Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 122
ottobre 1984


Rivista Anarchica Online

Il processo alle idee
di Pino Bertelli

Dopo aver passato in rassegna l'atteggiamento della cinematografia USA degli anni '70 di fronte alla classe operaia, agli sfruttati ed agli emarginati (A muso duro, «A» 120), Pino Bertelli si occupa ora prevalentemente dei films prodotti oltreoceano negli ultimi anni (ma inizia a ritroso da Charlot ...). La critica cinematografica ha sempre suscitato vivaci dibattiti tra i compagni e in genere i lettori. E Bertelli non fa eccezione. Questo suo saggio ha suscitato perplessità, critiche e dibattito già in seno al nostro collettivo redazionale. Alcuni hanno evidenziato che la chiave di lettura utilizzata da Bertelli appiattisce di fatto, in un giudizio quasi indistintamente negativo, film e registi tra loro molto differenti: un po' come quegli occhiali da sole molto scuri che girano tutti i colori della giornata sui diversi toni del bruno. Altri invece sottolineano l'importanza di questa sua «messa a nudo» di una cinematografia che non è solo una fabbrica di sogni, ma un vero e proprio strumento di manipolazione di massa (conscia o inconscia, poco importa). Chi poi ha trovato il film tanto amato ed apprezzato sul «libro nero» se l'è naturalmente presa. E la discussione è andata avanti. Ciò che ci preme sottolineare è un fatto, lampante ma spesso taciuto. Per quanto si cerchi di motivare le proprie opinioni suffragandole con analisi di carattere estetico, storico, ideologico, antropologico, sociologico, ecc., alla fin fine la critica cinematografica rimane innanzittutto un fatto personale. De gustibus non est disputandum. O forse, disputandissimum est.

Marx è morto. Gronda di sangue la storia. La battaglia delle idee nel cinema americano degli anni '80 è impacchettata in un immaginario sociale standardizzato dove la tolleranza e la catastrofe sono assunti come il dono e il luogo di una collettività declassata, razionalizzata in un reale che è repressione e terrore contro quelle minoranze che invitano i soggetti della trasformazione al salto dal regno della libertà obbligatoria a quello della liberazione dell'uomo sfruttato da un altro uomo.
I prodotti della «nuova» Hollywood confezionano il quotidiano degli oppressi in modelli di vita che cementano il mercato dei sogni con l'idealizzazione di «una società relativamente confortevole, metà società del benessere e metà caserma, in cui la popolazione diventa passiva, indifferente (...), in cui l'uomo diventa consumatore, anch'egli confezionato in serie come i prodotti, i divertimenti, i valori che assorbe» (1).

L'altra guancia di Charlot
In passato, l'industria hollywoodiana del conforto e dell'accecamento ha trattato la realtà degli offesi in modo approssimativo, teso più a figurare lo squallore del proletariato (o della giungla suburbana) che a disvelare i mercanti di ideologie, i fabbricatori di sogni di massa come depositari delle dottrine ufficiali, delle molteplicità ideologiche che investono il senso comune: «il senso comune come il depositario di tutte le forme del sapere scientifico degradato» (2).
Appena uscito dall'infanzia muta il cinema americano traccia sullo schermo la faccia pulita del proletariato domestico. L'ebetismo della classe operaia è subito oggetto delle attenzioni filistee, moralistiche di Charles S. Chaplin, il quale non trova di meglio che aprire Tempi moderni (Modern times, 1936) con una sequenza incrociata che fonde un gregge di pecore con gli operai che escono dalla metropolitana per entrare in fabbrica.
Il qualunquismo come filosofia di vita fionda dal nucleo strutturale intorno al quale Chaplin ha costruito la sua marionetta. In Tempi moderni il candido vagabondo raccoglie una bandiera per terra, si trova per caso alla testa di un corteo di scioperanti e finisce in prigione. Qui i detenuti organizzano l'evasione, Charlot si schiera con le guardie del carcere che sventano la fuga.
La macchina da presa di Chaplin si sofferma sui cattivi soggetti. Le facce dei galeotti sono pesantemente truccate, i cattivi strisciano a ridosso dei muri, nell'ombra, infidi, portano addosso le stimmate della colpa. I loro guardiani invece sono fotografati in un pallore chiaro, bonario, sciocchi ma innocui. Onesti padri di famiglia!
Qui come ne Il pellegrino (The pilgrim, 1923) Chaplin invita i bastonati di tutto il mondo a porgere l'altra guancia. Charlot evade di galera, sotto le spoglie di un pastore protestante incontra l'amore e la retta via. Si batte poi contro un ladro, che è un vecchio compagno di cella, recupera il bottino e consegna l'amico allo sceriffo. Charlot è riconosciuto come evaso. Il tutore dell'ordine lo accompagna al confine col Messico e per la collaborazione che gli ha data lo premia con la libertà. Oltre il confine, gli spari della rivoluzione fanno tremare i baffetti di Charlot che (come è suo costume quando la terra scotta) scappa sulla linea del confine, con un piede negli Stati Uniti e uno in Messico.
Ma l'apoteosi chapliniana del culto della tolleranza come specchio di una società libera dove tutto ciò che è razionale è anche la sola realtà da inghiottire, raggiunge il culmine nelle 9 bobine più ruffiane della storia del cinema, La febbre dell'oro (The gold rush, 1925). Ancora una volta, il maestro burattinaio Charlot rappresenta sullo schermo il «sogno americano» della democrazia aggressiva dove tutti sono re in un mondo di servi.
In La febbre dell'oro Chaplin draga le origini «sane» di un'America perduta nei miti e nei fumetti d'appendice. I cercatori d'oro diventano milionari, le puttane comprensive come madonne del conforto, i diversi sono sbaragliati da eventi naturali (valanghe di neve, case che crollano, ecc.) o uccisi dalle pistole della legge. L'amore assolve tutti dai propri peccati ed ognuno si trova proiettato in una realtà dilatata a sognare di non mangiare più scarpe.
La macchina dei sogni chapliniana non rimanda certo all'azione, alla conquista di un'identità propria, svincolata dalle apparenze, dalle mitologie del riflesso. Ancora resta sordo il grido furioso di Albert Libertad: «Non voglio barattare una parte dell'oggi con una parte fittizia del domani ... Mi burlo delle pensioni e dei paradisi sotto la cui speranza religioni e capitali tengono nella rassegnazione» (3) intere classi sociali.
I mercanti di sogni fabbricano sullo schermo una realtà domestica, «la materia del cinema è materia dei sogni (Nathanael West), ma anche i sogni sono messaggi confusi della vita di veglia e c'è verità persino nelle bugie» (4).
L'universo sociale del cinema di Chaplin si configura in uno schema logico che è solo il riflesso del problema. Certo, Chaplin lacera alcuni aspetti del dominio dell'uomo sull'uomo; deride i ricchi, la polizia, il lavoro, la proprietà privata, ecc.; quello che ammicca è però un mondo di beati coglioni che consumano la felicità nel braciere cattolico/marxista della speranza in un'esistenza nuova. Quello verso il quale fugge Charlot e nel quale si rifugia è il senso comune come terra fecondata nel concime del divenire: «anche le bugie più banali sono una forma di confessione; anche i sogni più deboli e più calcolati hanno segreti da rivelare» (5). L'orizzonte chapliniano si schiude a una poetica della restaurazione, non invita alla liberazione dei desideri, al rogo degli scopi della società incosciente. .
Charlot non distingue fra bisogni reali e quelli indotti. Il tenero vagabondo insegna solo a fuggire il problema. Scappare dalla realtà ingiusta. Evita sempre di combatterla. Ma si fugge sempre verso qualcosa, mai da qualcuno. E rendersi liberi significa mordere i fini della realtà imposta.

Lungo gli argini del conformismo
L'apologia della fuga e della redenzione chapliniana è stata la scuola più praticata del cinema hollywoodiano di ieri e di sempre. Tempi moderni è il «testo» sul quale modellare intere generazioni al mantenimento speculativo della democrazia armata.
Film di largo successo come Furore (The grapes of wrath, 1940) di John Ford; E' arrivata la felicità (Mr. Deeds goes town, 1936), L'eterna illusione (You can't take it with you, 1937), Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith goes to Washington, 1939), di Frank Capra; I migliori anni della nostra vita (The best years of our life, 1946) di William Wyler; Il sergente York (Sergeant York, 1941) di Howard Hawks; Fronte del porto (On the waterfront, 1954) di Elia Kazan spianano la via all'ondata dei film sul proletariato che la macchina hollywoodiana porterà sullo schermo.
«Le platee sono affamate di novità; ma di solito non sanno quello che vogliono, finché qualche imprenditore non glielo dà» (6). Non bastano film intelligenti come I dimenticati (Sullivan's travels, 1941) di Preston Sturges, Native land (1938-1942) di Paul Strand e Leo Hurwitz o Marty/vita di un timido (Marty, 1955) di Delbert Mann a rivendicare la storia degli oppressi come pratica di persecuzioni. Il pubblico si incanala nelle «albe fatali» e nel «trionfo della legge» come coscienza acquisita della società americana. Chi non si schiera dalla parte dei più forti è un criminale, un pazzo, un terrorista che incrina il patriottismo armato dell'ideologia dominante.
All'interno di logiche mercantili, di flussi mitologici dei mezzi di comunicazione di massa (stampa, radio, cinema, televisione) si è teso (nel tempo) a spegnere contraddizioni, scollamenti, rotture dello schema sociale; l'innocenza americana è la felicità che ognuno può raggiungere, è il modello relazionale nel quale si rispecchiano l'educazione, la psicologia, la razionalità e l'ideologia della morale generale.
Lungo gli argini del conformismo hollywoodiano sono confezionati abili prodotti dove lo sfondo sociale è costruito al servizio della «brillanza» della Star. Le storie di gente comune raccontate da Henry Hathaway, Quattordicesima ora (Fourteen hours, 1951), Don Siegel, Delitto nella strada (Crime in the streets, 1956), Thomas Carr, Dino (1957), un cinema nella sostanza di destra, si fondono e si confondono con le proposte di una realtà proletaria più democratica (o meno domestica) di Ralph Nelson, Una faccia piena di pugni (Requiem for a heavyweight, 1962), Martin Ritt, Nel fango della periferia (Edge of the city, 1956), Blake Edwards, I giorni del vino e delle rose (Days of wine and roses, 1962) che portano in avanti momenti di conflitto, individuazione del nemico e disvelamento degli apparati di dominio.
Sarà però John Cassavetes con Mariti (Husbands, 1970) e più ancora in Una moglie (A woman under the influence, 1974) a mostrare che la massa dei proletari «non ha libertà di scelta - se non la scelta tra la vendita della propria forza-lavoro e la fame permanente» (7). La faccia del proletariato sullo schermo si fa negli anni '70 sempre più astratta (8). Le super-produzioni di Francis Ford Coppola, Il padrino (The godfather, 1972), George Lucas, Guerre stellari (Star wars, 1977), Steven Spielberg, Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close encounters of the third kind, 1977) muovono alla cretinizzazione degli sguardi ed aprono il mercato perverso delle mitologie sulla società dell'abbondanza dove le utopie sul buon governo sono tutte realizzate.

«Mi piace l'odore del napalm»
Il processo alle idee nel cinema americano degli anni '80 è focalizzato in alcuni film/chiave della «nuova Hollywood». La classe operaia della democrazia più armata del mondo inonda le platee esterefatte di tanta gloria conquistata a colpi di cannone, con piogge di Napalm, grappoli di missili terra-aria a dimostrazione che imperialismo e tirannide si nascondono dietro le forche del liberalismo confezionato nei Patti/NATO e diffuso dai mercanti d'armi di tutto il mondo.
Il «Grande Fratello» di George Orwell sono i loro miti e i loro dei: cosche di politici, fronde di opinioni, masse abuliche, ammaestrate, grottescamente complici dell'ordine dominante si riversano nella democrazia sfasciata di «1984» dove gli slogans di partito continuano ad essere: «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l'ignoranza è forza» (9).
E Michel Cimino con il Cacciatore (The deer hunter, 1978) batte la via frusta del patriottismo proletario. Tre operai metallurgici della Pennsylvania che nel tempo libero amano sbronzarsi e ammazzare cervi, sono sbattuti dal caldo degli altiforni al fuoco del Vietnam. La loro vita sarà segnata per sempre dalla cattiveria degli «insetti rossi», dipinti come l'incombente pericolo invasore della democrazia americana. Uno morirà, un altro resterà invalido in una carrozzina e il terzo si consolerà tra le braccia della moglie di quello che muore. Il film si chiude su un banchetto funebre dove tutti cantano «Dio benedica l'America».
Una buona fotografia (di Vilmos Zsigmond) e l'interpretazione eccellente degli interpreti, Robert De Niro (Michael), John Cazale (Stan), John Savage (Steven), Cristopher Walken (Nick) e Meryl Streep (Linda) non bastano a far dimenticare un film dove il fantastico e il politico sono aggiustati sulle corde della propaganda più becera fabbricata sugli echi di violenza gratuita somministrati in tutto il cinema di Peckinpah e più ancora facendo propri gli indirizzi fascisti di John Wayne in Berretti verdi (The green berets, 1968).
Le sollecitazioni di ordine corporativo sono una costante nel cinema di Cimino e della «nuova parete» hollywoodiana. Ricordiamo che Cimino ha scritto la sceneggiatura di Una 44 magnum per l'ispettore Callaghan (Magnum force, 1973) diretto da Ted Post ed ha esordito alla regia con Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and lightfoot, 1974), entrambi interpretati da Clint Eastwood che incarna sullo schermo (e nella vita) la «faccia pulita» dell'America di destra arroccata nella nostalgia e nei miti del passato.
Ma è un suo amico, Francis Ford Coppola, il maestro cantore della «civiltà imperialista» americana esportata sugli schermi di tutto il mondo. Apocalypse now (1979) è un'oculata operazione commerciale costata 31 milioni e mezzo di dollari e ancora prima di essere film è già un prodotto fortemente pubblicizzato, venduto, anticipato e seguito da una politica promozionale cinematografica che si dirama attraverso programmi televisivi, libri, giornali, giocattoli, abiti, canzoni, ecc. fino a raggiungere le mense degli operai, i marciapiedi dei disoccupati, i sogni marci dei diseredati di ogni luogo.
Il film di Coppola diffonde l'apologia della catastrofe, sollecita il rispetto (cioè l 'asservimento) per l'autorità, tratteggia l'umiliazione degli ultimi abbandonati alla deriva delle proprie emozioni nel facsimile di un'esistenza infame degradata a spettacolo. L'immaginario di Apocalypse now mostra che «il cinema non è il nostro oppio, ma solo il nostro placebo; il nostro svago, il nostro sogno a occhi aperti. Se non esistesse, dovremmo inventarlo» (10).
Apocalypse now è un melodramma a forti tinte, mescola furbamente Walt Disney ai musicals di Fred Astaire e Gene Kelly, la letteratura della «beat generation» (Jack Kerouac, Gregory Corso, Allen Ginsberg, Lawrence Ferlinghetti) ai film anti-comunisti di Ernest Lubitsch, Ninotchka (1939), Henry King, Cielo di fuoco (Twelve o' clock high, 1950), Samuel Fuller, Corea in fiamme (The steel helmet, 1951); Coppola costruisce l'universalità di una psicologia politica misticheggiante, riafferma i significati di una «tolleranza repressi va» (Herbert Marcuse) dove tutto ciò che è reale è reale perché vive sulla tela e si catapulta nella testa della gente.
Così André Breton: «ogni errore nella comprensione dell'uomo porta a un errore nella comprensione del mondo e perciò è un ostacolo alla sua trasformazione» (11).
In Apocalypse now Coppola gioca sui deliri e le santificazioni dell'immaginario comune. Il mito da bruciare è il Vietnam, l'errore da esorcizzare è che nella politica imperialista americana non ci sono disertori. Il colonnello Kurtz (Marlon Brando) è il capo carismatico di bande armate che combattono il «pericolo rosso» vietnamita a difesa di una democrazia visionaria. Pallido calco di un mondo pulito, popolato di uomini forti, senza scarafaggi e cattivi soggetti. Il capitano Willard (Martin Sheen) riceve l'ordine di eliminare Kurtz. Willard risale il fiume Nung in un inferno di morti artificioso e spettacolare, giunge a Kurtz ma non l'uccide. La leggenda vuole i condottieri profondi conoscitori dei propri sudditi e ottimi interpreti della psicologia di piazza; chi come Kurtz ama le fini letture di T.S. Eliot («Gli uomini vuoti») o l'oggettività antropologica di Sir James Frazer («Il ramo d'oro») affonda le sue radici politiche nell'etica di una razza che rifugge gli statuti della burocrazia e sfida la realtà sul proprio campo. Willard si bagna di una nuova coscienza politica e riprende la via del ritorno.
Il tema portante del film è quello del viaggio. I percorsi strutturali del western sono i più battuti. L'attorialità di Sheen e gli atteggiamenti sovra le righe del tenente colonnello Bill Kilgore (Robert Duvall) sono presi ampiamente da John Wayne di Ombre rosse (Stage-coach. 1939) di John Ford e da Kirk Douglas de Il grande cielo (The big sky, 1952) di Howard Hawks. Il pezzo più spettacolare e più scemo di Apocalypse now è quando Kilgore fa spianare al suolo un villaggio vietnamita per permettere ai suoi bravi ragazzi di fare il surf. La musica di Wagner («La cavalcata delle valchirie») accompagna migliaia di bombe che incendiano la foresta e arrostiscono i «musi gialli»; il cappello di Kilgore è quello di John Wayne in Soldati a cavallo (The horse soldiers, 1959) e ne I cavalieri del nord ovest (She wore a yellow ribbon, 1949) di John Ford.
Se per Ford il «solo indiano buono è quello morto», Coppola tesse l'elogio delle fosse comuni e vede nel napalm la purificazione delle idee; mentre gli elicotteri di Kilgore danzano l'apoteosi della morte il dialogo tra Kilgore e Willard assume questi toni: «Lo senti l'odore, figliolo? Napalm, non c'è niente altro al mondo che odora così. Mi piace l'odore del napalm di mattina. Una volta, una collina la bombardammo per dodici ore e finita l'azione, non ci trovammo più nessuno, neanche un lurido cadavere di viet. Ma quell'odore, si sentiva quell'odore di benzina, tutta la collina odorava di vittoria. Prima o poi questa guerra finirà» (12).
Per altri versi Apocalypse now lascia trasparire un quotidiano con meno certezze e meno arroganza di quanto impersona il colonnello Kilgore. I soldati semplici, la gente del popolo sembra fuoriuscire dalle pagine di Kerouac, una filosofia di vita «on the road» (13) segna la ricerca disperata di nuove ragioni di esistenza, una spiegazione differente dei rituali quotidiani. I riferimenti a Easy rider (1969) di Dennis Hopper e Fragole e sangue (The strawberry statement, 1970) di Stuart Hagmann sono legati all'uso spettacolare della droga, del sesso, della violenza e dei mass-media; vedi il soldato drogato sul battello mentre infuria la battaglia, lo spettacolo delle ragazze di «Playboy» che intrattengono le truppe in partenza per la guerra, la crudeltà del nemico sempre nascosto nell'ombra, l'ingerenza di una équipe televisiva come testimone di verità e magazzino sporco della storia.
La fonte più citata e meno riconoscibile di Apocalypse now è il romanzo di Joseph Conrad, «Cuore di Tenebra», uscito nel 1902 e annunciatore di sconvolgimenti e repressioni dell'economia imperialista dell'uomo civile (14). Conrad si solleva contro la cultura del suo tempo, impone una critica trasgressiva del reale e in molte metafore porge agli oppressi le armi del risentimento e della rivolta. A questo proposito pubblicò il prosieguo di certe tematiche in «L'agente segreto» (1907).
Al fascista sanguinario Kurtz - Coppola lega le portanze ideologiche del suo film. E dato che la sceneggiatura originaria di Apocalypse now è del fascista John Milius, co-sceneggiatore di Steven Spielberg per Lo squalo (Jaws, 1975) e Un mercoledì da leoni (Big Wednesday, 1978), forse i più struggenti apologhi di un'America forte e confortevole che il «giovane» cinema americano ha dipinto sullo schermo, le intenzioni di Coppola di fare con Apocalypse now «un esperimento cinematografico che avrebbe dato alle platee il senso dell'orrore, della follia, della sensualità e dell'interrogativo morale che la guerra in Vietnam rappresentava» (15) - non potevano che incontrare il favore totale di pubblico e critica.

Anche la stupidità ha un prezzo
Gli itinerari della macchina/cinema hollywoodiana dei primi anni '80 mitologizzano la fuga nello «straordinario» e l'utopia sconfitta del proletariato assoggettato. Le convenzioni, i generi, il monumentalismo spettacolare, la poetica della redenzione e del martirio, il superomismo, ecc., sono l'armamentario tecnico/sociologico sul quale il cinema mercantile americano ha fondato il proprio consenso. I film dell'orrore, l'intrigo poliziesco, terremoti e catastrofi, l'avventura nell'iperspazio, storie della realtà scomoda sono confezionati nella cornice di un'umanità accomodata, invitano a sognare un'autorità più dura, depositaria e garante dell'immaginario sociale.
L'apocalisse sullo schermo è la finzione sentimentale di una perdita di valori che vanno riscoperti, rifondati sulla tradizione e sullo spirito della «vecchia frontiera» americana. Ovunque i cattivi sono sconfitti dalle forze dell'ordine, ovunque i buoni sentimenti e l'amore per la bandiera a stelle e striscie vincono sui soggetti della devianza.
Nel «cinema proletario» USA la faccia degli oppressi è uno spettacolo fuori gioco che non è in grado di risvegliare nei vinti né speranze di sollevazioni né pratiche di agitazione contro la paura di ogni autoritarismo.
La «fabbrica di morti» (il cinema) è la più autentica baldracca dei mezzi di comunicazione di massa. Hollywood è l'origine della magia e della simulazione. Il cinema è uno specchio della realtà e quello hollywoodiano «... non soltanto dà alla domanda la risposta giusta, ma dà la risposta giusta senza permettere al pubblico di rendersi completamente conto quale sia la domanda» (16). Dio, famiglia, imperialismo e Coca-cola sono i segni della conversione dei popoli che più circolano sugli schermi d'america e del mondo.
Prodotti come I predatori dell'arca perduta (Raiders of the lost ark, 1981) di Steven Spielberg; Reds (Rossi, 1981) di Warren Beatty; E.T. l'extraterrestre (E. T. the extra-terrestrial, 1982) di Steven Spielberg; Ufficiale e gentiluomo (An officer and a gentleman, 1983) di Taylor Hackford hanno parlato agli occhi di tutto il mondo secondo schemi così rigidi da evocare la sensibilità infantile degli spettatori, infusi, deviati, corrotti nell'intimità domestica del proprio privato, corroborata e attesa dagli sceneggiati TV, dai telefilm, dai giochi a premi che il video ammannisce a tutte le ore del giorno e della notte.
Le favole di Spielberg imitano il reale per nasconderlo. I predatori dell'arca perduta non è solo un film «alla Griffith», cioè inseguimento e avventura, lotta tra il bene e il male dove il bene trionfa a dispetto di tutto, perfino dell'incongruenza della storia che scorre sulla tela. Il film di Spielberg imita i fumetti d'avventura dove per la maggior parte delle storie sono evidenziati i valori «beoti» della società tecnologica; l'onestà, l'ottimismo, la fede nella patria ecc.; ogni sequenza, ogni dialogo riflettono la pedagogia di un linguaggio/sistema che sollecita e si rafforza come «sogno generale».
Ma è in E. T. l'extraterrestre che Spielberg riesce a gratificare l'aria fetida della realtà suburbana e solleticare l'innocenza scema della piccola borghesia americana. «E.T. - scrive con arguzia Alberto Arbasino - dilata fino a dimensioni cosmiche e a significati portentosi la favoletta di un piccino solitario che trova un cucciolo sperduto somigliante ai cari Muppets, e lo difende col mondo piccino contro gli accalappiacani della società adulta (i veri mostri). Però, lasciando astutamente sospettare che forse, come già nei romanzi di Melville, si tratta di Gesù Cristo. Così migliaia di teopsicologi della domenica scrivono a tutti i giornali dell'estate rilevando le tracce appositamente sistemate nella scaltra sceneggiatura: 'E. T.' è riconosciuto da tre piccoli Magi, risana ferite, fa levitare persone, si rivolge ai pargoli, ha un Sacro Cuore in petto, esegue Resurrezione e Ascensione dicendo ai discepoli 'sarò sempre tra voi'» (17).
Lo schermo gronda di spiritualità indotta. Il Cristo/mostricciattolo E. T. è l'esempio (superdotato) di un mondo dove è possibile arrivare senza sconvolgimenti sociali, rivoluzioni violente, a una società pacificata nell'amore di tutti per tutti. Basta entrare in una grossa palla di un albero di Natale e volare tra le stelle. C'è da vomitare di tanta superficialità e di tanto consenso.
Anche la stupidità ha un prezzo. Riuscire a sopportare fino in fondo il film di Beatty, Reds è un'impresa per iloti del tempo libero, lupetti dell'Azione Cattolica o orsetti lavatori della festa dell'Unità. La Rivoluzione d'Ottobre, le bandiere rosse, l'amore e altri sciroppi di presa popolare sono deposti, figurati in una realtà di cartone dove il sorgere di una società diversa come risultato di un'azione collettiva viene trasformato in un necrologio, un gioco al massacro di una rivoluzione chiacchierona senza domani.

Emma Goldman come Mary Poppins
In un cantone di Reds c'è anche l'anarchica Emma Goldman. Qui vista come una vecchietta armata di ombrello appena uscita dalle torte e la filosofia idiota di Mary Poppins (18). Beatty sembra non conoscere le battaglie per le minoranze radicali che questa rivoluzionaria dalla lingua tagliente riusciva a muovere nelle folle contro le figure del dominio, i possessori della ragione di Stato.
Come non ricordare le parole della piccola donna dal grande cuore che versava fraternità ed affetto per gli oppressi di ogni razza: «il peccato più imperdonabile nella società è l'autonomia di pensiero. Che ciò sia così incredibilmente evidente in un paese il cui simbolo è la democrazia, è assai indicativo del potere enorme della maggioranza... Oggi come allora, l'opinione pubblica è il tiranno onnipresente; oggi come allora, la maggioranza è costituita da una massa di codardi, disposti ad accettare chi rappresenta il loro stato d'animo e la loro povertà mentale... E' assurdo affermare che la nostra è un'epoca di individualismo. La nostra è soltanto una ripetizione più netta del fenomeno che ha caratterizzato tutta la storia: ogni sforzo verso il progresso, la cultura, la scienza, là libertà religiosa, politica ed economica, proviene dalla minoranza e non dalla massa. Oggi, come sempre, i pochi sono incompresi, perseguitati, imprigionati, torturati e uccisi» (19).
L'«oggi» di cui parla la Goldman sono gli anni del «sogno americano» gonfiati da Roosevelt; il nostro quotidiano è ancora segnato da un autoritarismo e galera. I «tempi di piombo» di una generazione sbandata, «pentita», tradita ma anche insorta con le armi contro la «democrazia armata», in qualche modo, confermano la posizione della Goldman che scrive: «...la verità viva, vitale del benessere sociale ed economico diventerà una realtà solo tramite l'ardore, il coraggio, la determinazione di minoranze consapevoli e non tramite la massa» (20).
Non è tanto attaccare il cuore dello Stato - lo Stato non ha cuore! Solo secondini del sapere e boia della rivolta -; quanto rendere viva negli occhi di chi lo voglia la filosofia puttana di ogni Stato, di ogni partito, di ogni governo, di ogni fede religiosa che rappresentano ancora lo scannatoio della storia.
Quello che fuoriesce da Reds è la superficie esistenziale di John Reed, l'autore di «Dieci giorni che sconvolsero il mondo» (21), un libro che ha forgiato milioni di operai comunisti e li ha fatti sognare la rivoluzione del proletariato, la conquista del potere e la fine dello sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo. Le esecuzioni capitali di Stalin, gli eccidi, le deportazioni in Siberia del «comunismo di Stato», ecc., mostreranno anche l'altro taglio della mannaia «comunista».
La cinecamera di Beatty non pedina il percorso e l'impegno politico di un uomo che ha combattuto a fianco degli sfruttati, dei bastonati, degli insorti di tutto il mondo; quello che figura, che descrive, che racconta sono invece le tappe, gli stereotipi della biografia affogata nel romanticismo d'appendice.
Reds è la storia (nemmeno perversa) di un amore che coinvolge i tre protagonisti della «crema radicale» intellettuale americana ai primi del secolo: John Reed, Louise Bryant e Eugene O' Neil!. E ogni inquadratura, ogni giunta del film, ogni movimento della cinecamera è solo un pretesto di grafia, dissimulazione di un prodotto di mercato variegato di politica.
Così John Reed: «le idee da sole non significano molto per me... non è dai libri che ho capito che gli operai producevano tutte le ricchezze del mondo, che poi finivano in mano a coloro che non se le erano guadagnate». Intorno a questa visione (ormai celebre) del quotidiano, Reed si era trovato a scrivere e lottare con le truppe di Pancho Villa (1914), negli scontri tra operai e polizia a Paterson e Ludlow (1916) ed infine a combattere a fianco di Lenin e Trotsky nella rivoluzione d'Ottobre (1917).
L'interpretazione esagitata di Warren Beatty e Diane Keaton, l'esecuzione sbracata de «L'Internazionale» e le rosse bandiere di una rivoluzione oleografica, mortuaria, dipinta nei 33 milioni di dollari spesi per Reds rivelano anche gli indirizzi di sfruttamento televisivi ai quali è destinato il film. Insomma, in un mondo di stupidi, il pubblico della televisione è più stupido degli altri.
A corroborare la cecità generale si prestano in molti, specie i critici della «sinistra di regime». Basta leggere i titoli delle recensioni di Reds di Gianni Vitale («Un inchino per un film appassionante») e Lorenzo Quaglietti («Uno spettacolo intelligente e ineccepibile») per riconoscere l'asservimento e l'omologazione delle idee nel panorama squallido della cultura «ufficiale» (22).

In cammino verso la felicità
E' il film di Hackford, Ufficiale e gentiluomo a fare da battistrada a un cinema della sconfitta proletaria, riflesso e proiezione di un quotidiano suburbano immerso nell'apatia e nella rassegnazione. La prospettica di Ufficiale e gentiluomo è quella incensata dal cattolicesimo, cioè pentimento e redenzione dei propri peccati (dubbi, desideri, sogni) nella concretezza omogeneizzata dello schema generale.
Teologo della caduta e propugnatore della morale filistea succhiata dalle favole destroidi di John Roneld Reuel Tolkien («Lo Hobbit», 1937, «Il signore degli anelli», in tre voll. 1954/1955), Hackford mescola con abilità le carte strutturali del film. L'approccio ambientale semidocumentario, la fotografia (Donald Thorin) grezza, l'attorialità «convinta» di Richard Gere, Debra Winger e Louis Gosset jr. (tutti abbondantemente sovra le righe) fanno leggere Ufficiale e gentiluomo in modo scorretto. Quello che è un melodramma d'amore e corporativismo, dedizione alla bandiera e tabula rasa con il passato, si presta alla sollecitazione dei battuti verso un mondo apparente dove chiunque s'intonerà nella cassa di risonanza del modello dominante sarà premiato con il benessere a vita.
Richard Gere è il giovane sottoproletario stufo di «cattive compagnie» e delle sbornie del padre, lascia le fogne del suo quartiere per diventare ufficiale della marina americana, quindi (si dice Hackford) gentiluomo.
In parallelo alle esercitazioni del corso, Hackford tratteggia uno spaccato di quotidianità operaia. Le ragazze di una cartiera che aspirano a sposare un ufficiale della marina per lasciare la fabbrica ed entrare in società. Le più saranno abbandonate, incinte o che altro alla deriva delle proprie illusioni, condannate ad abbruttire fino alla pensione nella cartiera. Ma Richard Gere è un «gentiluomo» di stampo vittoriano, conseguito il brevetto va in fabbrica, prende Debra Winger tra le braccia e fra gli applausi degli operai e delle operaie si incammina verso la felicità.
Nemmeno John Ford, che amava chiudere i suoi film in modo roboante, si è mai perduto in simili sciocchezze. Arguto in risarcimenti, in chiusa di Furore (The grapes of wrath, 1940), un lavoro ricco di demagogia roosveltiana, Ford mette in bocca a Henry Fonda queste parole: «Dovunque un uomo venga colpito sulla testa da un manganello, io sarò con lui».
Di fianco alle portanze «filosofiche» del film di Hackford si riconoscono prodotti di ogni genere; dalla commedia di costume come All american boys (Breaking away, 1980) di Peter Yates alla fantascienza di L'impero colpisce ancora (The empire strikes back, 1980) di Irvin Kershner; dalla biorgafia metropolitana/sportiva di Toro scatenato (Raging bull, 1980) di Martin Scorsese all'immagine eroica dei gangsters o/e poliziotti macerata in un cinema del crimine (23) dove i proscritti sono sempre gli immigrati, i neri, i comunisti: gli anarchici sono invece bollati come agitatori, pazzi o terroristi. Siamo ancora nell'atmosfera e nella «tradizione nera» del «cinema urbano» degli anni '30 e '40.
Ecco che Driver l'imprendibile (The driver, 1978) e I guerrieri della notte (The warriors, 1979) di Walter Hill, Violents streets (1981) di Michael Mann, Delitti inutili (The first deadly sin, 1980) di Brian G. Hutton, 41° distretto polizia (Fort Apache the Bronx, 1981) di Daniel Petri e tutta la miriade di proposte/ confezioni del cinema d'azione che esplodono all'interno delle grandi metropoli, nei ghetti, nei dipartimenti di polizia, negli uffici del capitalismo multinazionale, ecc. non sono che un inno alla mitologia del più armato e alla riabilitazione psicologica della democrazia armata nei principi fondamentali dell'immaginario incatenato a regole e comportamenti che si esauriscono nell'obbedienza incondizionata allo schema ufficiale. Ripetono così i propositi riusciti di film come Piccolo Cesare (Little Caesar, 1930) di Mervyn Le Roy, Scarface (1932) di Howard Hawks, Nemico pubblico (The public Enemy, 1931) di William A. Wellman, Strada sbarrata (Dead end, 1937) di William Wyler.
Ma i generi non spariscono mai completamente.
Come potrebbero, quando i problemi di cui trattano, i modelli di comportamento che prescrivono, le soluzioni che così ingenuamente propongono sono le espressioni, talvolta belle, di un periodo che tenta di definire se stesso» (24). E ancora una volta è Francis Ford Coppola a cogliere gli umori generazionali del proprio tempo sperimentando la violenza senza causa e la rabbia dei cani sciolti in operine edulcorate come I ragazzi della 56a strada (The outsiders, 1982) e Rusty il selvaggio (Rumble fish, 1983). Quello che ci racconta è che i giovani disoccupati, emarginati, drogati, banditi che bruciano, spezzano i loro anni migliori ai bordi della società, in fondo ricercano solo un ordine, una fede, un simulacro da adorare. Reagan, Dio o la democrazia dell'apparenza fa lo stesso.
Quando il cinema americano più «look» invita ad uscire dall'anonimato lo fa cantando e ballando (non solo sotto la pioggia). Il reale dipinto sullo schermo è semplificato, favolistico, falso; le storie, gli atteggiamenti, le soluzioni sono mutuate dal superomismo dei fumetti d'avventura («Captain America», «Batman», «Superman», ecc.), la figurazione, il ritmo, il candore sono presi invece dalle favole più mielose («Cenerentola», «Cappuccetto Rosso», «Pollicino», ecc.) rivisitate nella morale reazionaria di Walt Disney.
Per un pubblico che si vuole più raffinato, più «colto» sono soffusi anche il trasformismo di «Topolino», visto e sentito come «spirito ufficiale» della cultura americana e per i radical-chic l'irrazionalità patinata delle storielle figurate da Moebius e Drouillet.
Su questi percorsi si leggono musicals di largo consumo come The blues brothers (1980) di John Landis, Flashdance (1983) di Adrian Lyne, Staying alive (1983) di Sylvester Stallone. Il più sbracato è quello che ha raccolto più successo: Flashdance.
Jennifer Beals è «cenerentola» che di giorno fa la saldatrice in fabbrica, la notte si scatena come ballerina in un locale notturno frequentato da brava gente. Michael Nouri è il «Principe Azzurro», il padrone della fabbrica dove lavora la Beals, non potranno che amarsi fino alla fine del film e oltre. Cioè in tutto l'armamentario pubblicistico (tute, giacche, scaldamuscoli, scarpe da ginnastica, giubbotti, cani, ecc.) che erano l'intenzionalità mercantile sommersa (ma non troppo) nella fiaba.

Autocensure e veline
In apertura degli anni '80 i giochi mercantili del cinema «proletario» U.S.A. sono tutti fatti. Autori della marginalità, propugnatori di un cinema indipendente dalla macchina hollywoodiana come Frank Perry, Bob Rafelson, John Cassavetes ad es., gradatamente perdono lo smalto aggressivo che le loro opere degli anni '60 e '70 portavano contro l'ufficialità e l'artificio modistico della realtà cinematografica sullo schermo e altrove.
Trilogy (1968) di Perry, Cinque pezzi facili (Five easy pieces, 1970) di Rafelson, Una moglie (A woman under influence, 1975) di Cassavetes sono lavori che hanno tracciato il confine tra un'esistenza condizionata, umiliata, bastonata e impresso negli occhi dei curiosi momenti di scollamento, disubbidienza, sollevazione, rotture della quotidianità americana.
Mentre Perry si perde in biografie romanzate del tipo Doc (1971), un western ben costruito, fotografato in modo eccellente, sobrio nell'attorialità dei personaggi ma anche fortemente apologetico, struggente richiamo di un passato che si rimuove e si ripropone come «puro», Rafelson e Cassavetes entrano nella logica di mercato a vele spiegate con Il postino suona sempre due volte (The postman always rings twice, 1980) e Una notte d'estate (Gloria, 1980).
Il film di Rafelson è un prodotto abile, ben fatto, piuttosto freddo e distaccato dalla semi-pornografia corrente. Affondato nel genere classico del «film-noir», il «postino» di Rafelson non ci sembra - come scrive Giovanni Grazzini - «un film sull'incertezza e la fragilità dei perdenti» (25), ma piuttosto la sistemazione di una realtà perduta in partenza. Per i soggetti della vita offesa la morte e la galera sono ancora i luoghi deputati a conclusione della loro esistenza.
Cassavetes è anche più spicciolo. Il suo film è accordato sulle trame sentimentali di Liala mascherate in atmosfere grevi, collaudate in Casablanca (1942) di Michael Curtiz, Il grande sonno (The big sleep, 1946) di Howards Hawks o L'altro uomo (Strangers on a train, 1951) di Alfred Hitchcock. Le menzogne si fanno sempre più convenzionali. Le convenzioni sempre più armonia con gli interessi generali della cultura complice. La filosofia della spontaneità di Cassavetes si ferma ai bordi dell'accusa e rifluisce nel simulacro mercantile che diceva di attaccare.
Di lato a un cinema dell'apparenza e del conforto, che è ideologia e sistema di rappresentazioni mitologiche, si sono posti alcuni film coraggiosi tesi a disvelare il terrore e l'arroganza dei «nuovi padroni» della tolleranza come politica del desiderio.
Sindrome cinese (The china syndrome, 1979) di James Bridges, Brubaker (1980) di Stuart Rosemberg, Scomparso (Missing, 1982) di Costa Gravas, Silkwood (1984) di Mike Nicholson, Harry & son (1984) di Paul Newman ad es., sono lavori che pur essendo dentro la cultura di mercato si sono affrancati non poco alla realtà dei diseredati di ogni razza e, per quanto poco, sono riusciti a descrivere con efficacia marci apparati di dominio, la violenza e le trame della politica, il terrorismo scientifico transnazionale dei «nuovi mandarini» che regolano e gestiscono la democrazia dello spettacolo più vigliacco del mondo.
Gli abusi di potere nelle galere (Brubaker), il terrorismo imperialista (Scomparso), l'inquinamento nucleare e la manipolazione dei mass-media (Sindrome cinese e Silkwood), l'alienazione proletaria (Harry & son) sono la scrittura trasversale, il linguaggio di una catenaria di dissenso contro i garanti di una sola verità (quella di Stato), insinuazioni «eversive» che segnano (senza gridare molto) il tramonto della ragione democratica.
Emblematica è la storia vera di Karen Silkwood, operaia della «Kerr-McGee Nuclear Corporation», una fabbrica di combustibile nucleare (plutonio) a Oklahoma City. La Silkwood è una donna di notevole temperamento, carattere ribelle, insofferente ad ogni tipo di costrizione familiare o istituzionale. Ha 28 anni, un matrimonio andato a male e tre figli che vivono con il padre nel Texas. Lei divide la casa con il suo uomo (Drew Stephens) e un'amica con inclinazioni omosessuali (Dolly Pelliker). Lavorano tutti alla «Kerr-McGee».
Karen si accorge che la direzione smercia barre al plutonio difettose, fortemente inquinanti. Raccoglie prove e vuole renderle pubbliche attraverso il sindacato. Qualcuno gli mette del plutonio nel contenitore delle urine che ogni giorno gli operai depongono all'ingresso della fabbrica, contrae così il cancro, la casa gli viene bruciata. La donna rifiuta i milioni che le vengono proposti dalla direzione e prende l'appuntamento con un giornalista del «New York Times». Non si incontreranno mai. La macchina della Silkwood verrà gettata fuori strada da un'abbagliamento di fari. Della cartella di documenti che aveva con sé, nessuna traccia. L'inchiesta accerta che è stato un incidente, l'anno dopo la «Kerr-McGee» viene chiusa.
L'immaginario sociale di molto cinema americano è abbozzato nei limiti spettacolari di una trasgressione permessa. Lo schermo produce un linguaggio comune, una grande memoria imitativa che fornisce gli oracoli della politica e della illibertà mercantile. L'arte della simulazione è pratica e apoteosi di rapporti simbolici: l'ideologia della dittatura allargata delle forme.
Proprio non si capisce come fa Giuseppe Rausa a scrivere che il «nuovo cinema» americano si sgancia polemicamente dalla realtà ridefinendo gli statuti e i rapporti teorici di realtà e finzione: «La simulazione si fa sempre più esplicita ed evidente, il linguaggio filmico ripropone e rielabora se stesso, si autoindaga e autodissacra, si reinventa con nostalgia e amore, con irriverenza e sarcasmo. Questo cinema non si è fatto 'disimpegnato' o semplicemente pago di se stesso; al contrario esso rifiuta di asservirsi all'impegno didascalico, di divenire mezzo per qualcos'altro che al fondo lo strumentalizza e mortifica» (26).
Fuori da qualche tentativo irriverente teso a sfigurare i feticci e le forche della democrazia del sospetto e della maschera, il cinema americano mercantile è storia di autocensure e di veline: il disordine delle idee sull'ordine delle cose.
Così restano fuori dallo schermo i 40 milioni di americani che vivono al limite della povertà ufficiale, l'esercito di disoccupati, le tendopoli, le mense gratuite, i grandi scioperi della siderurgia, dell'edilizia, delle attività portuali che hanno sconvolto l'America degli anni '70 e '80 annunciando la nuova «Depressione» dovuta alla rivoluzione tecnologica, al riassetto dell'informatica in tutti i settori (produttivi, relazionali, repressivi) della società americana.
Nel cinema U.S.A. il fantasma del proletariato disegna il luogo di irrealtà. Tutto è eccessivo perché tutto è falso. La cosmesi della realtà consiste nel lievitare l'«innocenza americana» nella dottrina diffusa: dove arriva il cinema americano si sconfigge l'anarchia e si attua il controllo dei sogni. Ma ogni carogna ha i suoi becchini, il mito «ha due varianti significative: ai bravi ragazzi che arrivano ultimi si sostituiscono drasticamente i bravi ragazzi che finiscono morti» (27). Spingersi oltre Marx e nella democrazia altra non è solo un fondamento teorico di rottura di palle della dialettica con la storia, ma necessità e pratica di sopravvivenza anarchica nel dentro di un fuoco incrociato che liquida la crisi della ragione. Anarchia non è bruciare gli Dei, è non dar loro modo di esistere. Non fabbricarli mai.


(1) Wright Milis: in La Fabbrica delle Stelle, di Carlo Sartori, pag. 12. Mondadori 1983.
(2) Aldo Gargani: introduzione a Della Certezza di Ludwig Wittigenstein, pag. XVI. Einaudi 1978.
(3) Albert Libertad: Il Culto della Carogna, pag. 5, Anarchismo 1981.
(4) Michael Wood: L'America e il cinema, pag. 19, Garzanti 1979.
(5) Michael Wood: op. cit., pag. 26.
(6) Robert Sklar: Cinemaamerica/una storia sociale del cinema americano, pag. 308, Feltrinelli 1982.
(7) Ernerst Mandel: Introduzione al marxismo, pag. 32, Savelli 1975.
(8) Del cinema proletario americano negli anni '70 abbiamo diffusamente parlato in «A»/Rivista Anarchica n. 120 giugno-luglio 1984.
(9) George Orwell: 1984, pag. 8, Mondadori 1984.
(10) Michael Wood: op. cit., pag. 23.
(11) Vedi: Conversazione di Herbert Marcuse, a cura di Arturo Schwarz, pag. 17. Multhipla Edizioni 1978.
(12) Vedi: Cinema e Cinema, n. 24, luglio/settembre 1980, Marsilio.
(13) Vedi: Sulla Strada di J ack Kerouac, Mondadori 1980.
(14) Vedi: Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, Einaudi 1974.
(15) In: Il Cinema/Grande Storia Illustrata, vol. 8, pag. 232 De Agostini 1983.
(16) Michael Wood: op. cit., pag. 20 Garzanti 1979.
(17) Alberto Arbasino: in L'Espresso del 3 ottobre 1982.
(18) Cfr.: Mary Poppins (1964) di Robert Stevenson. Una severa governante dotata di poteri magici, che si sposta di casa in casa con un ombrello volante, si prende cura dell'educazione di due bambini secondo la morale di Walt Disney.
(19) Emma Goldman: Anarchia Femminismo e altri saggi, pagg. 57-59, La Salamandra 1976.
(20) Emma Goldman: op. cit., pag. 62.
(21) John Reed: Dieci giorni che sconvolsero il mondo, Editori Riuniti 1966.
(22) Per entrambi gli articoli vedi: Cinemasessanta, 145, maggio-giugno 1982.
(23) Vedi: Giungle Americane/Il Cinema del Crimine, Arsenale Cooperativa Editrice, Carlos Clarens 1982.
(24) Carlos Clarens: op. cit., pag. 296.
(25) Giovanni Grazzini: Cinema '81, pag. 86, Laterza 1982.
(26) Vedi: Schermo, n. 4. marzo '84.
(27) Michael Wood: op. cit., pag. 78.