Rivista Anarchica Online
La nozione di forza e l'origine dello stato
di Roberto Marchionatti
L'antropologia politica tradizionale ha interpretato le istituzioni primitive in rapporto con lo schema
occidentale di organizzazione politica, lo stato, modello compiuto e perfetto. In questa relazione, le
istituzioni selvagge venivano lette come «mancanti di», «embrioni di», «pre-organizzazioni»,
sistemi proto-politici. L'opera di Pierre Clastres ha rovescitao questa prospettiva: gli istituti selvaggi, lungi dall'essere
mancanti o difettosi rispetto al modello statuale, sono meccanismi concepiti per impedire
l'emergere dello stato. «Evento che oltrepassava l'ambito propriamente etnologico», la
pubblicazione nel 1974 di La société contre l'Etat affrontava «una di quelle questioni che
risvegliano vecchi fantasmi aggirantisi per il mondo degli uomini: il fantasma di una società senza
potere trascendente, senza apparato statale che si opponga alla vita comunitaria»: così si esprime
Josè Gil, docente di filosofia all'Università di Lisbona, in un suo recente saggio dal titolo
Un'antropologia delle forze. Dalle società senza stato alle società statuali (Einaudi 1983). Dopo i silenzi, le critiche sovente malevole, le mezze ammissioni, che hanno circondato l'opera di
Clastres, il saggio di Gil sottolinea la crucialità dell'impostazione clastriana, che supera gli angusti
limiti di una singola disciplina e impone un «problema del mondo degli uomini»: perché esiste lo
stato? Perché questo evento? Perché il passaggio da società che non lo conoscevano (perché non lo
«volevano»), ma non per questo incomplete, a società statuali? Tutta l'opera antropologica di
Clastres, dai primi saggi al fondamentale La philosophie de la chefferie indienne del 1962 a
Liberté, Malencontre, Innomable (a proposito di La Boétie) del 1973, all'ultimo saggio, soltanto in
parte compiuto, sulla guerra nelle società primitive, è una riflessione su questi temi capitali: Le società primitive sono società senza stato perché lo stato vi è impossibile. Eppure tutti i popoli
civilizzati sono stati dapprima selvaggi: che cosa ha fatto sì che lo stato cessasse di essere
impossibile? Perché i popoli cessarono di essere selvaggi? Quale formidabile avvenimento, quale
rivoluzione lasciarono sorgere la figura del despota, di colui che comanda a coloro che
obbediscono? Da dove viene il potere politico? Mistero, forse provvisorio, dell'origine (Clastres
1974, pp. 150-51). Gil affronta lo stesso problema nel tentativo di svelare quel che a Clastres appare come mistero,
anche se «forse provvisorio», dell'origine dello stato. In costante riferimento all'opera di Clastres,
Gil presenta nel suo stimolante contributo una nozione su cui si fonda la sua argomentazione:
quella di forza. La questione da cui egli parte, già posta da Clastres, ma secondo Gil risolta in modo
insoddisfacente, è: «perché il politico? perché il politico anziché niente?» (p. 13). Per rispondervi
egli si rivolge ai ruoli «positivi» della chefferie (termine francese simile all'inglese leadership, che
indica «il ruolo dì comando» - n.d.r.) indiana. Centrale è il fatto che il capo ha un'azione pubblica,
generale: «opera per il 'bene comune' e si pone dal punto di vista della comunità nel suo insieme»
(p. 13). Fra la società e il capo si stabilisce uno scambio o contratto: non contratto di obbedienza
della società al capo in cambio dei benefici (beni, doni, parole) che egli procura alla società, ma
«consacrazione del prestigio». «In cambio di quanto deve fare per la comunità (compiti gravosi,
che non gli lasciano requie), egli guadagna del prestigio. Ecco allora quale scambio avviene tra il
capo e la sua comunità: beni e donne contro prestigio (forze)» (p. 16). La sfera del politico è
dunque quella in cui è lecito accrescere il prestigio. Ma il prestigio deve restare tale, non tradursi in potere reale. Il meccanismo di autoregolazione del
potere, che impedisce il crearsi di disuguaglianze, non sta nella separazione della sfera politica
rispetto alla società quale si manifesta nella rottura del circuito degli scambi (ipotesi di Clastres),
ma si pone secondo Gil ad un altro livello, quello dello scambio beni-prestigio. Così scrive Gil: Più beni egli dona, più bene fa alla comunità, e più è povero, più merita la carica di capo ... Più
merita quella carica, più deve accrescere il desiderio di prestigio, il quale deve potersi sviluppare
nell'esercizio delle sue funzioni, poiché lo statuto di capo permette (e contribuisce a) l'aumento del
prestigio. Ma dato che le sue funzioni di capo lo privano dei mezzi per riprodurre come per
l'innanzi il suo prestigio (quello stesso prestigio che lo ha portato al potere), egli si vede ridotto,
costretto a mantenere, a conservare il semplice sovraprestigio concessogli dalla sua carica. Il
capo è intrappolato nell'illusione politica, che gli fa credere di poter acquistare sempre maggior
prestigio (come se adempisse a un compito particolare in base a una competenza specifica)
svolgendo una funzione concepita per sottrargli quella capacità medesima. E' quindi all'interno
dello scambio del sovrappiù di forze (prestigio) contro il sovrappiù di beni, che avviene
l'autoregolazione diretta ad impedire l'accumulazione del potere: e la si comprende solo grazie
all'illusione di cui il capo è vittima. Illusione che si accompagna a quest'altro aspetto: continuando
a meritare la propria carica, il capo ripete i motivi per cui è diventato tale, e crede così di lavorare
al suo prestigio; ma adesso si tratta di un altro riconoscimento e di un altro prestigio. In altri
termini: più egli lavora a salvaguardare il prestigio acquisito (che è quello della sua competenza e
il sovrappiù che gli proviene dala sua carica), e più si aliena la possibilità di aggiungere nuovo
prestigio, legato a una competenza particolare, e che risulti da un riconoscimento di lui in quanto
individuo fra gli individui. Ma egli non è un individuo, ecco la sua sventura: è una funzione» (p.
17-18). Così spiegata la natura del politico, Gil affronta la relazione tra politico e magico religioso: perché
il politico si appoggia tanto spesso al magico-religioso? Perché, è la risposta di Gil, entrambe le
istanze contribuiscono alla coesione del gruppo. Quella magico-religiosa costituisce un sistema di
regolazione dell'abbondanza: «una delle funzioni degli dei è di garantire la fertilità e l'abbondanza
grazie a un sistema di scambi ... che mette capo alla regolazione dei sovrappiù prodotti dalle
diverse unità sociali. I rituali sacrificali, il potlatch, i consumi dei beni al di fuori delle feste e delle
cerimonie, hanno per effetto di 'bruciare' l'eccesso di ricchezza che potrebbe accumularsi nelle mani
di certi individui o gruppi, a detrimento degli altri» (p. 25). L'istanza politica al contrario costituisce un sistema regolatore della penuria, in primo luogo
economica: la generosità del capo regola la distribuzione dei beni. Ma anche ad altri livelli si può
parlare, secondo Gil, di penuria: così il compito del capo di far da arbitro nelle liti può essere
interpretato come intervento per eliminare le carenze nell'autoregolazione delle solidarietà mediante
gli scambi. Le due istanze appaiono così come due grandi trasformatori: la prima di beni in forze, la
seconda di forze in beni. Il potere, o piuttosto la potenza e la possibilità di potere, scrive Gil,
attraversano tutta la società: «quest'ultima secerne necessariamente degli eccessi, venendosi così a
trovare in carenza di potere: di qui trae origine la dinamica sociale»: per porre riparo ai pericoli rappresentati da quell'eccesso e da quella carenza, sono state
elaborate delle risposte appropriate grazie ai dispositivi politico e magico-religioso. Se questi si
assomigliano tanto in certi aspetti del loro funzionamento, è perché 'lavorano' entrambi a uno
stesso oggetto: il potere, nelle sue due principali componenti: i beni e le forze (p. 28). Il concetto di forza serve poi a Gil per descrivere il meccanismo che ha per esso lo sconvolgimento
del funzionamento sociale primitivo, e originare lo stato. Nelle società selvagge non vi è mai accumulazione di forze a vantaggio di qualcuno. Gil cita il caso
della giustizia: nelle società selvagge i conflitti vengono risolti con riti sacrificali e doni agli dei, o
«con dispositivi giudiziari concepiti in modo che l'eccesso di forze che ha scatenato il conflitto
ritorni alla vittima» (p. 36), senza che vi sia accumulazione di forze a vantaggio di stregoni o
arbitri. L'inverso avviene nella giustizia di stato, dove il sovrappiù di forze è accaparrato dall'apparato: ci si
sottomette al verdetto dei giudici, e lo stato ha la facoltà di assegnare punizioni, si pagano tasse ai
tribunali: «sottomissione, accaparramento di forze, tributi versati: lo stato sembra occupare il posto
che ha l'istanza magico-religiosa nelle società senza stato» (p. 37). Nella comunità selvaggia il
politico è impossibilitato a sviluppare le forze che la società gli dà: i meccanismi di contropotere li
bloccano. Le forze che il capo riceve si convertono integralmente in lavoro per la comunità. Nelle
società statuali lo stato riceve delle forze, ma utilizza parte di tale potenza per far lavorare la
comunità: «essendovi un dispositivo di potere senza contropartita, la trasformazione integrale delle
forze non avviene più. Il sovrappiù di forze prende un'altra destinazione (p. 37). Ma come è avvenuto ciò? L'ipotesi di Gil è la seguente: Se si considera che l'origine dello Stato ha una parte del suo mistero in quella sorta di
ribaltamento del magico-religioso nel politico che riempie la forma vuota di quest'ultimo, si può
supporre che l'unificazione dei nuclei di forze (magico-religiose) e altre contribuisce
all'inceppamento del primitivo sistema di contropotere; che, per ciò stesso, viene ad aprirsi la
strada dell'accumulazione di un sovrappiù di forze e di beni all'interno dello Stato» (p. 37-38). Per comprendere questo processo Gil fa ricorso al concetto di «corpo dello stato». Nei rituali di
guarigione il corpo fisico è una sorta di operatore dell'unificazione delle forze sovrannaturali. La
guarigione stessa, scrive Gil, non è che l'instaurazione di un rapporto tra tutte queste potenze per
mezzo del corpo: nel rituale terapeutico c'è, si potrebbe dire, «un' accumulazione eccessiva di forze
di un solo corpo»; la collettività, partecipandovi, si sottomette alle potenze che essa stessa invoca e
onora: «i suoi gesti, i suoi canti e danze costiuiscono essi pure atti di soggezione nei confronti di
coloro che detengono le forze vitali che presiedono alla salute e alla fecondità» (p. 38). Il corpo del re è come il corpo del paziente sottoposto al rituale terapeutico: anche in lui sono
concentrate e unificate le potenze magico-politiche. Ma anziché essere un corpo malato da guarire
esso è un corpo guaritore, che dà vita alla terra e assicura la prosperità della comunità. Il corpo del re è un modello per pensare lo stato, dice Gil, gran corpo che contiene le potenze
capaci di operare sul mondo e sugli uomini. Il corpo appare così come quel dispositivo che
permette al capo di accumulare forze senza restituirle alla comunità, di trasformare prestigio in
potere. L'atto di soggezione grazie al quale si instaura il potere dello stato ripete quello della
sottomissione degli dei compiuto dalla comunità nel rituale della guarigione. (pag.40) Ma nello stato tale rituale della guarigione non si realizza mai, è sempre in via di realizzazione: e
ciò rende necessario il contributo permanente della comunità. Come scriveva Clastres, il flusso del
debito si inverte: non è più il capo in debito permanente con la comùnità, ma la comunità col capo,
che si fa stato. Secondo Gil, l'aver preso in considerazione la nozione di forza, fa sì che si possano considerare
questioni da Clastres trascurate, o indirizzare quell'analisi lungo direzioni diverse: la nozione di
forza chiarirebbe i meccanismi e le dinamiche sociali. Infatti, secondo Gil, il pensiero di Clastres,
pur avendo prodotto «quanto esso annunziava: la delucidazione del passaggio dalle società senza
stato alle società statuali» (p.4), ne ha oscurato, con certe sue «categorizzazioni nette», molti
aspetti. L'analisi dei dispositivi di contropotere sembra in particolare a Gil difettosa: se la sfera del
potere è nettamente separata dalla comunità, come Clastres suggerisce, il desiderio di potere dei
capi sembrerebbe incoerente, e la possibilità dell'emergere di uno stato rimarrebbe oscura. L'analisi di Gil, logicamente sottile e stimolante, in alcuni punti lascia però perplessi: in particolare
nell'accusa di incoerenza a Clastres. Su questo punto dissentiamo da Gil. Se si riflette brevemente
su un fatto fondamentale della comunità primitiva: le relazioni che essa intrattiene con l'esterno,
risulterà evidente l'infondatezza dell'accusa. La società selvaggia, autosufficiente sul piano economico e politicamente indipendente, possiede,
come ha rilevato Clastres, due proprietà sociologiche che rendono intelligibile il suo modo d'essere
sociale: la comunità selvaggia è a un tempo «unità e totalità», unità perché «si mantiene ovunque
omogenea a se stessa, impedendo il prodursi delle disuguaglianze, attraverso il rifiuto della
stratificazione per censi e meriti», totalità perché essa «è al suo interno un insieme autonomo
autosufficiente e completo, attento a prescrivere e a tramandare la propria autonomia». In questa
situazione, le altre comunità vicine, «gli altri», sono lo specchio che rimanda alla comunità
l'immagine della propria unità-totalità. Guerra, alleanze, scambio, sono i modi del rapporto con gli
altri. In queste relazioni il ruolo del capo è fondamentale: esso è infatti l'immagine della società
all'esterno. I grandi scambi intertribali melanesiani (il kula) descritti da Malinowski, il potlàc
nordamericano, o quell'espressione tipica della società primitiva che è la guerra, hanno per attori
principali, in alcuni casi quasi esclusivi, i capi. Nello scambio di doni ad esempio, dove il fine
sociale è l'alleanza, il fine individuale del capo che scambia è eccellere. Ecco dunque che il
meccanismo che a Gil sembra incoerente non lo è più: il capo soddisfa infatti il proprio desiderio di
potere soprattutto al di fuori della società. In altri termini ci sembra che Gil non distingua
adeguatamente la dimensione interna da quella esterna della comunità selvaggia - e di conseguenza
non veda il ruolo esterno del capo. Forse Clastres, come scrive Gil, si è lasciato andare ad affermazioni fin troppo nette, ma ciò è
comprensibile in un pensiero ricco e «in movimento» come il suo. In realtà Clastres, non vuol dare
una chiave logica del passaggio dalle società senza stato alle società statuali, come tenta invece Gil.
Egli si ferma prima, conscio dei tranelli della logica, e dei concetti «capaci» di spiegazioni totali,
conscio delle mille sfumature della realtà che nessun modello riesce a racchiudere, conscio che
nella spiegazione del dramma il mistero è una componente forse ineliminabile.
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