Rivista Anarchica Online
L'autonomia impossibile
di Laura Terri
Anche i giornali si sono ricordati che esiste la Sardegna. E non, come al solito, per farle fare da
splendido sfondo alle cronachette sessual-balneari dei più o meno giovani e aitanti figli del jet-set o
per ricordare che è «terra di banditi». E' vero che per poter assurgere all'onore della cronache
«serie» ha dovuto quasi mettere in crisi il governo, ma finalmente ce l'ha fatta. . All'ombra dei soliti giochi e balletti tra PSI e DC, coppia sempre in odore di corna, si è fatto sentire
un vento molto più pericoloso. Spira aria di fronda dall'isola, le istanze autonomistiche hanno
ripreso fiato. Non dobbiamo pensare ad un movimento in grado di spaventare il governo,
nonostante i sardi abbiano sempre tentato di difendere la propria diversità, la loro cultura: quello
che oggi preoccupa Roma è più l'ambito politico. Il Partito Sardo d'Azione sembra tentare la
manovra che già ha avuto successo in Alto Adige, la rinegoziazione della propria autonomia con il
governo centrale. Una negoziazione che proprio per l'ambito dal quale nasce può essere solo
parziale, può coprire solo le istituzioni: richiesta ufficiale di bilinguismo, rinegoziazione delle
scelte economiche. Insomma la ricerca della propria fetta di torta fino ad ora finita tranquillamente
nelle casse centrali. Una idea che sembra accomunare diverse etnie oggi, in Italia. A parte l'Alto Adige, in cui la Volkspartei è maestra in questa tecnica, anche in Val d'Aosta si
stanno riconsiderando i conti con il governo centrale. E' un movimento, comunque solo di partito,
che non vuole mettere in discussione le basi della politica dello stato italiano. Basti pensare alle
assicurazioni del sardista Melis, presidente designato della giunta sarda, sul destino delle basi
NATO. Ma rimane comunque importante considerare la voglia di autonomia che sta alla base di
queste scelte. Una voglia sacrosanta, a mio avviso, ma fatalmente destinata alla sconfitta se portata
avanti su questo piano. La difesa delle differenti etnie, l'autonomia delle culture diverse, ma anche il diritto alla diversità
del singolo, sono concezioni completamente aldifuori della logica dello stato. La differenza, la
diversità possono vivere solo nell'ambito del molteplice. Cioè, prendendo a spunto un famoso
concetto dell'antropologia di Clastres: lo stato è l'uno, l'accentratore per definizione. L'unica scelta
possibile per una società autoritaria e gerarchica è l'accentramento, il centro come punto di uscita e
di ritorno. E' una scelta che non può limitarsi ad un campo, ma deve coprire tutto l'ambito sociale e
culturale perché solo formando l'immaginario collettivo sulla necessità dell'uno, sul centro come
unica realtà, si acquista il consenso e con quello la stabilità necessaria per il governo. Lo stato quindi non può tollerare la diversità in tutte le sue forme. E men che meno può tollerare
che sopravvivano culture diverse nel suo ambito. Se infatti il diverso è legato all'individuo che
porta la diversità (ed è quindi cancellabile), le culture diverse creano un immaginario collettivo che
le forma e dal quale traggono forza e vitalità. Costituiscono perciò un pericolo continuo di rottura
che va eliminato, anche con il genocidio. Una deve essere la lingua, una la cultura, una la storia,
uno il pensiero, uno lo stato. Non deve esserci nemmeno la possibilità di pensare altro. Le culture
diverse possono essere accettate solo dopo morte, folklore cristallizzato in teche, collezione posta a
testimonianza della vittoria dello stato. E' stato così per la cultura occitana in Francia, per le culture
gaeliche in Gran Bretagna, per le diverse etnie in URSS, per pellerossa e indios in America. Tutte
culture cancellate con l'etnocidio o il genocidio, rimaste solo come tristi rievocazioni da spettacoli
per turisti. Per la cultura minoritaria, d'altra parte, l'unica salvezza è il molteplice. Cioè la scelta, così ben
conosciuta dalle tribù amerindie, dell'esaltazione della differenza, della diversità dell'altro. Una
scelta che non può prescindere dalla scelta del non-dominio, di un ambito libertario che è l'unico in
grado di perservare la loro autonomia. Purtroppo, spesso queste culture sono in genere culture
autoritarie inserite nella logica del dominio oppure, troppo sradicate, ricercano la soluzione della
mediazione politica. Ma in questa logica lo stato è troppo potente. E' destinato a vincere. Alla cultura costretta ed assediata rimane solo l'arroccamento su posizioni sempre più conservatrici,
sperando che il mantenimento di regole e costumi possa salvare ciò che invece inesorabilmente si
sgretola. Solo il cambiamento, la capacità di evolversi mutando continuamente se stessa rende una
cultura vitale. Una cultura arroccata è una cultura in agonia, mummificata, pronta per la teca della
collezione. Paradossalmente l'unica scelta rimane il cambiamento, scegliere il molteplice con la sua
istanza libertaria, rivitalizzando la cultura. Una scelta che non dà garanzia di vittoria, ma certo
qualche chance in più. Rifondare la cultura in cento, mille autonomie federantisi liberamente, per
una società contro lo stato. E' questa la «vecchia» concezione del federalismo anarchico che si ritrova già nei pensatori
anarchici dello scorso secolo (Bakunin, Kropotkin, ecc.) e che costituisce uno dei filoni più
significativi e stimolanti del patrimonio teorico e storico dell'anarchismo. Un'idea «vecchia»,
dunque. Ma, tra tanto revival, forse varrebbe la pena di considerarla con maggior attenzione.
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