghi a questo punto, da anarchico, non può più appoggiare il sindacalismo
così come esso si esprimeva nel secondo dopoguerra. Questo sindacalismo non si muove più
contemporaneamente contro lo Stato e contro il capitale, ma solamente contro il capitale, in
funzione della conquista del potere da parte delle sinistre. Abbiamo cioè la continuazione, da parte
dei Partiti di sinistra, di quella statalizzazione delle masse già iniziata dal corporativismo fascista. E qui abbiamo anche, secondo Borghi, una conferma anarchica fondamentale. Nel libro che egli
pubblica alla vigilia delle elezioni del 1948, che si intitola appunto Conferma anarchica, dice che
questo sindacalismo può benissimo darsi nelle forme anticapitalistiche, ma non necessariamente
nella forma antistatale. Si tratta di affermazioni molto importanti, che non implicano un giudizio
etico, o umanitario, o aclassista, ma politico. E' in questo giudizio politico e storico che risiede
l'avversione di Borghi per il sindacalismo. Un'altra considerazione fondamentale di Borghi è questa: il secondo dopoguerra non si presenta
come una rivoluzione mancata. In questo - mi sembra che Carlo Doglio lo abbia detto, e secondo
me è giusto - Borghi smitizza la Resistenza. Non la smitizza come insurrezione eroica contro il
nazi-fascismo, ma come rivoluzione mancata. Vent'anni di fascismo avevano diseducato le masse
alla rivoluzione sociale, ed essa perciò era ben lontana dall'essere una «minaccia» imminente. L'unica rivoluzione mancata, se mai, è una rivoluzione in senso bolscevico, cioè come mancato
colpo di Stato del bolscevismo, del tipo russo del 1917. Non esisteva affatto la possibilità di una
rivoluzione sociale come rivoluzione che investe complessivamente le masse attraverso una
coscienza collettiva di trasformazione radicale della società. E qui Borghi doveva constatare una
cosa amara, che le masse non erano più rivoluzionarie. Era molto «impolitico» affermarlo, ma era
così per Borghi. A questo punto registriamo che se la storia va in direzione opposta a quello che
l'anarchico Borghi voleva, ebbene egli ritiene di non poter rincorrere la storia, le masse; egli rimane
fermo nella sua posizione. La posizione di Borghi ora è una difesa di principio. Se la storia va in direzione completamente
opposta, egli sostiene, io prima di tutto devo difendere la mia ideologia, i miei principi, non posso
assolutamente mediare il mio patrimonio ideologico per rincorrere la storia, per rincorrere le masse
che non sono più rivoluzionarie. Ciò non significa che le masse non saranno più rivoluzionarie, ma
che non lo erano in quel momento, con vent'anni di diseducazione fascista. Questo spiega, ripeto, tutta l'avversione di Borghi per il sindacalismo e l'anarco-sindacalismo.
Secondo Borghi non vi sono più le condizioni oggettive per ricrearlo. E qual era dunque la lettura
complessiva che fa Borghi dell'anarchismo? Se noi andiamo a rivedere quello che egli scrive dagli
anni 1952-53, quando ritorna in Italia, fino alla morte, nel suo Mezzo secolo di anarchia, noi
vediamo un'interpretazione della storia anarchica nel nostro paese come una storia che si decanta:
l'anarchismo nel corso di mezzo secolo ha assunto diverse determinazioni storico-sociali, ma poi
queste determinazioni storiche si sono esaurite, e quello che è rimasto alla fine è l'anarchismo,
senza più nessun aggettivo. Non c'è più l'anarco-comunismo, l'anarco-sindacalismo, ecc., c'è solo
l'anarchismo. Una ideologia portata alla sua purezza estrema. Un'ideologia però paralizzante,
evidentemente, perché il tentativo di salvare la purezza dell'ideologia comporta il prezzo della
paralisi, il prezzo della non iniziativa. Non tanto dell'iniziativa individuale, perché c'era sempre la
volontà di agire, ma la capacità dell'anarchismo di essere dentro la storia, dentro le forze collettive,
dentro le forze profonde della trasformazione sociale. L'anarchismo degli anni '50 era veramente
diventato un movimento d'opinione. Ma questo è un problema che non riguarda più Borghi,
riguarda la storia dell'anarchismo. Problemi complessi che ancora nessuno, a mio avviso, ha
affrontato né tantomeno spiegato. Il problema è questo: perché negli anni '50 ci sia questo progressivo esaurimento dell'anarchismo
come movimento sociale. Io ricordo che quando quindici anni fa mi sono avvicinato al movimento
anarchico l'ho trovato praticamente morente. Non perché non ci fossero gli anarchici, o perché
fossero inattivi, ma perché non erano più dentro le forze sociali. E se noi andiamo a sfogliare tutte
le annate di Umanità Nova, noi vediamo che a mano a mano che c'è questa decantazione
dell'anarchismo, questa evoluzione verso una purezza sempre maggiore sotto il profilo ideologico -
si veda per esempio l'importanza fondamentale che Borghi dà alla qualità piuttosto che alla
quantità, al movimento specifico piuttosto che al movimento di massa, al fattore educativo, al
fattore della spontaneità, la sua avversione a ogni forma di organizzazione perché ritenute tutte
forme surrettizie, artificiali, incapaci di risolvere ciò che concretamente occorre, cioè la coscienza,
la spontaneità vera, ecc. - ebbene, noi vediamo una sempre maggiore enfatizzazione dell'idea
anarchica, portata alle sue estreme conseguenze come ideologia pura, come rivolta dello spirito,
come rivolta perenne del libero pensiero. C'è una polemica ad esempio di Borghi coi GAAP sulla
radice storica dell'anarchismo: i GAAP sostengono che esso ha una radice di classe, cosa che
Borghi nega. Chi aveva ragione? Io non mi sento di dare torto completamente a Borghi. Sono
problemi complessi, perché dare un'interpretazione globale, come davano i GAAP, di radice di
classe dell'anarchismo (ma poi dopo dover constatare concretamente, come Borghi andava a
dimostrare, che questa radice di classe si era via via esaurita, che nelle sue determinazioni storiche
era venuta meno, mentre ciò che era rimasto era l'ideologia, quella sempre pronta, integra,
ripetibile, disponibile a una nuova esperienza storica), oppure sostenere, al contrario, la negazione
assoluta della radice di classe dell'anarchismo è una questione tuttora aperta. Anche oggi, lo sapete
benissimo, si scontrano l'interpretazione dell'anarchismo ormai classica di Nettlau, di tipo
umanistico, e quella di altri che vedono l'anarchismo come ideologia di classe, o meglio, come
movimento di classe. E' un problema aperto dunque, che nella visione di Borghi aveva questa enfatizzazione specifica. Un altro problema grave che noi possiamo cogliere nelle pagine di Borghi e in buona parte
dell'anarchismo che si identifica con lui, è quello della scelta tra Oriente e Occidente. Gli anarchici non optavano per l'uno o l'altro schieramento, ma anche questa estraneità produceva
oggettivamente una paralisi; essa significava, concretamente, non scegliere e perciò non agire. Il
problema era drammatico. Scegliere infatti avrebbe significato dover mediare l'ideologia con la
realtà, e questo era appunto il prezzo che Borghi non voleva pagare. Egli non lo diceva, ma
evidentemente ancora una volta la sua convinzione era che piuttosto che stare dentro la storia per
farsi travolgere da questa, era preferibile starne fuori. Un'ultima considerazione e concludo, riguarda la posizione di Borghi rispetto ad alcuni
avvenimenti internazionali del secondo dopoguerra. Per esempio quando c'è la rivolta in Ungheria la posizione di Borghi, lo stare sempre dalla parte
dell'ideologia e di tutti gli anarchici, è ovviamente, di appoggio alla rivolta; una settimana dopo
quando, come sapete, scoppia la questione di Suez, la posizione di Borghi è di avversione
all'imperialismo anglo-francese. Abbiamo sempre dunque questa puntualizzazione da parte di Borghi, lo stare sempre dalla parte
dell'ideologia senza però riuscire effettivamente, secondo me, ad agire nella realtà storica. Lo stesso accade con il problema di Cuba. Quando il 23 aprile c'è il tentativo di invasione di Cuba
nella Baia dei Porci, Borghi scrive il famoso articolo su U.N. «Giù le mani da Cuba». Questo fatto
smentisce intanto il presunto filo-americanismo di Borghi, accusa che io ho sentito ripetere per
anni. Dov'è questo Borghi filo-americano? Armando Borghi scrive feroci articoli contro il tentativo degli Stati Uniti di invadere Cuba. Borghi
motivava questa posizione di difesa della rivoluzione, pur non essendo d'accordo con i metodi
dittatoriali di Castro, sostenendo di voler ripetere l'atteggiamento che gli anarchici avevano assunto
nel primo dopoguerra di difesa della rivoluzione russa pur criticando i metodi autoritari di Lenin. C'è il ripetere della posizione anarchica in ogni occasione, sempre contro ogni forma di autorità, di
oppressione. L'insegnamento complessivo che si può ricavare perciò dalla vicenda di Borghi nel secondo
dopoguerra è che il prezzo che egli e tutta una parte del movimento anarchico hanno pagato per non
mediare con la storia, che purtroppo in quel momento non andava a favore dell'anarchismo, è stato
quello di stare fuori dalla storia. Il nostro problema è di stare dentro la storia, ma bisogna essere
come Borghi, cioè come tutti i veri anarchici: dentro la storia, ma per essere contro la storia.
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