Rivista Anarchica Online
Musica & idee
a cura di Marco Pandin (marcpan@tin.it)
...Questa
è la prima strofa, questa è la prima strofa, questa è la prima
strofa. Questa è la prima strofa, la prima strofa, e questo è il
ritornello, o piuttosto un inciso, o magari un'altra parte ancora
della canzone che sto cantando. E questa è la seconda strofa, e
potrebbe essere l'ultima. Questa è la seconda strofa, la seconda
strofa, e potrebbe anche essere l'ultima strofa, l'ultima strofa.
Questa è la seconda strofa, probabilmente è l'ultima, o piuttosto
un inciso, o soltanto un cambiamento di tonalità. Non preoccuparti
non è grave. Significa soltanto che ho perso la mia fiducia in
questa canzone, perché adesso so che non mi seguirà per
raggiungerti...". Sono
passati quasi quindici anni da quando il poeta e musicista inglese
Robert Wyatt compose "Signed curtain" una canzone intensa, e
come vedete dal testo, atipica, canzone che ho pensato di utilizzare
come esempio dell'importanza che per certi artisti riveste il
problema della "comunicazione". È
un rapporto fatto di equilibri esili, difficile da costruire ma
necessario per l'esistenza ed il perpetuarsi della creatività, per
non far perdere all'arte la propria dimensione umana. Nel
panorama musicale d'oltremanica, alla metà degli anni Sessanta,
Robert Wyatt ed il suo gruppo, i Soft Machine, rappresentarono il
punto di partenza per la ricerca di un nuovo modo di concepire la
musica pop (-olare): non più un "lavoro", o un atteggiamento, o
un comportamento, ma uno stile di vita, riflesso dell'immaginazione e
dell'ideologia. Nell'Inghilterra del dopo-Beatles essi decisero di
vivere in una comune e di educare i figli lontano dalle strutture
scolastiche tradizionali. Musicalmente,
invece di affidarsi alle agenzie di spettacoli del consueto circuito
commerciale, i Soft Machine preferirono viaggiare per conto proprio,
portando con sé mogli e bambini, su e giù per l'Europa alla ricerca
di amici più che di un'audience. Era
il 1966, e gli hippies erano considerati il simbolo di un'imminente
rivoluzione da evitare, della promiscuità sessuale e morale, della
droga, del declino della società occidentale. "...È
il nostro mondo, è nostro e ce l'hanno portato via. Ora
ci stiamo organizzando per riprendercelo: solo,
stavolta, non ci chiamano più hippies,
ma punk..." (Penny Rimbaud, da "The last of the
hippies" in "Shock slogans...", 1982). In
tutti questi anni, di acqua sotto i ponti ne è passata tanta
davvero, e per tutti. La nascita e lo sviluppo delle etichette
indipendenti e delle case editrici alternative, Rock In Opposition
(la prima organizzazione alternativa europea basata sulla
collaborazione ed il sostegno reciproco di collettivi musicali di
diversi paesi), la rivoluzione punk: questi sono soltanto alcuni tra
gli eventi che hanno contribuito al formarsi ed alla crescita di una
"zona creativa" fertilissima, ai margini dell'universo musicale
contemporaneo. Una zona dalle componenti eterogenee, spesso
impossibilitate a conoscersi tra loro, nella quale musica, creatività
ed ideologia sono connesse ed interagenti. Credo
sia proprio per motivi "politici" più che genericamente
"artistici" che alla produzione di questo circuito intelligente
(attenzione ai falsi "alternativi", ai falsi "indipendenti"
che sopravvivono all'ombra delle multinazionali discografiche e delle
grosse compagnie distributrici, imitandone i metodi commerciali e la
demagogia...) viene conteso o addirittura negato qualsiasi spazio. Le
occasioni di uscire allo scoperto sono davvero rare e, come nel caso
del primo festival organizzato dall'associazione francese Mouvement
International des Musiques Innovatrices (più in breve, MIMI), si
tratta di eventi coraggiosi. I
volantini ed i manifesti che Ferdinand Richard, attuale coordinatore
del MIMI, ha spedito letteralmente a mezzo mondo nella primavera di
quest'anno, parlavano di un progetto ambizioso ed attraente:
all'inizio di luglio quattro giorni di sole e relax in Provenza,
quattro pomeriggi di incontri e discussioni, quattro serate in
compagnia di musicisti scelti tra coloro che più si distinguono per
l'atipicità delle forme espressive, per la bizzarria dell'estro
creativo, per essere insomma tra i protagonisti di quella musica
innovatrice così pericolosa che i mass-media tentano di seppellire. L'impatto
è determinante: arrivo a St. Remy de Provence nel primo pomeriggio,
è una giornata splendida, il paesaggio mi è sconosciuto ma
amichevole, ambiente ideale al posto dello stress di città che mi
lascio alle spalle. E, poiché anche la tasca vuole la sua parte, mi
sorprendo dei prezzi (sinceramente bassi) e mi avvio, ancora più
contento, al luogo dei concerti. I primi a salire sul palco del MIMI
festival sono i francesi Etron Fou Leloublan: Ferdinand
Richard, Guigou Chenevier e Jo Thirion. La loro musica è un
intreccio di fili sottili, ricchissima di particolari e sorprese,
lunare. Il
gruppo ha fatto da sempre (sono attivi da una decina d'anni) della
trasgressione sonora e dell'umorismo "a doppio taglio" la propria
caratteristica: la prima onda porta la risata, la successiva soffoca
l'allegria e l'amarezza. È la consapevolezza dei sogni perduti,
quella di "Paris 68", riflessione triste sulla contestazione
studentesca, o di "Plus rien ne nous retient dans ce pays", sulla
fuga inutile da un sistema e da una mentalità che ti schiacciano,
anche se fai finta di non farci caso. I brani strumentali sono come
piccoli uccelli sui fili dell'alta tensione: saltano di qua e di là
senza mai farsi male, disegnati contro la luce del sole. Ogni
sera un gruppo francese ed uno dall'estero: in questa prima serata,
dopo gli applauditissimi Etron Fou, ecco gli olandesi Remotobs,
sei musicisti vivaci alle prese con uno spettacolo in lingua inglese,
divertente e movimentato, dai toni vagamente cabarettistici. Raccontano
storie ridicole, troppo inventate per non essere vere, bugie
grossolane sulla vita di personaggi impossibili, benzinaie procaci e
trombonisti biondi dalla faccia paonazza. Han Burns, il cantante, è
un collage vivente costruito con ritagli di David Thomas, Joe Cocker
e fuochi d'artificio. Indimenticabili: hanno annunciato la
pubblicazione, entro la fine di quest'anno, del loro primo disco,
quindi a risentirci a tra poco, o buona fortuna. I
Remotobs sconfinano allegramente oltre l'ora stabilita per la
chiusura: è notte fonda e le stelle si divertono un sacco a guardar
giù. Noi, qui sotto, facciamo lo stesso con loro. Alle
nove in punto della seconda serata ecco il pianista Joseph Racaille
ed il suo gruppo Guillame de Rachaux. Ancora una volta il
divertimento ed il senso di contentezza innescati dalle composizioni
sono un velo sottile che lascia trasparire, di tanto in tanto,
delusioni e riflessioni amare. Piccoli momenti d'ombra, di una
violenza subdola e disperata, in un cielo popolato da nuvole ma, alla
fine, sempre più azzurro. Quel
che colpisce il mio occhio/orecchio "critico" è il livello
tecnico indiscutibilmente alto dei musicisti che rivelano una
padronanza eccellente degli strumenti, che permette loro di
"smussare" i momenti più emozionanti delle performance
divertendosi nel prendersi in giro, complicandosi la vita rallentando
o accelerando il ritmo e rubandosi le battute. Tra il pubblico,
d'altra parte, non sono pochi quelli che "prendono appunti", con
matita e carta da musica. Les
Batteries è il nome con cui Charles Hayward (inglese, ex-This
Heat, membro di Camberwell Now e di Regular Music), Guigou Chenevier
(francese, di Etron Fou Leloublan) e Rick Brown (statunitense di New
York City, ex-V Effect) hanno voluto identificare una formazione
davvero inconsueta. Tutt'e tre, infatti, suonano la batteria, tutt'e
tre hanno strane idee sul come produrre musica, tutt'e tre si
divertono a stupire, ad inventare nuovi suoni, a sperimentare nuove
tecniche. L'aggettivo
"nuovo", prende, nel caso di Les Batteries, un significato
"assoluto". Il risultato di questa combinazione esplosiva è
un'autentica rivelazione: tre stili diversissimi, specchio delle
esperienze e delle diverse culture, incastrati uno nell'altro a
formare una proposta inaudita e sorprendente. Pascal
Comelade ha iniziato la terza serata del MIMI festival da solo,
illuminato dal tramonto ed accompagnato dal canto delle rondini. Non
ci poteva essere ambiente più suggestivo per "Song for Che"
scritta da Charlie Haden ed eseguita al piano. Per tre minuti
l'intera popolazione del festival si è trovata sospesa
nell'emozione. L'incantesimo, poiché di questo si è trattato, è
stato dissolto dall'arrivo, sul palco, del gruppo di Comelade, Bel
Canto. Una
dozzina di ragazze e ragazzi alle prese con toy instruments e oggetti
d'uso comune reinventati nel ruolo di strumenti musicali, si fa largo
sul palco. Ognuno dei musicisti contribuisce con un apporto minimo
(ecco forse spiegato il loro numero così elevato rispetto alla reale
consistenza sonora del risultato musicale) alla costruzione delle
varie canzoni: Comelade ha organizzato musiche minime, estremamente
scarne, filiformi. L'usare
strumenti giocattolo come "giocattoli" e non come strumenti: ci
si potrebbe scatenare ora in dissertazioni sul recupero psicosociale
dell'innocenza e della semplicità infantile, ma l'attenzione è
catturata da un fuori-programma. Gli
Acceptor, gruppo di teatro ovviamente sperimentale, ha
inondato l'atmosfera bucolica del festival con una tempesta di rumore
sintetico, accompagnamento tenebroso alla loro performance nucleare. Su
uno sfondo proiettato di paesaggi industriali e microfotografie
scientifiche, gli Acceptor hanno violentemente riportato l'attenzione
della gente sulla faccia oscura e negativa della vita, raccontando
con gesti tragici il peso intollerabile della nostra civiltà
distruttrice. Dopo essere stati "esonerati", intrappolati,
seviziati ed annientati da un enorme Big Brother televisivo, gli
Acceptor, ormai inutilizzabili, sono stati letteralmente scaraventati
nell'immondizia. Non
abbiamo avuto neanche il tempo di riflettere, e già un altro shock
(per la verità regolarmente in programma) ci aspettava al varco: il
concerto di Fred Frith, Tom Cora e Zeena Parkins, cioè gli Skeleton
Crew. Essendo questo il nome più famoso in programma, nell'aria
c'era eccitazione sin dall'inizio della serata, ecco forse il perché
dell'accoglienza un po' troppo tiepida ai Bel Canto. Ci
si aspettava una grande performance, e si è avuto infatti il meglio.
Fred Frith è un chitarrista e violinista inglese, attivo da oltre
quindici anni, membro fondatore con Chris Cutler, Lindsay Cooper e
Tim Hodkingson degli Henry Cow, gruppo di punta dell'avanguardia
musicale inglese dei Settanta, oltre che anima di Rock ln Opposition.
Considerato il punto di riferimento della nuova scuola dei
chitarristi contemporanei, Frith ha elaborato uno stile
indescrivibile, frutto di una lunga esperienza fatta di incontri
quotidiani con paesi, persone e culture sempre diverse, dagli States
alla Russia, dal Giappone all'Islanda. Tom
Cora è nato in una famiglia di emigranti italiani: essendo troppo
recalcitrante alla disciplina, non solo scolastica ma anche musicale,
decise di abbandonare gli studi classici ed imparare per conto suo,
inventando un sistema complicato ed obliquo per suonare il
violoncello. Zeena
Parkins è una pianista di talento (suona anche con Chris Cutler,
Lindsay Cooper e Robert Wyatt nei News From Babel) e, ovviamente,
rifugge dalle limitazioni strutturali della tastiera: eccola quindi
alle prese con strumenti modificati o addirittura inventati (come una
specie d'arpa elettrica dal suono inquietante). Da un sodalizio
simile non poteva che uscire una musica "sovversiva" ed
eccitante: durante il concerto sono stati presentati molti brani
inclusi nel loro secondo lp "The country of blinds",
pubblicato proprio nei giorni del MIMI festival. Frith,
Cora e la Parkins, assieme a quasi tutti gli altri musicisti
presenti, hanno dato vita durante i pomeriggi del festival ad una
serie di incontri "tecnici" e non solo, mettendo a confronto
esperienze ed opinioni, o solo semplicemente scambiando due
chiacchiere in compagnia. Un buon modo, questo, per rendersi conto
della mentalità di questo tipo di musicisti, confrontando il loro
rapporto con la vita e la creatività rispetto a quello delle
rock-star o presunte tali. L'ultima
delle quattro serate è stata la più "impegnativa" sotto
il profilo tecnico musicale. Le
quattro ragazze del gruppo Virgule 4 hanno dimostrato che
"l'altra metà dell'avanguardia musicale" è dolce, bizzarra,
sinuosa, accattivante e, soprattutto, estremamente sensibile.
Percussioni, pianoforte, basso e violoncello più le loro voci:
timide all'inizio, le Virgule 4 hanno liberato un ruscello di
canzoni, ora leggero ed argenteo, ora tumultuoso e spumeggiante:
hanno annunciato la pubblicazione del loro debut-album per l'inizio
del prossimo anno, e non sono riuscite a lasciare il palco senza
prima aver concesso un "encore" ad un pubblico entusiasta. Regular
Music è il nome di una vera e propria orchestra inglese:
violini, fiati, pianoforte, percussioni, chitarra e, last but not
least, un soprano dalla voce cristallina. Quello di Regular Music non
è certo il linguaggio delle rivisitazioni spente, o delle
riesumazioni del classico più polveroso (come "mentalità",
intendo). Piuttosto, la loro è una reinvenzione degli schemi
compositivi classici, un po' sulla scia del Philip Glass
pre-Koyaanisqatsi. Il
vento, comunque, si è divertito a togliere i residui di una certa
loro "seriosità", forse poco opportuna in un ambiente come il
MIMI festival, giocando coi fogli degli spartiti e rendendo i Regular
Musicians decisamente più simpatici e più "umani". "...
Il MIMI festival non è concepito come un
incontro tra musicisti ed appassionati. Al MIMI
festival non si viene per stare seduti a guardare una rock-star che
si esibisce. La nostra è una sfida all'immobilismo, alla noia,
all'esistenza grigia. L'idea è il riuscire a creare un ambiente
pacifico dove, col pretesto di ascoltare o di produrre della musica,
gente venuta da lontano possa incontrarsi, discutere, conoscersi fare
amicizia con altra gente venuta da lontano. Non occorre essere dei
musicisti per avere qualcosa da dire: è una cosa che
viene dal cuore..." (Ferdinand Richard,
organizzatore del MIMI festival). E
se queste erano le aspettative, mi sento di affermare, con tutta
tranquillità, che i risultati sono stati eccezionali: danesi,
inglesi, statunitensi, tedeschi, austriaci, belgi, olandesi,
italiani, jugoslavi oltre che francesi, un arcipelago di gente
diversa, di storie e culture diverse. Tutti insieme al MIMI festival. Sono
tornato a casa con l'agenda piena di indirizzi, suggerimenti,
promesse, e tanta nostalgia nel cuore. Arrivederci all'anno prossimo,
al secondo MIMI festival, e arrivederci oggi stesso con tutti gli
amici ed i compagni incontrati e conosciuti: già lontani, eppure
così maledettamente presenti.
Guida
discografica al MIMI
festival e dintorni.
a.
Etron Fou Leloublan (Francia): "Face aux elements dechaines" Lp,
1985 b.
Guigou Chenevier, Sophie Jausserand (Francia): "A l'abri des
micro-climats" Lp,
1985 c.
Bruniferd (Bruno Meiller, Ferdinand Richard) (Francia): "Bruniferd"
Lp, 1986 d.
Les Batteries (Francia, Inghilterra, Stati Uniti): "Noisy champs"
Lp, 1986 e.
Camberwell Now (Inghilterra): "The ghost trade" Lp, 1986
f.
News From Babel (Inghilterra): "Letters home" Lp, 1986
g.
Pascal Comelade (Francia): "La prise de Nankin..." Single,
1984
h.
Joseph Racaille (Francia): "Six petits chansons" Ep, 1983
i.
Regular Music (Inghilterra): "Regular Music" Lp, 1985 j.
Skeleton Crew (Inghilterra, Stati Uniti): "The country of blinds"
Lp, 1986
k.
Robert Wyatt (Inghilterra): "Old rottenhat" Lp, 1985
l.
Cassiber (Inghilterra, Germania): "Beauty and the beast" Lp, 1984 m.
Doctor Nerve (Stati Uniti): "Out to bomb fresh kings" Lp, 1985 n.
Fred Frith (Inghilterra, Stati Uniti): "Cheap at half the price"
Lp, 1983
o.
Orthotonics (Stati Uniti): "Luminous bipeds" Lp, 1986
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