Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 16 nr. 140
ottobre 1986


Rivista Anarchica Online

La rivolta di Ragusa
di Stefano Fabbri

In quest'intervista l'anarchico siciliano Franco Leggio rievoca alcuni momenti del suo impegno militante: dalla rivolta di Ragusa (1945) all'attuale lotta contro la base missilistica di Comiso. La magistratura, nel frattempo, non si è rifatta viva con lui. E lo psichiatra, incaricato di esaminare se Leggio è "matto", lo sta ancora aspettando.

La vita di Franco Leggio come quella di molti ragazzi del Sud è segnata, sin dall'adolescenza, da uno scontro quotidiano con l'ingiustizia: a 14 anni, orfano di padre, è costretto a lavorare nelle miniere d'asfalto di Ragusa. Appena diciassettenne fa per cinque giorni lo sciopero della fame in segno di protesta contro il paternalismo del regime fascista e le regole che impone ai giovani. Da allora in poi porterà avanti un'instancabile opera d'agitazione sociale e cominceranno per lui le "attenzioni" della regia polizia prima, delle gerarchie militari poi, quindi delle "forze dell'ordine" della "repubblica democratica nata dalla resistenza".
Nella conversazione Franco ci guida, lungo il filo rosso dell'antagonismo operaio che s'intreccia con quello dell'azione anarchica, fino ai giorni nostri. Risalgono però all'immediato dopoguerra le vicende più singolari fra quelle narrate in queste pagine. Dalle sue parole emergono i contorni di esperienze intensissime vissute dal proletariato siciliano e cancellate dalla storiografia ufficiale con l'ausilio ed il beneplacito dell'intellighenzia marxista. Esperienze soffocate nel sangue, nella repressione delle quali emerge con troppa evidenza la responsabilità del primo governo "democratico" della Repubblica, ove erano coinvolti tutti i partiti dell'"arco costituzionale", inclusi i comunisti i quali vantavano ministeri come quelli delle Finanze e della Giustizia, tenuti rispettivamente da Mauro Scoccimarro e Palmiro Togliatti.
Ma contrariamente a quanto ci si voglia far credere, la rivolta di Ragusa del '45 ove Leggio fu protagonista, o la stessa occupazione dei cantieri minerari del '49, furono solo due dei momenti di altissima conflittualità fra i tanti prodotti in modo spontaneo, ma assai determinato, da larghe masse di lavoratori meridionali all'indomani della cosiddetta "liberazione" e non certo "casi" isolati. Domenico Tarantini, nel suo libro "La maniera forte, elogio della polizia" (Bertani Editore, Verona 1975), introduce bene a quei fatti: "Il 17 maggio 1944, dopo la costituzione del governo di "unità nazionale", la polizia spara a Regalbuto: due morti. Il giorno dopo, fuoco a Licata sui mietitori disoccupati che tumultuano contro l'ufficio di collocamento: tre morti, centoventi arresti. Ma arriva anche l'occasione di far intervenire l'esercito. Il 19 settembre 1944, gli impiegati del comune di Palermo scendono in piazza perché non ricevono da alcuni mesi lo stipendio. Alla manifestazione si unisce anche una grande folla che tumultua chiedendo lavoro. Contro i manifestanti vien fatto intervenire il 139° reggimento di fanteria, che spara anche con le mitragliatrici: novanta morti e centocinquanta feriti; molti sono bambini e donne".


Quali furono gli antefatti della rivolta di Ragusa?

C'è da sottolineare che in quell'epoca i fascisti ed i monarchici erano in fermento e noi, pensando che stessero organizzando qualcosa, c'eravamo preparati ad ogni evenienza sia facendo opera di agitazione che armandoci. Io all'epoca ero ricoverato nel sanatorio civile di Ragusa per incipiente tubercolosi e per essere presente a riunioni ed azioni ne uscivo di nascosto. Avevamo costituito dei gruppi d'azione. Dal primo giorno, fino alla conclusione della rivolta non vi entrai più.
La scintilla fu data nel dicembre del '44 dal decreto Badoglio che imponeva la mobilitazione per continuare la guerra, questa volta sotto la bandiera degli alleati. La ribellione fu istintiva soprattutto fra le donne, perché la cartolina precetto richiedeva la presentazione dei giovani al più vicino distretto militare. Bisognava andarci, oltretutto, già muniti di coperte e finanche d'un cucchiaio.
Le cartoline vennero presto bruciate in piazza, ed in un primo momento alle manifestazioni parteciparono anche i fascisti la cui presenza veniva di volta in volta da noi denunciata. Le riunioni si tenevano in un campo alla periferia della città, chiamato "'a ciusa", dove ci s'incontrava nelle ore notturne. In particolare ricordo lo smascheramento e l'espulsione da una di queste di un caporione squadrista, tale Rocco Gurriero. Il suo intervento, mirante a fare del malcontento uno strumento in favore dei "camerati del Nord" della Repubblica di Salò, venne interrotto da Franco Calamusa. In seguito al discorso di questo nostro compagno, alla parola d'ordine "non si parte" adottata sino allora, venne aggiunto "ma indietro non si torna", motto che poi si trasformò in "fari u partigianu 'cca".
Intanto polizia, carabinieri e mezzi dell'esercito davano la caccia di casa in casa ai giovani precettati, rastrellando tutti i diciottenni. La mattina del 4 gennaio '45 una pattuglia entrata nel quartiere "'a Russia" - così chiamato perché particolarmente "rosso" - scovò in un'abitazione un gruppo di ragazzi che vennero arrestati e caricati su un camion. Il fatto suscitò l'indignazione delle donne che, vedendosi strappare i figli, corsero da Maria Occhipinti. Questa aveva fondato la sezione femminile del PCI a Ragusa, forte di centinaia di presenze, ma all'epoca dei fatti aveva già abbandonato il partito per costituire, assieme a Erasmo Santangelo, un gruppo comunista dissidente. Fu proprio lei che, uscita precipitosamente di casa si gettò sotto le ruote del camion quando l'autista lo stava mettendo in moto; le altre poterono così liberare i cinque ragazzi che, protetti dalla massa vennero sottratti alla coscrizione.
Nel frattempo alcuni giovani del gruppo del quale facevo parte, stavano trasportando nelle vicinanze dei fucili "91" e delle bombe a mano rubati da una masseria di clericali e monarchici. Vennero però intercettati dai carabinieri e all'intimazione dell'alt risposero aprendo il fuoco".

Le decisioni venivano prese chiaramente al di fuori dei partiti. Si trattava di un confluire spontaneo di spirito rivoluzionario e volontà di riscatto?

Sì. Da quel momento iniziò la mobilitazione e la sera ci ritrovammo in trecento, armati, al solito appuntamento dove prendemmo la decisione di dare l'assalto ad un posto di blocco in contrada Beddio, un importante nodo stradale. Il giorno dopo si passò nelle abitazioni per promuovere l'azione invitando ognuno a portare con sé le armi di cui poteva disporre. La mattina seguente dopo un conflitto a fuoco i militari vennero disarmati.

Parteciparono anche donne?

All'assalto, come riportato anche nel suo libro "Una donna di Ragusa" (Landi Editore, Firenze 1957), partecipò la stessa Maria Occhipinti.

Che successe in seguito?

Ci venne segnalata un'autocolonna militare proveniente da Catania. Ci disponemmo quindi in modo adeguato e fermammo e catturammo tutto il convoglio. C'impadronimmo così di tre camion , alcune casse di bombe a mano e fucili, una mitragliatrice pesante, altri materiali e viveri. Facemmo inoltre cinquanta prigionieri in tutto, (tra i quali dieci fra carabinieri e finanzieri) che vennero dati in consegna ad alcuni di noi e portati all'acquedotto.

Gli altri si diressero verso il centro della città?

Esattamente. Per prima cosa occupammo il campanile della chiesa di via Ecce Homo, dove piazzammo una mitragliatrice pesante. Da lì controllavamo la strada che divide in due la città, in fondo alla quale c'era un edificio scolastico nel cui poggiolo era di stanza una pattuglia di cinque militari, anche loro muniti di una mitragliatrice pesante, con la quale controllavano la prospettiva sia da nord che da sud. Ci si pose così il problema di neutralizzare questa postazione.

Come avete fatto a raggiungerli senza essere visti?

Non si poteva naturalmente scendere lungo i marciapiedi. Passammo quindi di casa in casa per l'adiacente ed aristocratica via Roma, facendo irruzione nelle residenze di molti tra i signorotti locali, ed attraverso i tetti giungemmo di fronte all'obiettivo. Proprio da dentro il tribunale, da un piano sopraelevato rispetto al balcone dove erano i soldati, lanciammo una bomba a mano che fece saltare il portone della scuola. Vista la malaparata, i componenti del presidio si consegnarono a noi. In seguito venne occupato anche il distretto militare.
Ulteriori prigionieri venivano fatti frattanto da altri gruppi di rivoltosi sorti spontaneamente. La sommossa si stava estendendo rapidamente a tutta la città: le pattuglie venivano disarmate e con loro gli ex fascisti, circondate la tenenza dei carabinieri e la questura. Eravamo ormai padroni del campo.
Gli agrari vennero espropriati dei loro averi ed ottenemmo così anche quanto ci serviva per approvvigionarci.

Che posizione prese il Partito Comunista?

Venne inviato sul posto con urgenza il segretario della Federazione Regionale, Gerolamo Li Causi, membro anche della Direzione Nazionale. La sua posizione era nettamente contraria a quanto stava accadendo ma non poté fare altro che verificare la completa rottura con la base stessa del partito, tanto che si rinchiuse all'interno della federazione senza mai farsi vedere.

Quale era la composizione politica dei rivoltosi?

La base del PCI era con noi, ma la maggioranza era gente comune o operai delle miniere che il nostro gruppo conosceva bene. Infatti nei cantieri di Ragusa, nei quali tra l'altro io ho lavorato dall'età di 14 anni, il livello di coscienza era stato sempre piuttosto alto. Nel '44 poi, di notte, assentandomi dall'ospedale, assieme agli anarchici Mario Perna, minatore e Pino Catanese, aiutante tipografo, iniziammo la stesura del manoscritto "La Scintilla darà la Fiamma", foglio che veniva diffuso tra i "picciaruoli" delle miniere e che indubbiamente aveva contribuito a preparare il terreno per l'imminente rivolta.

Ricordi qualche episodio particolare?

Ricordo che disarmammo e chiudemmo nella sua abitazione, sotto sorveglianza, un certo Puleo, ex capitano della milizia fascista che deposti gli abiti, faceva ancora il nostalgico anche dopo la caduta del regime.

Per i prigionieri come avete fatto?

Erano già quasi 200 e ci si poneva la questione di come sfamarli. Debbo dire che a questo proposito accadde qualcosa di estremamente significativo: le famiglie degli operai e dei contadini, che spesso avevano già dei figli nell'esercito al Nord, si immedesimarono nella situazione dei militari catturati e cominciarono a portar loro spontaneamente da mangiare. Da parte nostra ci preoccupammo di trovare degli abiti civili perché avevamo l'intenzione di far sì che tornassero liberi alle loro case.

Che ripercussioni ebbero all'esterno i fatti di Ragusa?

A Catania ci fu un assalto al tribunale militare che però rimase un fatto isolato. Invece la rivolta si estese a tutti i paesi della provincia: Vittoria, Comiso, Acate, Modica, Sicli, Monterosso. In alcuni di questi, come a Giarratana, disarmati i militari di stanza nel luogo, i latifondisti vennero espropriati delle riserve di granaglie e frumento, distribuite gratuitamente alle famiglie dei lavoratori, soprattutto per opera del compagno Bartolo Nasello. Generalmente vennero bruciati gli uffici delle imposte ed i distretti.

Dopo aver ottenuto il controllo sulla città che provvedimenti avete preso per difendere le conquiste raggiunte?

Cercammo di bloccare gli accessi e ci fortificammo nella contrada Annunziata per impedire il passaggio di eventuali rinforzi. Di lì a poco, infatti, arrivarono i primi plotoni da Catania e Siracusa, appoggiati da un aereo che controllava le nostre posizioni. Si trattava della "Divisione Sabaudia".
Cominciarono i primi scontri e presto finirono le munizioni delle nostre due mitragliatrici pesanti. Vennero a scarseggiare anche le altre scorte di proiettili così che dopo quattro giorni e quattro notti i combattimenti terminarono del tutto e fummo costretti ad arretrare sotto l'incalzare del fuoco. I militari, appena entrati in città cominciarono a reprimere ed a rastrellare.

Maria Occhipinti, nel suo libro, citando le cifre ufficiali sull'insurrezione in tutta la provincia parla di 18 morti e 24 feriti fra carabinieri e sodati, e di 19 morti e 63 feriti fra gli insorti, aggiungendo però che le stime reali potevano essere sensibilmente diverse. Tu rispetto a ciò cosa ricordi?

Il numero dei morti non s'è saputo mai veramente. Siamo andati a fare un'inchiesta in comune e non ci hanno mai fornito cifre esatte. S'è parlato, per Ragusa, di 5 o 6 morti fra i rivoltosi e di 11 (ma c'è anche chi dice 17) fra i militari. "L'Unità" diede la notizia della rivolta solo con i militari già all'opera quando, senza neanche denunciare i pericoli insiti nella grande libertà d'azione concessa alle forze armate, il 9 gennaio '45 titolava proditoriamente: "Rigurgiti della reazione fascista. I latifondisti siciliani contro il popolo e contro l'Italia".

Che effetti ebbe la repressione?

Per tre, quattro giorni i soldati impazzarono nella città. Passando per le abitazioni portavano via tutti gli uomini che trovavano e con loro tutto ciò che gli faceva comodo: alimenti, lenzuola, suppellettili ed altro. Dalle malversazioni non vennero risparmiate neanche le donne e molti degli arrestati, una volta condotti in questura, furono costretti a subire torture.
Nonostante ciò in tanti riuscirono a scappare. Alcuni si rifugiarono in altre città dove poi si stabilirono. Ci fu, anche nel nostro gruppo, chi addirittura migrò verso l'America Latina. Io ed altri ci nascondemmo sino alla fine della bufera. A quel punto, salutati i compagni, riuscii a rientrare indenne al sanatorio. Lì il direttore decise in un primo momento di espellermi, ma anche per l'intervento degli altri sanitari fui riammesso con l'obbligo di non muovermi più. Così feci, ed in giugno venni dimesso.
Fino ad allora la polizia non aveva avuto nessuna prova contro di me; solo i carabinieri, sospettando la mia partecipazione ai moti erano venuti a cercarmi ma, sia il portiere che la suora del reparto (la quale arrivò, per difendermi, a giurare sulla Bibbia), avevano dichiarato che non mi ero mai allontanato. Di lì a poco però venni denunciato con una telefonata da una dottoressa, la quale affermò che durante i giorni degli scontri mi ero assentato dall'ospedale passando per la finestra. Arrestato in casa, fui associato direttamente alle carceri dove rimasi per 16 mesi. Non vi fu processo poiché incorsi nella cosiddetta "amnistia Togliatti" (quella che rese l'impunità anche ai fascisti).

E dopo la tua permanenza in galera che si formalizza il gruppo "La Fiaccola"?

Fino ad allora, pur essendo anarchico il nostro era un gruppo informale.
Mentre ero in carcere ebbi il sostegno di Giuseppe Fiorito di Catania e dell'avvocato Albanese, che mi diedero tutta l'assistenza possibile. Quando fui fuori li andai quindi subito a trovare. In seguito, scendendo per Siracusa, passai da Umberto Consiglio e tramite lui venni a sapere che a Modica c'era un vecchio compagno anarchico: Giuseppe Alticozzi. Fu proprio questi che durante un incontro a Ragusa ci suggerì di chiamare il nostro gruppo "La Fiaccola". Eravamo nel 1946.
Cominciammo subito a prendere contatti con gli altri compagni della Sicilia e della Penisola. Attraverso Alfonso Failla stringemmo rapporti anche con il gruppo di Messina di Placido La Torre, Gino Cerrito, e degli altri. A Ragusa avevamo lasciato al sanatorio un buon numero di compagni, e con il loro apporto realizzammo tra i degenti il necessario per stampare un numero unico "La Diana".
Intensificammo quindi l'attività propagandistica organizzando conferenze con Failla, Consiglio, Carbonaro (di Bologna) ed altri.
Anche Maria Occhipinti, dopo avere subito una pena di 22 mesi, entrò nel nostro circolo, che aderì poi alla Federazione Anarchica della Sicilia Sud-Orientale.
Pochi mesi appresso io tornai a lavorare nelle miniere. Riprendemmo quindi un'intensissima propaganda tra i minatori fino a che, nel '49, la direzione minacciò 200 licenziamenti fra impiegati ed operai. Fu allora che presero l'avvio forme di lotta durissime.
Tutti rifiutarono il piano padronale, naturalmente anche i comunisti ed i sindacati. Ma noi riuscivamo sempre a scavalcare il PCI: se questi consigliava uno sciopero di tre giorni, appoggiati dai lavoratori imponevamo lo sciopero ad oltranza; se scendeva sullo stesso terreno portavamo la gente ad occupare il cantiere; se quindi dopo vari tentennamenti anche la Camera del Lavoro aderiva a tale forma di lotta, si proponeva l'autogestione come unico sbocco vincente.

Quanto durò la lotta?

Quasi due mesi. Con l'occupazione ad oltranza e l'autogestione licenziammo tutti gli elementi ligi alla direzione: alcuni tecnici ed i capi cantiere. Vennero bloccati gli accessi alle miniere e tenuti a bada poliziotti e carabinieri venuti a portare un vero e proprio assedio. Eravamo circa 1500 fra manovali, picconieri, minatori ed aiutanti; la lotta riguardava tutte le miniere di Ragusa del gruppo ABCD (Asfalto, Bitume, Catrame e Derivati).

Che contatti avevate con l'estero?

Erano le donne che facevano da tramite fra noi e l'estero. Lasciavamo entrare anche tutti i politici ed i sindacalisti ma con l'impegno di voler accettare il contraddittorio. Comizi, conferenze e trattative dovevano essere tenuti all'aria aperta.

Come andò a finire?

I sindacati e gli esponenti del PCI, senza chiedere il parere dei lavoratori, arrivarono ad un "accordo" separato: accettarono 40 licenziamenti indiscriminati a scelta della direzione dell'azienda. Il consigliere regionale ing. Nicastro ed il deputato Virgilio Failla, ex fascista, ambedue del PCI, ci comunicarono pubblicamente che si richiedevano "40 teste". Vennero trattati come meritavano, a schiaffi e sputi, da vigliacchi e traditori.
Dopo questa sorpresa, grazie quindi all'opera di pompieraggio delle burocrazie politiche e sindacali, gli operai decisero di abbandonare le miniere e si ritirarono in assemblea permanente fuori dal paese, tanto che la polizia e padronato temettero il peggio.
Ma le privazioni e la stanchezza poterono più delle minacce e la lotta venne gradatamente riassorbita. Dopo 7 giorni si tornò al lavoro e passatine altri 20 cominciarono a fioccare i licenziamenti.
Io venni licenziato in tronco per aver strappato un ordine di servizio. Decisi però di continuare a presentarmi sul posto di lavoro, dove ero stato conduttore dei forni, e nonostante venissi spesso prelevato e condotto in questura, continuai così per un altro mese. Mi si propose, se avessi accettato il licenziamento, una liquidazione di 70.000 lire. La rifiutai.

Vi furono altre lotte in quegli anni?

In tutto il Sud c'era un forte movimento d'occupazione delle terre, nel quale si profusero le migliori energie dei contadini, che credevano in un cambiamento concreto, mentre per il PCI si trattava essenzialmente di un gioco demagogico per condurre una lotta più simbolica che reale. Molte azioni vennero così abbandonate a se stesse ed all'opera della reazione.
Si praticavano poi i cosiddetti "scioperi del lavoro".

Tu però di li a poco ti allontanasti da Ragusa.

Mi trasferii a Napoli già nel 1950 e vi rimasi per 6 anni. Qui Giovanna Berneri, che insieme a Cesare Zaccaria animava il gruppo "Volontà", mi trovò un lavoro nella tipografia dove si stampava l'omonima rivista. Andai poi a lavorare come manovale edile nei cantieri della SILM.
A Napoli collaborai anche con il gruppo "Anarchismo" di Giuseppe Grillo ed Emanuele Visone.
In seguito fui a Genova dove per vivere scaricavo merci al porto. Qui rimasi qualche anno e presi precisi contatti con la resistenza libertaria spagnola e con i suoi esponenti dell'interno, fra cui Alberto Facerias, e dell'esterno, come Cipriano Mera che rappresentava, con altri, l'esilio anarcosindacalista iberico in Francia.
Fra le altre cose fui delegato dell'Unione Sindacale di Genova al congresso AIT (Associazione International des Travailleurs) di Bordeaux. Partecipai quindi all'attività del movimento'"Nuova Resistenza" che aveva sede all'interno dei "Gruppi Anarchici Riuniti" di Genova.
Tornai a Ragusa proprio nel luglio '60 quando si profilavano tentativi di golpe, poiché anche con altri compagni ci si rese conto che, a causa dell'emigrazione, il Sud s'era andato svuotando di militanti rivoluzionari.

Fu allora che sorse l'editrice "La Fiaccola"?

Nei primi anni '60 rilevai la collana "Anteo", alla quale affiancai quella de "La Rivolta" e cominciai l'attività editoriale con "La Fiaccola".
Il resto è storia recente.
Sono stato tra i fondatori della rivista "Anarchismo", dalla quale sono uscito nel '78 quando la redazione si trasferì a Forlì.

Negli anni '80 il gruppo di Ragusa ha avuto una parte notevole nella promozione della campagna contro l'installazione dei missili Cruise.

Fummo noi anarchici di Ragusa a promuovere la costituzione del "Gruppo Provvisorio" ed a iniziare l'agitazione contro l'installazione dei missili Cruise. Tra le altre cose si creò il giornale "Sicilia Libertaria" che ha affiancato sin dall'inizio quella campagna, la quale continua tutt'ora con comizi ed iniziative dopo che nel 1983, con il contributo del movimento anarchico a livello nazionale, si tentò l'occupazione della base di Comiso.