Rivista Anarchica Online
A dir poco,
ambiguo
di Alessandra Calanchi
È da mesi in testa alle classifiche. Ha fatto incetta di Oscar. Da molti è
considerato un coraggioso film autocritico. Ma in "Platoon"
la guerra viene vista, nel bene e nel male, come maestra di vita. E
l'esercito, comunque, ne esce con le mani pulite. Passando in
rassegna altri film sulla sporca guerra del Vietnam, emerge che altri
sono stati i film davvero coraggiosi. Per esempio...
A dodici anni di
distanza dalla fine di una guerra che fa ancora discutere, l'uscita
sugli schermi di un film come Platoon (O. Stone, 1986) è una
nuova occasione per riflettere su un evento ancora attuale e sul modo
in cui questo evento è stato variamente affrontato dal cinema
americano. In realtà, viene
da pensare che Platoon sia arrivato con sei o sette anni di
ritardo: nel 1986-87, dopo che i film migliori sul Vietnam sono già
usciti da tempo, e dopo che, malgrado tutto, gli Stati Uniti hanno
continuato a produrre film reazionari e propagandistici sull'esercito
americano come Ufficiale e Gentiluomo, Rambo II e Top
gun, un film come Platoon, nonostante la sua drammaticità,
rischia di apparire, nella migliore delle ipotesi, come un esercizio
di stile che si va a sommare ad altri senza aggiungere qualcosa di
veramente nuovo. Non solo, ma la spettacolarità e il compiacimento
di alcune scene "realistiche", così come la retorica
opposizione buono/cattivo anche all'interno dello stesso esercito,
finiscono per apparire ambigue al punto che in certi momenti si perde
la sicurezza che esista una totale diversità fra Platoon e i
vari "filmacci" citati sopra.
La guerra
maestra di vita?
In realtà
l'immagine che ci viene data dell'esercito è comunque quella di una
grande famiglia in cui, se esistono innegabili dissidi, è sempre in
fin dei conti possibile la convivenza di buoni e cattivi, ricchi e
poveri, bianchi e neri. Ciò che viene deprecato è la "perdita
della innocenza" mentre sappiamo che, come ci insegna il grande
poeta inglese William Blake, anche l'innocenza senza esperienza è
colpevole. Altro sarebbe stato suggerire che sono gli stessi
presupposti - l'innocenza, appunto, o presunta tale - a causare gli
effetti che vediamo - in questo caso la guerra, ma potrebbe essere la
disoccupazione, la violenza urbana, ecc... Un messaggio meno
ambiguo avrebbe richiesto o una posizione più drasticamente
ideologica contro quella guerra, o una posizione più
decisamente pacifista contro tutte le guerre in genere, ma
nessuna della due cose è stata fatta. A un certo punto si intuisce
chiaramente che il tenente "buono" non crede più nella
guerra semplicemente perché gli americani stanno perdendo. La guerra
viene vista, nel bene e nel male, come maestra di vita, e anche la
morte è fatalmente compresa nel suo corso. Personalmente ritengo che
pochi spettatori siano rimasti veramente inorriditi da scene come
quella in cui gli americani assalgono donne, vecchi e bambini nel
villaggio viet-cong: penso (spero?) che la maggior parte fosse già a
conoscenza di nefandezze ancora peggiori. È
poi interessante notare che l'esercito americano esce comunque con le
mani pulite: ci viene detto che i responsabili dell'eccidio, saranno
giudicati dalla corte marziale, e, da parte sua il nostro eroe (Chris
Taylor) si salva la reputazione sottraendo una ragazzina a una
violenza carnale di gruppo (non prima però di avere terrorizzato e
percosso un handicappato).
Il volto odioso
dell'America
Se vogliamo parlare
di un'"epopea", poiché a quanto pare di epopea si tratta,
è doveroso citare un film che fu veramente rivoluzionario all'epoca:
il titolo italiano è E Johnny prese il fucile (Johnny
Got His Gun, D. Trumbo, 1971). Pur trattando questo film la
storia di un giovane reduce della prima guerra mondiale, in cui
questi ha combattuto come volontario, e dalla quale è ritornato
privo degli arti e praticamente ridotto a vegetale, è significativo
il fatto che esso uscì nel 1971, e cioè quando la guerra del
Vietnam era ancora in pieno svolgimento, e l'opinione pubblica era
solo da due anni veramente a conoscenza delle brutalità che si
perpetravano in Indocina (nonostante il movimento di protesta fosse
già attivo nelle università fin dal 1965). Alla fine degli
anni '70 uscirono in America altri due film sul Vietnam: Il
cacciatore (The Deer Hunter, M. Cimino, 1978) e Apocalypse Now
(F. F. Coppola, 1979). Il primo, che ottenne tre Oscar e provocò
l'abbandono del festival di Berlino del 1979 da parte della
delegazione sovietica, inaugura la serie dei film sul dopo-Vietnam,
seguendo le vicende di tre giovani durante e dopo la loro
partecipazione al conflitto. Dei tre, solo uno ritorna decorato,
mentre il secondo rimane paralizzato e il terzo, sotto shock e privo
di memoria, si uccide giocando alla roulette russa a Saigon. La
guerra è qui chiaramente contrapposta al mondo "positivo"
della provincia americana, e più esattamente alla comunità
d'appartenenza (e questo si riallaccia facilmente al discorso
sull'"innocenza" a proposito di Platoon) ma in
realtà entrambe sono viste nel loro aspetto "rituale" più
che sociale e politico, e il film forse non insiste abbastanza sulla
pur grande intuizione di far morire banalmente Nick a Saigon mentre,
in America, Mike aveva deciso di risparmiare il cervo che stava
cacciando. È ovvio che l'ordine delle cose è cambiato, che qualcosa
è intervenuto nell'equilibrio naturale: l'animale può salvarsi ma
l'uomo no. Inoltre, non so se sia un'ingenuità o una furbizia del
film, il fatto di contrapporre la guerra (fattore negativo) alla
comunità sociale (fattore positivo) come se le due cose non fossero
unite in qualche modo, come se non fosse chiaro che anche la
comunità, come tutte le altre istituzioni su cui si regge lo stato,
ha la sua parte di responsabilità nella faccenda "guerra". Apocalypse Now
fu un progetto molto più ambizioso, che innestò le vicende del
Vietnam sul già mitico romanzo di J. Conrad Heart of Darkness,
smascherando non solo "il volto odioso dell'America", ma
mettendo in discussione tutto il sistema della guerra e la completa,
allucinante gratuità di azioni e comportamenti di singoli individui
simbolicamente responsabili del destino di tutti gli altri uomini.
Uno dei meriti di questo film è, a mio parere, quello di avere da un
lato trasceso la vicenda Vietnam per rappresentare più generalmente
la follia della guerra, e dall'altro mostrato le assurdità e
perversioni insite nella partecipazione ad un conflitto decisa da un
presidente contro il parere del Congresso, e quindi
anticostituzionale, la quale diede adito fin dall'inizio a pericolose
esaltazioni personali, e confuse spesso fra ideologia e politica. Il colonnello
Kurtz, che nella giungla vietnamita combatte una sanguinosa guerra
personale, non è altro che un Rambo invecchiato e solo un po' più
arteriosclerotico. Mi riferisco qui al personaggio del film Rambo
II (Cosmatos, 1985) e non a quello del primo Rambo
(First Blood, D. Kotcheff , 1984), poiché è solo in Rambo
II che il protagonista si "vende" all'esercito
americano accettando di ritornare in Vietnam in missione speciale,
ripercorrendo poi da solo e in modo del tutto personale (di qui il
collegamento con Kurtz) le tappe della guerriglia. Ben diverso era il
messaggio contenuto nel romanzo di D. Morrell e in parte rispettato
in Rambo: là un giovane reduce veniva respinto dalla civiltà
americana e si difendeva nel modo che gli era stato insegnato in
guerra, prolungando quest'ultima nel tempo e nello spazio e
rispondendo a violenza con violenza. Così facendo, Rambo veniva ad
inserirsi nella più pura tradizione degli "outsider" che
non vengono accettati dal mondo "civile" (cfr. Easy Rider),
aggiungendo però un elemento di novità che fu poi soffocato da
Rambo II, e cioè il fatto che la stessa civiltà che manda in
guerra non ha poi spazio al proprio interno per chi ritorna.
Ma il Vietnam è
lontano
Altri due film che
hanno destato un certo interesse sono stati Tornando a casa
(Coming Home, H. Ashby,1978) e Birdy (A. Parker, 1985). In
modo diverso, questi due film hanno affrontato il problema del
ritorno nei suoi risvolti psicologici, mostrando i "segni"
indelebili della guerra sul carattere dei personaggi. In Tornando a
casa, da alcuni ritenuto solo un "fotoromanzo" di
dubbio gusto (G. Grazzini, 1978), il marito di Sally - che in sua
assenza si è innamorata di un militante pacifista paraplegico -
torna dal Vietnam decorato ma in stato di shock e alcolizzato; e la
sequenza finale del film si chiude su di lui che, toltosi tutti i
vestiti, si è gettato in mare per un "bagno purificatore"'che
parrebbe preludere al suicidio. In Birdy, un
giovane aiuta l'amico a recuperare la memoria e l'equilibrio psichico
dopo l'atroce esperienza della guerra, e solo molto faticosamente
sembra che riesca infine nel suo intento. In entrambi i film il
Vietnam è lontano, e vive solo nella memoria dei personaggi e negli
effetti che ha avuto sulle loro vite: ma non per questo il messaggio
è ambiguo, anzi, esaminare qualcosa nei suoi effetti può essere
ancora più significativo che esaminarla nel suo svolgersi. Penso che questa
profondità di intenti sia un po' vaga in Platoon; e se
l'epopea non si è ancora conclusa, se ancora questa ed altre guerre
daranno, purtroppo, argomenti di riflessione e discussione, mi auguro
contributi più coraggiosi, e una retorica meno appariscente ed
ambigua.
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