Rivista Anarchica Online
Il computer, l'artigiano ed il boia
Cari compagni, ho letto con molto interesse i diversi interventi sul tema «computer e dominio» pubblicati sullo scorso
numero. Senza nulla voler togliere ai pregi complessivi degli altri articoli e senza sottovalutare la
pregnanza delle argomentazioni e delle analisi in essi contenute, confesso di sentirmi incline a
condividere, sulla questione, le considerazioni esposte da Gianluigi Bogani e l'ottica da lui adottata nel
valutare il fenomeno della cosiddetta «rivoluzione informatica». Premetto di non avere il benché minimo corredo di nozioni specifiche sulla materia. Ad un computer
non mi sono mai avvicinato, non ne ho mai visti se non in fotografia, né mai ho avuto modo di
visionare alcuna di quelle riviste specializzate che stanno incontrando tanto successo di lettori. Quel
poco che ne so è per sentito dire. So, cioè, o credo di sapere, che di questi calcolatori o «elaboratori» elettronici ve ne sono di diverse
dimensioni e con differenti capacità e qualità di prestazioni e che, per quanto tecnologicamente
complessi, sarebbero basati su semplici principi di algebra e di logica elementare (calcolo
proporzionale, logica delle classi, algebra di Boole). Mi risulta che essi si suddividono in due grandi
categorie: quella dei calcolatori «numerici» o «digitali» più adatti ad un utilizzo in campo commerciale
ed amministrativo e quella dei calcolatori «analogici» particolarmente idonei ad usi scientifici. Non ignoro come questi strumenti richiedano per la loro programmazione il ricorso a dei linguaggi
artificiali con diversi livelli di raffinatezza formale e dotati di differenti caratteristiche particolari, in
relazione al tipo specifico d'impiego. Di questi linguaggi programmatici (Fortran, Cobol, Algol, ecc.),
però, confesso di non sapere nulla. Sono pertanto il primo a riconoscere che la mia propensione ad
attribuire una validità maggiore, rispetto a quella degli altri interventi, al discorso portato avanti da
Bogani è più il frutto di una scelta psicologica che non di un convincimento razionale, dedotto da
un'analisi sorretta da elementi oggettivi e guidata da una conoscenza effettiva dell'argomento. Ciò che, a mio avviso, caratterizza lo scritto di Gianluigi Bogani è l'aspetto propositivo del contenuto.
In esso, infatti, compare un suggerimento relativo alla ricerca di quei modi e di quelle vie (non è dato
oggi sapere se e quanto percorribili) che possono offrirsi al movimento libertario per realizzare una sua
presenza effettiva (e maggiormente incisiva) nella società contemporanea. La «rivoluzione informatica» può non piacerci, possiamo temerla quale portatrice di un incremento
dell'alienazione dell'uomo e di un'ulteriore accentuazione delle caratteristiche gerarchiche ed autoritarie della società: rimane il fatto che
dobbiamo fare i conti con essa. Possiamo e dobbiamo cercare di individuare e mostrare i pericoli
che essa può comportare ma, così come non è possibile ignorarla, non possiamo esorcizzarla
attraverso la deprecazione. L'unica alternativa che si pone è quella tra il cercare di scoprire le
possibili dimensioni positive del fenomeno e gli eventuali spazi ove sia possibile inserirvi per
allargarle, potenziarle ed utilizzarle; e l'auspicare forme di rivolta «luddista» contro questa forma di
sviluppo tecnologico. Questa seconda ipotesi mi pare una scelta improponibile in quanto velleitaria, ridicolmente ingenua
e (anche se per assurda ipotesi fosse praticabile) priva di sbocchi che portino alla costruzione di una
società libertaria. Nessun dubbio intorno al fatto che questa nuova tecnologia verrà utilizzata dal Potere quale
efficace strumento di consolidamento del dominio. Solo che ciò avviene per le stesse ragioni che
hanno determinato un identico destino ad ogni scoperta scientifica e ad ogni nuova innovazione
tecnologica, nel corso di tutta la storia dell'umanità. In ogni epoca gli individui e le classi sociali che hanno detenuto il potere hanno sempre perseguito
l'obiettivo del perfetto funzionamento dei meccanismi di controllo sociale ed avuto la possibilità di
trarre profitto, a questo scopo, di tutte le risorse economiche, scientifiche e tecniche disponibili. Maria Teresa Romiti apre il suo articolo con una suggestiva immagine di lavoro artigianale e le sue
considerazioni sull'importanza, in una cultura a misura d'uomo, del rapporto diretto con la natura,
del posto che deve avervi l'abilità manuale e l'impegno artigianale che sanno ricavare, con pochi
attrezzi ed ore di paziente lavoro, oggetti ammirevoli appaiono validissime e quanto mai
appropriate. Non dimentichiamoci però che quelle società del passato, ove fiorirono fino al
massimo splendore questi modi di produzione, non sono state meno soggette al dominio e allo
sfruttamento di quelle industriali (capitalistiche, tardo-capitalistiche o post-capitalistiche che
fossero o siano). Una recente «mostra della tortura» ha esposto raffinati congegni, frutto di «amorevole» lavoro di
abili mani artigiane, destinati a servire il potere di allora come strumenti per infliggere sofferenza
alle sue vittime. Alla visione di abili artigiani intenti ad intrecciar canestri, a dare forme
geometriche perfette a blocchi di pietra, a forgiare anellini da un chiodo, viene a sovrapporsi quella
di altri, altrettanto esperti e innamorati del loro lavoro, impegnati a fabbricare il toro di bronzo del
tiranno Filaride o la terribile «vergine di Norimberga», o ad allestire i mille arnesi, perfidamente ingegnosi e fantasiosi, diventati ora oggetti di curiosità in una mostra, ma che hanno costituito
l'attrezzatura professionale del boia. Dovremmo per questo maledire le capacità degli artigiani di
allora? Sarebbe insensato, perché la colpa di quei mali non risiede nell'abilità di quelli che
costruivano quegli strumenti di tortura ma è di chi aveva il potere di asservire il loro lavoro e di
utilizzarlo a questo scopo. Chi gestisce il potere potrà senz'altro servirsi delle nuove tecnologie informatiche per opprimere e
reprimere. E' sempre riuscito a servirsi di uomini e cose a questo scopo. Ma il male non sta nei
«computer», sta nell'essenza stessa del potere. Hitler, Mussolini, Stalin non possedevano calcolatori
elettronici: pare che non abbiano risentito molto di questa lacuna. Vi è un punto, che mi pare importante, dell'articolo di Maria Teresa Romiti che ha suscitato in me
non poche perplessità e sul quale, sempre se ho ben capito il suo pensiero, mi trovo a dissentire
completamente. Si tratta di quello dove, parlando dell'effetto che il computer potrebbe avere sui
bambini, afferma che sarebbe quello di «renderli padroni delle strutture logico-matematiche e nello
stesso tempo cancellare tutti gli altri tipi di correlazioni logiche che pur appartengono all'umanità».
Non sono d'accordo perché convinto, invece, che molto possa indurci ad ipotizzare degli effetti più
positivi che negativi (in una prospettiva libertaria) dall'assimilazione, a livello di massa, del
linguaggio privo di ambiguità e di orpelli retorici, che è peculiare alle scienze logiche e
matematiche. La riduzione a calcolo di ogni procedimento inferenziale, la cui realizzazione ha cominciato a
rendersi possibile solo dopo l'algebrizzazione della logica operata da George Boole nel 1854, era
stata vagheggiata da generazioni di filosofi. Già presente in Raimondo Lullo («Ars compendiosa
inveniendi veritatem», 1274), questo progetto affascinò molti pensa tori del XVI e XVII secolo e
venne ripreso da Leibniz nel suo «De arte combinatoria» del 1666, dove espone il suo progetto di
una metodologia in grado di dimostrare le verità acquisite e di scoprire verità nuove mediante un
sistema combinatorio che prende la forma di un calcolo analogo a quello usato in matematica e
attraverso il quale si dovrebbe arrivare a che « ... quando sorgeranno controversie tra due filosofi,
non sarà più necessaria una discussione, come non lo è tra due calcolatori. Sarà sufficiente, infatti,
che essi prendano in mano le penne, si siedano di fronte agli abachi e si dicano l'un l'altro:
Calcolemus!». La logica non è mai dogmatica. La sua preoccupazione per il rigore e l'esattezza nella formulazione
delle proposizioni enunciative, la dettagliata catalogazione dei criteri decisionali che permettono di
dedurre la verità o la falsità di una proposizione complessa, le regole per passare da un gruppo di
proposizioni all'interno di una categoria ad un altro o da una categoria all'altra, obbediscono solo
all'esigenza di descrivere chiaramente le leggi del pensiero che sono all'origine del ragionamento
deduttivo. Un sistema di logica, come scrive Rudolph Carnap, «non è una teoria, cioè un sistema di
affermazioni su oggetti determinati, ma una lingua, cioè un sistema di segni e di regole del loro
uso». Pur muovendo dal linguaggio comune, il logico lo formalizza sacrificando perspicuità e l'obiettività
del linguaggio comune, rivelatisi fallaci, ad una più autentica obiettività e chiarezza, attraverso il
suo rendere esplicite tutte le regole implicite e le regole inespresse contenute nel linguaggio
quotidiano. La notazione logica non ammette sottintesi, non tiene conto delle distinzioni retoriche e di quelle
sfumature ed eleganze del linguaggio che possono anche fornire qualche informazione accessoria
su ciò che pensa chi parla, ma sono del tutto inutili ai fini del riconoscimento della verità o falsità
dei contenuti di un discorso. Queste considerazioni mi inducono a pensare che, nella misura in cui la logica è una scienza che si
dà per scopo quello della ricerca della verità e il metodo matematico è idoneo a favorire questa
ricerca assicurando il massimo livello concepibile di rigore e di obiettività, una diffusione della
cultura logico-matematica non può non apparire come potenziale portatrice di effetti positivi e di
una parallela e contemporanea espansione di una mentalità libertaria.
Gianfranco Bertoli (carcere di Porto Azzurro)
Ma la logica non comprende tutto il mondo
Caro Gianfranco, solo un appunto alla tua lettera che ho trovato interessante e stimolante. Le nostre posizioni
divergono abbastanza, ma non mi preoccupa. Quello che mi preme è piuttosto spiegare meglio il
mio pensiero che forse è stato frainteso proprio su un punto che ritengo importante. Critichi la mia
posizione sui possibili sviluppi di massa del linguaggio informatico, linguaggio astratto, logico-metematico, altamente strutturato: se fosse questa la mia posizione, anch'io avrei qualcosa da dire a
me stessa. Ciò che forse non sono riuscita a spiegare è la mia paura che il linguaggio informatico non solo si
sviluppi, ma escluda tutti gli altri tipi di linguaggio ed anche altri modi di rapportarsi con il mondo.
Non voglio certo ricominciare un lungo discorso sui pericoli del linguaggio, esistono già delle
bellissime pagine di Orwell sulla neolingua. Non credo che il linguaggio sia un codice neutro: esso
influenza il nostro pensiero, le nostre idee, la nostra possibilità di immaginare. «La logica», dici,
«non è mai dogmatica», ma ridurre tutto alla sola logica mi sembra altamente dogmatico e ben poco
libertario, se non altro perché elimina le differenze, le possibilità di scelta. Ecco, il mio problema è
questo, se vuoi: un problema di riduzione piuttosto che di sviluppo. Forse è solo paura, ma i segnali
che giungono, specie dall'America, non sono molto rassicuranti. La logica, per quanto rigorosa, non
comprende tutto il mondo, è un modo di porsi di fronte ad esso ed ha diritto di esistere come molti
altri modi. Io non saprei che farmene di un mondo, ancorché libertario, che non sapesse più produrre o
comprendere sonetti o non sapesse commuoversi fino alle lacrime di fronte ad un tramonto, anche
se non è né logico, né razionale.
Maria Teresa Romiti (Milano)
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