Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 122
ottobre 1984


Rivista Anarchica Online

La nozione di forza e l'origine dello stato
di Roberto Marchionatti

L'antropologia politica tradizionale ha interpretato le istituzioni primitive in rapporto con lo schema occidentale di organizzazione politica, lo stato, modello compiuto e perfetto. In questa relazione, le istituzioni selvagge venivano lette come «mancanti di», «embrioni di», «pre-organizzazioni», sistemi proto-politici.
L'opera di Pierre Clastres ha rovescitao questa prospettiva: gli istituti selvaggi, lungi dall'essere mancanti o difettosi rispetto al modello statuale, sono meccanismi concepiti per impedire l'emergere dello stato. «Evento che oltrepassava l'ambito propriamente etnologico», la pubblicazione nel 1974 di La société contre l'Etat affrontava «una di quelle questioni che risvegliano vecchi fantasmi aggirantisi per il mondo degli uomini: il fantasma di una società senza potere trascendente, senza apparato statale che si opponga alla vita comunitaria»: così si esprime Josè Gil, docente di filosofia all'Università di Lisbona, in un suo recente saggio dal titolo Un'antropologia delle forze. Dalle società senza stato alle società statuali (Einaudi 1983).
Dopo i silenzi, le critiche sovente malevole, le mezze ammissioni, che hanno circondato l'opera di Clastres, il saggio di Gil sottolinea la crucialità dell'impostazione clastriana, che supera gli angusti limiti di una singola disciplina e impone un «problema del mondo degli uomini»: perché esiste lo stato? Perché questo evento? Perché il passaggio da società che non lo conoscevano (perché non lo «volevano»), ma non per questo incomplete, a società statuali? Tutta l'opera antropologica di Clastres, dai primi saggi al fondamentale La philosophie de la chefferie indienne del 1962 a Liberté, Malencontre, Innomable (a proposito di La Boétie) del 1973, all'ultimo saggio, soltanto in parte compiuto, sulla guerra nelle società primitive, è una riflessione su questi temi capitali:
Le società primitive sono società senza stato perché lo stato vi è impossibile. Eppure tutti i popoli civilizzati sono stati dapprima selvaggi: che cosa ha fatto sì che lo stato cessasse di essere impossibile? Perché i popoli cessarono di essere selvaggi? Quale formidabile avvenimento, quale rivoluzione lasciarono sorgere la figura del despota, di colui che comanda a coloro che obbediscono? Da dove viene il potere politico? Mistero, forse provvisorio, dell'origine (Clastres 1974, pp. 150-51).
Gil affronta lo stesso problema nel tentativo di svelare quel che a Clastres appare come mistero, anche se «forse provvisorio», dell'origine dello stato. In costante riferimento all'opera di Clastres, Gil presenta nel suo stimolante contributo una nozione su cui si fonda la sua argomentazione: quella di forza.
La questione da cui egli parte, già posta da Clastres, ma secondo Gil risolta in modo insoddisfacente, è: «perché il politico? perché il politico anziché niente?» (p. 13). Per rispondervi egli si rivolge ai ruoli «positivi» della chefferie (termine francese simile all'inglese leadership, che indica «il ruolo dì comando» - n.d.r.) indiana. Centrale è il fatto che il capo ha un'azione pubblica, generale: «opera per il 'bene comune' e si pone dal punto di vista della comunità nel suo insieme» (p. 13). Fra la società e il capo si stabilisce uno scambio o contratto: non contratto di obbedienza della società al capo in cambio dei benefici (beni, doni, parole) che egli procura alla società, ma «consacrazione del prestigio». «In cambio di quanto deve fare per la comunità (compiti gravosi, che non gli lasciano requie), egli guadagna del prestigio. Ecco allora quale scambio avviene tra il capo e la sua comunità: beni e donne contro prestigio (forze)» (p. 16). La sfera del politico è dunque quella in cui è lecito accrescere il prestigio.
Ma il prestigio deve restare tale, non tradursi in potere reale. Il meccanismo di autoregolazione del potere, che impedisce il crearsi di disuguaglianze, non sta nella separazione della sfera politica rispetto alla società quale si manifesta nella rottura del circuito degli scambi (ipotesi di Clastres), ma si pone secondo Gil ad un altro livello, quello dello scambio beni-prestigio. Così scrive Gil:
Più beni egli dona, più bene fa alla comunità, e più è povero, più merita la carica di capo ... Più merita quella carica, più deve accrescere il desiderio di prestigio, il quale deve potersi sviluppare nell'esercizio delle sue funzioni, poiché lo statuto di capo permette (e contribuisce a) l'aumento del prestigio. Ma dato che le sue funzioni di capo lo privano dei mezzi per riprodurre come per l'innanzi il suo prestigio (quello stesso prestigio che lo ha portato al potere), egli si vede ridotto, costretto a mantenere, a conservare il semplice sovraprestigio concessogli dalla sua carica. Il capo è intrappolato nell'illusione politica, che gli fa credere di poter acquistare sempre maggior prestigio (come se adempisse a un compito particolare in base a una competenza specifica) svolgendo una funzione concepita per sottrargli quella capacità medesima. E' quindi all'interno dello scambio del sovrappiù di forze (prestigio) contro il sovrappiù di beni, che avviene l'autoregolazione diretta ad impedire l'accumulazione del potere: e la si comprende solo grazie all'illusione di cui il capo è vittima. Illusione che si accompagna a quest'altro aspetto: continuando a meritare la propria carica, il capo ripete i motivi per cui è diventato tale, e crede così di lavorare al suo prestigio; ma adesso si tratta di un altro riconoscimento e di un altro prestigio. In altri termini: più egli lavora a salvaguardare il prestigio acquisito (che è quello della sua competenza e il sovrappiù che gli proviene dala sua carica), e più si aliena la possibilità di aggiungere nuovo prestigio, legato a una competenza particolare, e che risulti da un riconoscimento di lui in quanto individuo fra gli individui. Ma egli non è un individuo, ecco la sua sventura: è una funzione» (p. 17-18).
Così spiegata la natura del politico, Gil affronta la relazione tra politico e magico religioso: perché il politico si appoggia tanto spesso al magico-religioso? Perché, è la risposta di Gil, entrambe le istanze contribuiscono alla coesione del gruppo. Quella magico-religiosa costituisce un sistema di regolazione dell'abbondanza: «una delle funzioni degli dei è di garantire la fertilità e l'abbondanza grazie a un sistema di scambi ... che mette capo alla regolazione dei sovrappiù prodotti dalle diverse unità sociali. I rituali sacrificali, il potlatch, i consumi dei beni al di fuori delle feste e delle cerimonie, hanno per effetto di 'bruciare' l'eccesso di ricchezza che potrebbe accumularsi nelle mani di certi individui o gruppi, a detrimento degli altri» (p. 25).
L'istanza politica al contrario costituisce un sistema regolatore della penuria, in primo luogo economica: la generosità del capo regola la distribuzione dei beni. Ma anche ad altri livelli si può parlare, secondo Gil, di penuria: così il compito del capo di far da arbitro nelle liti può essere interpretato come intervento per eliminare le carenze nell'autoregolazione delle solidarietà mediante gli scambi. Le due istanze appaiono così come due grandi trasformatori: la prima di beni in forze, la seconda di forze in beni. Il potere, o piuttosto la potenza e la possibilità di potere, scrive Gil, attraversano tutta la società: «quest'ultima secerne necessariamente degli eccessi, venendosi così a trovare in carenza di potere: di qui trae origine la dinamica sociale»:
per porre riparo ai pericoli rappresentati da quell'eccesso e da quella carenza, sono state elaborate delle risposte appropriate grazie ai dispositivi politico e magico-religioso. Se questi si assomigliano tanto in certi aspetti del loro funzionamento, è perché 'lavorano' entrambi a uno stesso oggetto: il potere, nelle sue due principali componenti: i beni e le forze (p. 28).
Il concetto di forza serve poi a Gil per descrivere il meccanismo che ha per esso lo sconvolgimento del funzionamento sociale primitivo, e originare lo stato.
Nelle società selvagge non vi è mai accumulazione di forze a vantaggio di qualcuno. Gil cita il caso della giustizia: nelle società selvagge i conflitti vengono risolti con riti sacrificali e doni agli dei, o «con dispositivi giudiziari concepiti in modo che l'eccesso di forze che ha scatenato il conflitto ritorni alla vittima» (p. 36), senza che vi sia accumulazione di forze a vantaggio di stregoni o arbitri.
L'inverso avviene nella giustizia di stato, dove il sovrappiù di forze è accaparrato dall'apparato: ci si sottomette al verdetto dei giudici, e lo stato ha la facoltà di assegnare punizioni, si pagano tasse ai tribunali: «sottomissione, accaparramento di forze, tributi versati: lo stato sembra occupare il posto che ha l'istanza magico-religiosa nelle società senza stato» (p. 37). Nella comunità selvaggia il politico è impossibilitato a sviluppare le forze che la società gli dà: i meccanismi di contropotere li bloccano. Le forze che il capo riceve si convertono integralmente in lavoro per la comunità. Nelle società statuali lo stato riceve delle forze, ma utilizza parte di tale potenza per far lavorare la comunità: «essendovi un dispositivo di potere senza contropartita, la trasformazione integrale delle forze non avviene più. Il sovrappiù di forze prende un'altra destinazione (p. 37).
Ma come è avvenuto ciò? L'ipotesi di Gil è la seguente:
Se si considera che l'origine dello Stato ha una parte del suo mistero in quella sorta di ribaltamento del magico-religioso nel politico che riempie la forma vuota di quest'ultimo, si può supporre che l'unificazione dei nuclei di forze (magico-religiose) e altre contribuisce all'inceppamento del primitivo sistema di contropotere; che, per ciò stesso, viene ad aprirsi la strada dell'accumulazione di un sovrappiù di forze e di beni all'interno dello Stato» (p. 37-38).
Per comprendere questo processo Gil fa ricorso al concetto di «corpo dello stato». Nei rituali di guarigione il corpo fisico è una sorta di operatore dell'unificazione delle forze sovrannaturali. La guarigione stessa, scrive Gil, non è che l'instaurazione di un rapporto tra tutte queste potenze per mezzo del corpo: nel rituale terapeutico c'è, si potrebbe dire, «un' accumulazione eccessiva di forze di un solo corpo»; la collettività, partecipandovi, si sottomette alle potenze che essa stessa invoca e onora: «i suoi gesti, i suoi canti e danze costiuiscono essi pure atti di soggezione nei confronti di coloro che detengono le forze vitali che presiedono alla salute e alla fecondità» (p. 38).
Il corpo del re è come il corpo del paziente sottoposto al rituale terapeutico: anche in lui sono concentrate e unificate le potenze magico-politiche. Ma anziché essere un corpo malato da guarire esso è un corpo guaritore, che dà vita alla terra e assicura la prosperità della comunità.
Il corpo del re è un modello per pensare lo stato, dice Gil, gran corpo che contiene le potenze capaci di operare sul mondo e sugli uomini. Il corpo appare così come quel dispositivo che permette al capo di accumulare forze senza restituirle alla comunità, di trasformare prestigio in potere.
L'atto di soggezione grazie al quale si instaura il potere dello stato ripete quello della sottomissione degli dei compiuto dalla comunità nel rituale della guarigione. (pag.40)
Ma nello stato tale rituale della guarigione non si realizza mai, è sempre in via di realizzazione: e ciò rende necessario il contributo permanente della comunità. Come scriveva Clastres, il flusso del debito si inverte: non è più il capo in debito permanente con la comùnità, ma la comunità col capo, che si fa stato.
Secondo Gil, l'aver preso in considerazione la nozione di forza, fa sì che si possano considerare questioni da Clastres trascurate, o indirizzare quell'analisi lungo direzioni diverse: la nozione di forza chiarirebbe i meccanismi e le dinamiche sociali. Infatti, secondo Gil, il pensiero di Clastres, pur avendo prodotto «quanto esso annunziava: la delucidazione del passaggio dalle società senza stato alle società statuali» (p.4), ne ha oscurato, con certe sue «categorizzazioni nette», molti aspetti. L'analisi dei dispositivi di contropotere sembra in particolare a Gil difettosa: se la sfera del potere è nettamente separata dalla comunità, come Clastres suggerisce, il desiderio di potere dei capi sembrerebbe incoerente, e la possibilità dell'emergere di uno stato rimarrebbe oscura.
L'analisi di Gil, logicamente sottile e stimolante, in alcuni punti lascia però perplessi: in particolare nell'accusa di incoerenza a Clastres. Su questo punto dissentiamo da Gil. Se si riflette brevemente su un fatto fondamentale della comunità primitiva: le relazioni che essa intrattiene con l'esterno, risulterà evidente l'infondatezza dell'accusa.
La società selvaggia, autosufficiente sul piano economico e politicamente indipendente, possiede, come ha rilevato Clastres, due proprietà sociologiche che rendono intelligibile il suo modo d'essere sociale: la comunità selvaggia è a un tempo «unità e totalità», unità perché «si mantiene ovunque omogenea a se stessa, impedendo il prodursi delle disuguaglianze, attraverso il rifiuto della stratificazione per censi e meriti», totalità perché essa «è al suo interno un insieme autonomo autosufficiente e completo, attento a prescrivere e a tramandare la propria autonomia». In questa situazione, le altre comunità vicine, «gli altri», sono lo specchio che rimanda alla comunità l'immagine della propria unità-totalità. Guerra, alleanze, scambio, sono i modi del rapporto con gli altri. In queste relazioni il ruolo del capo è fondamentale: esso è infatti l'immagine della società all'esterno. I grandi scambi intertribali melanesiani (il kula) descritti da Malinowski, il potlàc nordamericano, o quell'espressione tipica della società primitiva che è la guerra, hanno per attori principali, in alcuni casi quasi esclusivi, i capi. Nello scambio di doni ad esempio, dove il fine sociale è l'alleanza, il fine individuale del capo che scambia è eccellere. Ecco dunque che il meccanismo che a Gil sembra incoerente non lo è più: il capo soddisfa infatti il proprio desiderio di potere soprattutto al di fuori della società. In altri termini ci sembra che Gil non distingua adeguatamente la dimensione interna da quella esterna della comunità selvaggia - e di conseguenza non veda il ruolo esterno del capo.
Forse Clastres, come scrive Gil, si è lasciato andare ad affermazioni fin troppo nette, ma ciò è comprensibile in un pensiero ricco e «in movimento» come il suo. In realtà Clastres, non vuol dare una chiave logica del passaggio dalle società senza stato alle società statuali, come tenta invece Gil. Egli si ferma prima, conscio dei tranelli della logica, e dei concetti «capaci» di spiegazioni totali, conscio delle mille sfumature della realtà che nessun modello riesce a racchiudere, conscio che nella spiegazione del dramma il mistero è una componente forse ineliminabile.