Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 128
maggio 1985


Rivista Anarchica Online

Il gendarme ecologico
di G. B.

Da qualche tempo, accanto ai tradizionali compiti dello stato (quali il carabiniere, il giudice, il gabelliere), è sorto un nuovo ruolo: lo stato ecologico. La legittimazione di questa nuova pretesa del potere consisterebbe nella difesa, da parte dello stato, della natura contro l'egoismo dei singoli e degli interessi economici.
La risibilità di questa novella arcadia non deve, tuttavia, far dimenticare l'importanza di una disamina del ruolo dello stato in questo campo. Ciò al fine di comprendere attraverso quali meccanismi il potere rinneghi, nei fatti, questa nuova "vocazione" di gendarme della natura.
L'intervento dello stato italiano si è articolato, soprattutto sul diritto. Difatti in questi ultimi anni sono usciti a valanga, anche su pressione della C.E.E., leggi e regolamenti statali che si sono sovrapposti a leggi e regolamenti regionali, ad ordinanze di sindaci, nonché a sedicenti sentenze "esemplari" di cosiddetti Pretori d'assalto. Ed in attesa di chiarimenti, di mitiche leggi-quadro, di nuove leggi e regolamenti, nonché del pronunciamento della Corte Costituzionale sui ricorsi presentati da alcune regioni, le quali ritengono lo stato colpevole di avere invaso le loro competenze... non ci resta che piangere, come direbbe qualcuno, sulle sorti del "verde" in Italia. Essendo la confusione al colmo, capita che ciò che è assolto dal pretore penale sia condannato dal pretore civile o viceversa; oppure che ciò che lo stato non punisce sia severamente punito dalla legislazione regionale.
Questo forsennato protagonismo legislativo non faccia, comunque, dimenticare che certe norme come il divieto di escavazione del letto dei fiumi (Testo Unico sulle opere idrauliche del 1904) non è mai stato applicato. Ne è risultato, ad esempio, l'avanzamento del mare nelle falde acquifere dove un tempo i Comuni costieri prelevavano l'acqua dolce.

Conflitti di competenza
Una particolarità tutta italiana che colpisce immediatamente è l'estrema frammentazione delle competenze istituzionali in materia di ecologia: comitati, inter e sotto-ministeriali, enti locali (comuni, province, u.s.l., regioni), corpi statali, magistratura ed il neonato ministero dell'ecologia si disputano le competenze che ciascuno ritiene di avere. Ciò perché riesce difficile stabilire da un punto di vista tecnico, prima ancora che giuridico, sotto quale veste rientri un fatto. Ad esempio solo pochi eletti sanno che gli spurghi delle fosse biologiche rientrano nell'ambito del controllo comunale (l. 319/76); mentre lo spurgo dei pozzetti stradali rientra nelle competenze di controllo delle province (D.P.R. 915/82).
Lo stato italiano, comunque, non contribuisce certamente a fare chiarezza, dal momento che le divisioni di competenze seguono criteri a dir poco bizzarri. Ad esempio tutta la materia "mare" è di competenza statale, mentre gli scarichi abusivi in mare sono stati assegnati alle regioni; l'inquinamento da idrocarburi, con moria di pesci, è di competenza provinciale, mentre negli altri casi sono competenti Comuni ed U.S.L.
Questa frammentazione lascia aperte le possibilità di latitanza, dal momento che può accadere che due enti non si occupino di un fatto perché non lo ritengano di propria competenza. Tanta frammentazione crea, apparentemente, tanti interlocutori istituzionali ma, in realtà, le vere scelte di fondo in materia ecologica sono tuttora di stretta spettanza statale.
Le realtà decentrate dello stato sono solamente degli interlocutori politici e quindi non reali, in quanto non hanno la possibilità di mutare le scelte fatte ad altri livelli, sempre ammesso che non le condividano. Non mancano del resto gli esempi della scemenza con cui i politici locali si occupano di ecologia. Per gli assessori all'ecologia è quanto mai impopolare chiudere una ditta, elevare contravvenzioni di milioni, fare denunce all'autorità giudiziaria (specie se si tratta di finanziatori del partito) mentre il vero serbatoio di preferenze elettorali è rappresentato da cacciatori e pescatori. Non stupisca, quindi, che ci sia stato chi invitava i cacciatori a sparare nei parchi!
Un altro aspetto non meno importante è costituito dal fatto che lo stato italiano non accetta la costituzione di controparti nel contenzioso ecologico. In altri termini, brutta cosa per gli amanti del legalitarismo, lo stato italiano non accetta la costituzione di quelli che solitamente si chiamano gli "interessi diffusi", cioè la collettività vittima degli scempi ecologici. Lo stato rimane l'unico protagonista a livello giuridico di una situazione che non potrebbe che mettere il potere sul banco degli accusati. Una situazione esilarante: giudice ed accusato sono la medesima cosa! Tale realtà non è modificata neanche da qualche pretore anche perché il penale non punisce le intenzioni quanto le azioni (vedasi Seveso).
Al di là di tutto ciò che si è detto sinora rimane comunque una realtà penosa: la situazione ecologica generale in Italia peggiora di giorno in giorno e gli organi statali o locali che dovrebbero occuparsene nuotano nella confusione, nell'incompetenza se non anche nella corruzione. Grandi città come Milano, incredibile ma vero, non posseggono alcun impianto di depurazione per le acque fognarie che si riversano nei fiumi.
Esempi clamorosi di demenza se ne potrebbero citare in gran quantità; basti pensare che presso molti Enti locali la reperibilità per i compiti di protezione civile è assicurata da funzionari laureati in giurisprudenza e materie affini. Difatti, come è noto, la giurisprudenza è ciò che ci vuole in caso di terremoto o se scoppia una centrale nucleare!

Per esempio, i rifiuti
Vediamo un esempio pratico di come non funzioni l'intervento dello stato e degli enti locali in un campo dell'ecologia: i rifiuti. A parte facili ilarità si tratta di uno dei settori più importanti della realtà ecologica dietro al quale giocano enormi interessi economici.
In Italia, difatti, ogni anno si produce una quantità di rifiuti pari al monte Everest. Se fossero correttamente smaltiti, o meglio ancora recuperati, la conservazione dell'ambiente avrebbe fatto un grosso passo in avanti. Ad occuparsi di ciò c'è un decreto statale che per ammissione dei suoi stessi estensori è stato fatto in una settimana (e si vede!): il D.P.R. 915/82. Già dalla definizione di rifiuto (ciò che è destinato all'abbandono) si capisce che nessuno ha informato i relatori del fatto che le nuove tecnologie permettono di poter riciclare quasi tutto.
Un altro esempio di come lo stato risolva i problemi ecologici è dato da come viene affrontato lo scarico abusivo di rifiuti che tanto danno arreca. Tale attività viene punita con sanzioni amministrative differenziate per tipologia di rifiuto (da 100.000 lire a 10 milioni per i rifiuti industriali, sino a sei mesi di arresto per i tossici-nocivi). Tanta severità draconiana ha, beninteso, dei limiti. In primo luogo il pagamento "liberatorio" della sanzione non fa differenza fra le quantità: scaricare abusivamente un secchio di macerie oppure un camion costa lo stesso (lire 200.000). In secondo luogo, a quasi tre anni dall'uscita del decreto, non c'è ancora stata applicazione di quanto concerne i rifiuti tossici e nocivi che, dal punto di vista giuridico, non esistono ancora.
In terzo luogo il naufragio dello stato è completo di fronte al fatto che le amministrazioni locali, tanto prodighe nello spendere quando si tratta di voti, non hanno denaro per pagare qualche ora di straordinario alle guardie ecologiche e così, dopo una certa ora, si può scaricare tranquillamente. Peraltro i Comuni, cui spetta la competenza di pulire, in realtà non lo fanno perché ciò nelle zone densamente abitate costerebbe milioni e milioni. In realtà spesso queste istituzioni mettono le persone nelle condizioni di dover effettuare gli scarichi abusivi, non ritirando determinati rifiuti e nello stesso tempo sanzionano i "polli" che si fanno scoprire.
La dose è rincarata dalle sanzioni regionali. In regioni come la Lombardia bruciare qualche foglia del proprio giardino costa, in via "liberatoria", oltre 200.000 lire, un registro dei rifiuti non compilato circa 700.000 lire, per non parlare di violazioni come la mancata domanda di autorizzazione per uno stoccaggio di rifiuti che, pur essendo una cosa puramente amministrativa, supera i quattro milioni.
Tanta severità diviene pagliacciata quando di fronte ai danni subiti dalla natura si rende obbligatorio il ripristino. Le spese della bonifica dovrebbero essere a carico dei colpevoli ma, quando si tratta di pagare, chi ha privatizzato i propri profitti si eclissa socializzando le perdite. Dovrebbero pagare i Comuni, le cui casse sono già vuote. Non ci si deve quindi stupire se si finisce, da parte dei comuni, col preferire di tacere piuttosto che pagare e magari rendere più drammatica la situazione occupazionale nella propria zona.
Analisi simili a questa se ne potrebbero fare per gli altri campi dell'intervento istituzionale contro la natura, ma il risultato non cambierebbe: lo stato italiano e le regioni sono attenti solo agli aspetti sanzionatori che rimpinguano le proprie casse, mentre sono "sbadati" su quelli di conservazione della natura, quando non partecipano allo scempio in prima persona.
La sequela dei "come non si fa" vista finora suggerisce alcune, sia pur sintetiche, considerazioni. In primo luogo chi pensa di trovare nelle istituzioni dei validi interlocutori si illude. Al di là delle chiacchiere elettoralistiche, non esiste alcuna volontà di far funzionare gli organi della pubblica amministrazione né di applicare leggi contraddittorie fatte in modo da non funzionare. L'ecologia non è l'impostazione giuridico-amministrativa della pubblica amministrazione ma soprattutto un fatto di cultura e di informazione. Ciò sembra banale ma ci sono, ad esempio, meccanici che in buona fede bruciano a scopo di riscaldamento gli oli esausti senza sapere che, se questi hanno una base clorurata, le emissioni gassose contengono, sia pure in minimissima quantità, diossina.
In secondo luogo, la gravità di certe situazioni e gli interessi economici (specie turistici) spingono stato ed enti locali a fare bonifiche. I costi di questi ripristini vengono immancabilmente scaricati sulla collettività, in barba al principio del "chi inquina paghi". Questa socializzazione degli oneri attualmente viene patita troppo passivamente, anche perché allorché si arriva alla bonifica la situazione è già drammatica. Di questo passo i danneggiati stessi, di fronte al fatto di dover pagare per i profitti altrui, preferiranno lasciar perdere, per non avere la beffa oltre al danno.
In terzo luogo bisogna constatare che il decentramento delle competenze tecniche in materia di ecologia non sta funzionando. Strutture come i L.P.I.P. (Laboratori Provinciali di Igiene e Profilassi), centralizzati ma almeno da un punto di vista tecnico competenti, sono collassate nel passaggio alle Unità Sanitarie. In molti casi "piccolo" si è rivelato arrogante, incompetente, corrotto oltre ogni immaginazione e più del grande. Inoltre la mancanza di omogeneità lascia aperti molti spazi a chi ne approfitta per inquinare.