Rivista Anarchica Online
Un po' di
chiarezza
di Andrea Papi
C'è
nell'aria un'esigenza sempre più impellente di separazione tra
chi vuol continuare all'interno del proprio limbo e chi invece sente
la necessità di un'inversione di tendenza nel far politica.
C'è nell'aria
un'esigenza sempre più impellente di chiarezza. Chiarezza del
senso delle proprie teorie e delle proprie pratiche; chiarezza della
propria identità; chiarezza insomma del proprio esserci e del
proprio agire. Senza acquistarla diventa sfibrante il dire, il fare e
il proporsi. Qualsiasi movimento, pena la sua estinzione o, peggio,
la mera sopravvivenza, non può trascinarsi a lungo nei meandri
ambigui del proprio ghetto mentale e psicologico. Se vuole vivere
deve superare l'ostacolo snervante della mancanza di chiarezza di se
stesso. La non chiarezza
nostra risiede nel fatto che continuiamo a dire, in alcuni casi a
blaterare, senza riuscire a trovare un modo coerente di fare, che sia
il referente pratico del nostro stesso dire. Certo, le nostre
affermazioni sono conseguenti, le più radicali, a volte
talmente nette che non ammettono possibilità di insinuazioni o
false interpretazioni. Mentre il nostro fare è quasi
inesistente o, perlomeno, talmente circoscritto da non riuscire,
quando ci riesce, che a proporsi a sé stesso. In definitiva
non facciamo altro che parlarci addosso, senza riuscire ad
interessare altri che noi o, quando va bene, qualche altro vagamente
interessato, ma quasi mai disponibile. Eppure l'anarchismo
ne ha di cose da dire e, potenzialmente, da fare. Una proposizione
politica rivoluzionaria, quale in effetti esso è, o riesce a
proporsi sul piano fattivo della trasformazione, oppure è
destinata a vagare nel limbo meramente astratto della letteratura
utopistica che, se va bene, può anche diventare pasto
prelibato di collezionisti o di amanti raffinati. Come anarchico sono
convinto che nessun compagno in cuor suo desideri contribuire a una
simile fine. Ma nel contempo sono convinto che, se non si riuscirà
a trovar rimedio allo stallo che stiamo vivendo, tale fine diventerà
ineluttabile, relegandoci negli studi poco allettanti dei ricercatori
storici specializzati. Non è
difficile constatare quanto ciò che affermo corrisponda al
vero. Quello che proponiamo, o più semplicemente diciamo,
circola praticamente soltanto all'interno della nostra ristretta area
composta quasi esclusivamente di compagni che, con varie sfumature,
si riconoscono facenti parte del movimento anarchico. All'esterno di
questa area la nostra influenza è di fatto inesistente, col
risultato poco edificante e, soprattutto, molto poco incoraggiante,
che di noi non si parla affatto. Non solo, le nostre tematiche e le
nostre eventuali proposte non sembrano interessare a nessun altro che
a noi stessi, al punto che qualunque cosa diciamo viene riferita
soltanto dai nostri organi di trasmissione del pensiero, letti
esclusivamente dalla stessa delimitata e limitante area prima
menzionata. Non apparteniamo
insomma al dibattito generale sui problemi dell'emancipazione attorno
ai quali oggi si muove la società. Tuttavia le nostre
tematiche sono sempre presenti. Personalmente mi riconosco
all'interno del movimento anarchico dal mitico sessantotto e posso
dire, per esperienza diretta, che le tematiche attorno a cui si sono
mossi i vari movimenti sorti spontaneamente da allora sono sempre
state libertarie, addirittura in certi casi anarchiche. Dalla
contestazione dell'autorità e dell'autoritarismo, alla
proposizione del metodo assemblare come momento decisionale, alla
rotazione degli incarichi, c'è sempre stata un'esplicita
richiesta nel senso della libertà che si opponeva alla cultura
dominante del potere e della gerarchia organizzata. Ma a questo
libertarismo spontaneo, da parte del movimento specifico non è
mai corrisposta un'azione anarchica in grado di produrre il salto di
qualità, necessario per passare da una generica richiesta a
una proposizione politica rivoluzionaria. Di riffa o di raffa, il
movimento anarchico nel suo complesso non è mai riuscito ad
essere l'interprete del libertarismo espresso spontaneamente, come
invece avrebbe dovuto essere secondo la natura delle cose. Al
contrario si è sempre verificato che i professionisti della
politica si siano impossessati di queste tematiche "nostre",
per ricondurle dentro la loro logica autoritaria, per recuperarle al
senso del dominio.
Uscire dal
ghetto
A dire il vero,
negli ultimi anni c'è stato un certo fermento, un tentativo di
svecchiamento, una tensione di ricerca di chiarezza per dar corpo a
un bagaglio teorico in grado di elevare l'intervento anarchico, ormai
stremato da storiche sconfitte. Ma il punto non è questo. Il
problema che vogliamo sollevare resta nel fatto che è un
dibattere del tutto interno, circoscritto dentro il ghetto in cui,
volente o nolente, si trova chiuso il nostro movimento. Si tratta
essenzialmente di un dibattere fatto di parole, di una ricerca di
concetti, mentre un movimento avrebbe oltremodo anche bisogno di
agire, vivendo un confronto costante tra teoria e pratica. Se l'una a
volte riesce anche ad essere interessante, l'altra irrimediabilmente
langue. La nostra
propaganda è quasi solo verbale, sia orale che scritta,
usufruente di strumenti poco adeguati all'oggi, periodici, libri al
di fuori dei canali di distribuzione, manifesti, conferenze, a volte
comizi. Uno stile senza dubbio dignitoso, ma non più al passo
coi tempi. Siamo all'epoca dei mass-media in cui ogni individuo
riceve quotidianamente una quantità enorme di informazioni,
attraverso i quotidiani a grande tiratura, la radio, la televisione,
la pubblicità massiccia di tutto. Subiamo un'inflazione
esagerata di parole e di immagini, il cui effetto immediatamente
dirompente è quello di rendere minime le riflessioni e la
ricezione. Noi aggiungiamo altre parole alla già enorme
produzione di esse. Soprattutto ce le diciamo quasi esclusivamente
fra di noi, esclusi dal resto. Non fraintendiamo.
Io sono un sostenitore della parola, della trasmissione del pensiero,
della propaganda verbale e sono fermamente convinto della loro
efficacia. Ma questo non mi esime dal rendermi conto che sono del
tutto insufficienti, soprattutto quando si constata che non riescono
ad uscire all'esterno, rimanendo relegate ad uno scambio di idee tra
compagni, una specie di dibattito in famiglia. Ma più di ogni
altra cosa mi sono reso conto che il parlare non è di per sé
uno strumento utile alla trasformazione sociale. E l'anarchismo si
qualifica come atto del pensiero e dell'agire. Mancando uno dei due
viene vanificato anche l'altro, perché tra loro ci deve essere
uno scambio continuo. Parlando dell'agire
non mi riferisco tanto alle cose che pur in qualche modo gli
anarchici fanno, assicurando una presenza e una testimonianza
importantissime. Bensì intendo una linea d'azione coerente che
si ripropone di volta in volta con caratteristiche identificabili,
efficaci, incisive e, possibilmente, un minimo programmate.
Attualmente manca del tutto nel nostro modo di presentarci e di fare
propaganda. Il più delle volte le nostre scelte sono
episodiche, occasionali e sganciate da un contesto generale in grado
di qualificarci. In altre parole manchiamo di stile. Parliamo tra
pochi addetti di abolizione, eliminazione e superamento dello stato e
del dominio, senza riuscire ad essere conseguenti ed energici negli
atti della propaganda. Le nostre parole, perdendosi in un oceano
verbale che ci sovrasta, non riescono a trovare un corrispondente
pratico che dia, a chi non è tra le nostre file, un'immagine
chiara di ciò che siamo e di ciò che vogliamo. Il problema
dell'immagine è da tenere ben presente. Nella società
dello spettacolo diventa drammatico non riuscire ad averne una
confacente alle preposizioni in cui ci si riconosce. Dobbiamo
riuscire a parlare alla gente, a stimolarla, a farci conoscere,
identificare e, possibilmente, desiderare per quello che
rappresentiamo. Non basta sentirsi nel giusto, quando il giusto
rimane nel limbo aristocratico del nostro pensiero e del nostro
esiguo movimento. Da movimento circoscritto nel ghetto dobbiamo
trasformarci in movimento che influenza e trasforma il sociale cui si
riferisce, proprio perché l'anarchia è trasformazione
di tutta la società alle radici, la stravolge e la rivoluziona
determinando relazioni nuove tra tutti i suoi componenti. Anarchia è
rivoluzione dei rapporti tra gli esseri umani e non deve rimanere
patrimonio elitario di alcuni, sganciati da tutti gli altri perché
non trova il modo di rapportarsi e di agire.
Il problema
dell'identità
Ma al di là
di questo stallo l'anarchismo ha molte cose da dire, soprattutto oggi
in cui il mondo sta vivendo una fase drammatica, perché gli
uomini sentono una profonda insicurezza dovuta all'incertezza del
domani. È ormai diffusa la consapevolezza che i sistemi
politici stanno progressivamente disgregando l'immenso patrimonio di
ricchezza naturale messoci a disposizione dal pianeta terra.
Assistiamo con angoscia a processi di distruzione irreversibili, la
cui gradualità di devastazione ha una progressione
esponenziale. Così è dell'inquinamento delle acque,
dell'aria e della terra; come pure della contaminazione chimica
sempre più tossica della catena alimentare; come del costante
pericolo di rendere radioattivo l'ambiente. Senza contare il rischio,
continuamente minaccioso, di una guerra termonucleare. Tutte le
manifestazioni di potenza dell'uomo, consolidatesi in secoli di
cultura violenta e oppressiva, sanno di morte e distruzione e
determinano un diffuso senso di impotenza che, troppo spesso, genera
un atteggiamento di rassegnazione. Rispetto a questi
problemi generali che sempre di più ci sovrastano,
l'anarchismo è potenzialmente una soluzione credibile, perché
a livello teorico identifica la causa che sta a monte, il principio
produttore e propulsore che rende possibile e rigenera in
continuazione l'annichilimento progressivo cui, sembra, siamo
destinati. La sua proposta ultima, l'eliminazione del principio del
dominio e il conseguente superamento dell'organizzazione del potere
gerarchico sulla società, si definisce proprio partendo dalla
constatazione che sono il principio e il valore del dominio il male
da cui bisogna liberarsi. Da millenni l'uomo è oppresso da
questi presupposti, che continuano a perpetuarsi creando sempre
violenza, sopraffazione e ribellione. L'anarchia appunto è il
ribaltamento globale di questo stato di cose, l'unica proposta seria
di organizzazione sociale senza il principio di autorità
istituzionale permanente. Ma il fatto che sia
potenzialmente una soluzione credibile è del tutto non
sufficiente. Bisogna renderla palpabilmente credibile e dare un volto
identificabile e concreto a questa credibilità. Per farlo
bisogna proporsi in modo lineare e chiaro, entrare in contatto con
gli altri per ascoltarli e farsi ascoltare, essere presenti nelle
situazioni in modo stimolante e vivo, mettere in evidenza il nostro
modo di essere e le nostre proposte. Bisogna che la nostra identità
sia conosciuta, apprezzata, dibattuta. Ma è evidente che
bisogna avere un'identità riconoscibile nei fatti e nelle
parole, per riuscire ad esser partecipi del confronto collettivo sui
vari temi sui quali abbiamo cose da dire. Oggi tutto ciò
non avviene. A mio avviso, non solo per colpa della congiura del
silenzio che ci sovrasta, ma perché, in un certo senso, il
movimento anarchico ha scelto di stare ai margini. Sembra quasi
soffrire di complessi che gli impediscono di essere partecipe, come
pure gli spetterebbe di diritto, mentre continua ad accettare di
scriversi e di parlarsi addosso, adducendo come alibi che ha pochi
mezzi o che i mass-media lo ignorano. Giustificazioni che in realtà
sono di comodo. Tanto è vero che, attraverso le varie
organizzazioni di cui il movimento è composto, gli anarchici
non aderiscono quasi mai a nulla; si rifiutano di essere dentro alle
cose e ai vari movimenti che sorgono. Illusi dall'alto della loro
purezza, giudicano dall'esterno le cose di chi è diverso da
loro spesso con sufficienza e distacco. Scelgono di starne al di
fuori, dal momento che le cose non vengono definite nel modo che
vorrebbero. Sembrano affetti dalla paura di venire intaccati nella
propria purezza, sortendo, purtroppo, l'effetto di venire sempre
esclusi e di lasciare ad altri, in particolare ai politici di
professione, la gestione autoritaria e il recupero di ogni movimento
che sorge su basi emancipatorie. Gli altri non ci richiedono, mentre
noi li giudichiamo e snobbiamo. Così rimaniamo al di fuori
senza riuscire ad appartenere al dibattito che pure, per le tematiche
espresse, ci appartiene più di ogni altro. Ma l'assenza è
ancor più rimarcata dal fatto che manca completamente una
linea di azione in grado di qualificarci, distinguerci e di dare
un'immagine pubblica chiara e inequivocabile delle nostre proposte.
Siamo abbastanza bravi solo quando lo stato ci attacca e siamo
costretti a difenderci. Così fu per "la strage di stato",
oppure per il caso Giovanni Marini, oppure ancora quando fu
denunciata la redazione del periodico "Anarchismo" ed
arrestati i suoi componenti. In quei casi siamo sempre riusciti a
difenderci bene. Mentre non siamo propositivi nella lotta per
l'emancipazione rivoluzionaria. Continuiamo a parlarci addosso e a
distinguerci per le affermazioni di principio. È quasi un
pianto! La cosa più
grave però, che ci impedisce di portare chiarezza operativa
rispetto alla situazione attuale, è un'altra: il nostro agire,
quando c'è, viene facilmente confuso con quello di altri,
tenendo conto anche che fra noi non c'è unità e che non
abbiamo una risposta soddisfacente rispetto all'impellente problema
del che cosa fare. Direi, anzi, che c'è una certa confusione e
una buona dose di insicurezza. Il che non sarebbe un gran male se non
fosse oltremodo paralizzante, perché di fatto non serve ad
altro che a farci permanere nella situazione di stallo che
lamentiamo. Mi riferisco in
particolare a tutta una serie di comportamenti che, a livello di
immagine, sono identificati con quelli della cosiddetta "autonomia
organizzata". Comportamenti che, guarda caso, non si manifestano
quasi mai in situazioni veramente autonome, ma appaiono all'interno
di manifestazioni e mobilitazioni indette da altri. Si inseriscono e
cercano di usufruire dell'occasione per spingere i presenti allo
scontro, ridicolmente armato, con le forze dell'ordine. A parte ogni
considerazione di opportunità politica, il voler coinvolgere
chi non è preparato e non ha scelto in azioni che, con molta
facilità, portano a forme repressive da parte della polizia, è
di per sé autoritario e prevaricatorio. Non a caso viene
teorizzato e reso operante da un'organizzazione intrinsecamente
autoritaria e stalinista, qual'è appunto l'autonomia
organizzata. Ma c'è un'altra considerazione ben più
importante. A livello di immagine questi comportamenti non sono
affatto producenti né tantomeno edificanti; anzi portano
progressivamente, come mi sembra stia avvenendo, ad un isolamento
sempre meno recuperabile. E non credo che gli anarchici soffrano del
bisogno di sentirsi ulteriormente isolati. D'altro canto non mi
sembra che ci siano altre azioni, se non qualche rara manifestazione,
mostra o dibattito pubblico. Come si diceva più sopra, il lato
operativo langue. È
nell'aria un'esigenza sempre più impellente di separazione.
Separazione tra chi vuole continuare all'interno del proprio limbo, o
ghetto che dir si voglia, fatto di dichiarazioni, di dibattiti
interni o, quando se ne presenta l'occasione, di azioni che si
confondono con comportamenti non proprio nostri, e chi invece sente
con forza la necessità di un'inversione di tendenza nel fare
politica. C'è un bisogno, a mio avviso molto forte, di essere
parte integrante del dibattito più generale sui temi che
riguardano l'emancipazione umana, di propugnare un modo nuovo e
diverso di essere e di presentarsi, di agire in maniera cristallina,
identificabile senza ambiguità di sorta. La ricerca,
insomma, di un modo totalmente nostro, capace di dare un'immagine
dell'essere anarchici più confacente di quella attuale,
impregnata di incaute insicurezze e di un perdente bisogno di
sopravvivenza.
Azione diretta o
tiro diretto?
Da un po' di tempo
da più parti si parla sempre più frequentemente di
"azione diretta" al punto che in certi casi è quasi
diventata una parola d'ordine che dovrebbe distinguere certe scelte
d'azione. In un certo senso potenzialmente essa ha questa
caratteristica, di differenziare appunto delle scelte da altre, ma
questa differenziazione originaria non corrisponde sempre a quella
che oggi frequentemente viene usata. Vediamo di fare un
po' di chiarezza. "Azione
diretta" significa letteralmente azione non delegata, cioè
svolta dall'individuo per propria libera scelta e in piena
consapevolezza, senza che altri in qualche maniera decida per lui. La
sua caratteristica non è situata dunque nel tipo di azione,
bensì nel metodo di scelta e di messa in atto con cui
l'individuo decide di operare. Ne risulta che un azione è
diretta per le modalità con cui si svolge, indipendentemente
dal fatto che sia violenta, nonviolenta, di sabotaggio, o di altro
tipo. Il fatto è
che negli ultimi tempi, purtroppo, si tende troppo spesso ad
identificarla esclusivamente con azioni violente legate al cosiddetto
illegalismo di massa (linguaggio diffuso nel "sinistrese").
Il che, intendiamoci bene, può anche essere vero, ma non per
il significato che troppo frequentemente le viene attribuito. È
vero infatti se quell'azione violenta e illegale è stata
scelta consapevolmente e concordemente con altri senza intromissioni
di sorta, ma non certamente perché è violenta e
illegale. Anzi! Se per caso
una minoranza ristretta, con chiare pretese dirigenziali ed
egemoniche, decide a parte un'azione del tipo suddetto, poi mi
coinvolge, senza prima consultarmi, pretendendo tra l'altro che vi
partecipi convinto di svolgere un'azione diretta, si tratta più
che altro di azione ordinata, in alcuni casi imposta, in cui è
evidente una parte leaderistica ed una gregaria. Semmai, in questo
caso, di diretto c'è soltanto il tiro che viene fatto contro
un obbiettivo, o polizia, o caserma, o qualsiasi altro, di
sampietrini, uova, pomodori, ortaggi vari, ecc... Non più
azione diretta, dunque, ma più semplicemente e correttamente
"tiro diretto", fra l'altro delegato, se non addirittura
imposto. Riprendiamo dunque a
parlare di azione diretta, perché la riteniamo giusta e
realmente rivoluzionaria. Ma parliamone per favore in termini che
corrispondano al senso reale che le appartiene. Altrimenti, non solo
facciamo confusione, ma soprattutto facciamo cattiva propaganda,
regalando alla perfidia dei mass-media la possibilità di
denigrare e screditare il concetto di azione diretta, assieme a tutti
coloro che vi si riconoscono e la propugnano.
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