Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 147
giugno 1987


Rivista Anarchica Online

A dir poco, ambiguo
di Alessandra Calanchi

È da mesi in testa alle classifiche. Ha fatto incetta di Oscar. Da molti è considerato un coraggioso film autocritico. Ma in "Platoon" la guerra viene vista, nel bene e nel male, come maestra di vita. E l'esercito, comunque, ne esce con le mani pulite. Passando in rassegna altri film sulla sporca guerra del Vietnam, emerge che altri sono stati i film davvero coraggiosi. Per esempio...

A dodici anni di distanza dalla fine di una guerra che fa ancora discutere, l'uscita sugli schermi di un film come Platoon (O. Stone, 1986) è una nuova occasione per riflettere su un evento ancora attuale e sul modo in cui questo evento è stato variamente affrontato dal cinema americano.
In realtà, viene da pensare che Platoon sia arrivato con sei o sette anni di ritardo: nel 1986-87, dopo che i film migliori sul Vietnam sono già usciti da tempo, e dopo che, malgrado tutto, gli Stati Uniti hanno continuato a produrre film reazionari e propagandistici sull'esercito americano come Ufficiale e Gentiluomo, Rambo II e Top gun, un film come Platoon, nonostante la sua drammaticità, rischia di apparire, nella migliore delle ipotesi, come un esercizio di stile che si va a sommare ad altri senza aggiungere qualcosa di veramente nuovo. Non solo, ma la spettacolarità e il compiacimento di alcune scene "realistiche", così come la retorica opposizione buono/cattivo anche all'interno dello stesso esercito, finiscono per apparire ambigue al punto che in certi momenti si perde la sicurezza che esista una totale diversità fra Platoon e i vari "filmacci" citati sopra.

La guerra maestra di vita?
In realtà l'immagine che ci viene data dell'esercito è comunque quella di una grande famiglia in cui, se esistono innegabili dissidi, è sempre in fin dei conti possibile la convivenza di buoni e cattivi, ricchi e poveri, bianchi e neri. Ciò che viene deprecato è la "perdita della innocenza" mentre sappiamo che, come ci insegna il grande poeta inglese William Blake, anche l'innocenza senza esperienza è colpevole. Altro sarebbe stato suggerire che sono gli stessi presupposti - l'innocenza, appunto, o presunta tale - a causare gli effetti che vediamo - in questo caso la guerra, ma potrebbe essere la disoccupazione, la violenza urbana, ecc...
Un messaggio meno ambiguo avrebbe richiesto o una posizione più drasticamente ideologica contro quella guerra, o una posizione più decisamente pacifista contro tutte le guerre in genere, ma nessuna della due cose è stata fatta. A un certo punto si intuisce chiaramente che il tenente "buono" non crede più nella guerra semplicemente perché gli americani stanno perdendo. La guerra viene vista, nel bene e nel male, come maestra di vita, e anche la morte è fatalmente compresa nel suo corso. Personalmente ritengo che pochi spettatori siano rimasti veramente inorriditi da scene come quella in cui gli americani assalgono donne, vecchi e bambini nel villaggio viet-cong: penso (spero?) che la maggior parte fosse già a conoscenza di nefandezze ancora peggiori.
È poi interessante notare che l'esercito americano esce comunque con le mani pulite: ci viene detto che i responsabili dell'eccidio, saranno giudicati dalla corte marziale, e, da parte sua il nostro eroe (Chris Taylor) si salva la reputazione sottraendo una ragazzina a una violenza carnale di gruppo (non prima però di avere terrorizzato e percosso un handicappato).

Il volto odioso dell'America
Se vogliamo parlare di un'"epopea", poiché a quanto pare di epopea si tratta, è doveroso citare un film che fu veramente rivoluzionario all'epoca: il titolo italiano è E Johnny prese il fucile (Johnny Got His Gun, D. Trumbo, 1971). Pur trattando questo film la storia di un giovane reduce della prima guerra mondiale, in cui questi ha combattuto come volontario, e dalla quale è ritornato privo degli arti e praticamente ridotto a vegetale, è significativo il fatto che esso uscì nel 1971, e cioè quando la guerra del Vietnam era ancora in pieno svolgimento, e l'opinione pubblica era solo da due anni veramente a conoscenza delle brutalità che si perpetravano in Indocina (nonostante il movimento di protesta fosse già attivo nelle università fin dal 1965).
Alla fine degli anni '70 uscirono in America altri due film sul Vietnam: Il cacciatore (The Deer Hunter, M. Cimino, 1978) e Apocalypse Now (F. F. Coppola, 1979). Il primo, che ottenne tre Oscar e provocò l'abbandono del festival di Berlino del 1979 da parte della delegazione sovietica, inaugura la serie dei film sul dopo-Vietnam, seguendo le vicende di tre giovani durante e dopo la loro partecipazione al conflitto. Dei tre, solo uno ritorna decorato, mentre il secondo rimane paralizzato e il terzo, sotto shock e privo di memoria, si uccide giocando alla roulette russa a Saigon. La guerra è qui chiaramente contrapposta al mondo "positivo" della provincia americana, e più esattamente alla comunità d'appartenenza (e questo si riallaccia facilmente al discorso sull'"innocenza" a proposito di Platoon) ma in realtà entrambe sono viste nel loro aspetto "rituale" più che sociale e politico, e il film forse non insiste abbastanza sulla pur grande intuizione di far morire banalmente Nick a Saigon mentre, in America, Mike aveva deciso di risparmiare il cervo che stava cacciando. È ovvio che l'ordine delle cose è cambiato, che qualcosa è intervenuto nell'equilibrio naturale: l'animale può salvarsi ma l'uomo no. Inoltre, non so se sia un'ingenuità o una furbizia del film, il fatto di contrapporre la guerra (fattore negativo) alla comunità sociale (fattore positivo) come se le due cose non fossero unite in qualche modo, come se non fosse chiaro che anche la comunità, come tutte le altre istituzioni su cui si regge lo stato, ha la sua parte di responsabilità nella faccenda "guerra".
Apocalypse Now fu un progetto molto più ambizioso, che innestò le vicende del Vietnam sul già mitico romanzo di J. Conrad Heart of Darkness, smascherando non solo "il volto odioso dell'America", ma mettendo in discussione tutto il sistema della guerra e la completa, allucinante gratuità di azioni e comportamenti di singoli individui simbolicamente responsabili del destino di tutti gli altri uomini. Uno dei meriti di questo film è, a mio parere, quello di avere da un lato trasceso la vicenda Vietnam per rappresentare più generalmente la follia della guerra, e dall'altro mostrato le assurdità e perversioni insite nella partecipazione ad un conflitto decisa da un presidente contro il parere del Congresso, e quindi anticostituzionale, la quale diede adito fin dall'inizio a pericolose esaltazioni personali, e confuse spesso fra ideologia e politica.
Il colonnello Kurtz, che nella giungla vietnamita combatte una sanguinosa guerra personale, non è altro che un Rambo invecchiato e solo un po' più arteriosclerotico. Mi riferisco qui al personaggio del film Rambo II (Cosmatos, 1985) e non a quello del primo Rambo (First Blood, D. Kotcheff , 1984), poiché è solo in Rambo II che il protagonista si "vende" all'esercito americano accettando di ritornare in Vietnam in missione speciale, ripercorrendo poi da solo e in modo del tutto personale (di qui il collegamento con Kurtz) le tappe della guerriglia. Ben diverso era il messaggio contenuto nel romanzo di D. Morrell e in parte rispettato in Rambo: là un giovane reduce veniva respinto dalla civiltà americana e si difendeva nel modo che gli era stato insegnato in guerra, prolungando quest'ultima nel tempo e nello spazio e rispondendo a violenza con violenza. Così facendo, Rambo veniva ad inserirsi nella più pura tradizione degli "outsider" che non vengono accettati dal mondo "civile" (cfr. Easy Rider), aggiungendo però un elemento di novità che fu poi soffocato da Rambo II, e cioè il fatto che la stessa civiltà che manda in guerra non ha poi spazio al proprio interno per chi ritorna.

Ma il Vietnam è lontano
Altri due film che hanno destato un certo interesse sono stati Tornando a casa (Coming Home, H. Ashby,1978) e Birdy (A. Parker, 1985). In modo diverso, questi due film hanno affrontato il problema del ritorno nei suoi risvolti psicologici, mostrando i "segni" indelebili della guerra sul carattere dei personaggi.
In Tornando a casa, da alcuni ritenuto solo un "fotoromanzo" di dubbio gusto (G. Grazzini, 1978), il marito di Sally - che in sua assenza si è innamorata di un militante pacifista paraplegico - torna dal Vietnam decorato ma in stato di shock e alcolizzato; e la sequenza finale del film si chiude su di lui che, toltosi tutti i vestiti, si è gettato in mare per un "bagno purificatore"'che parrebbe preludere al suicidio.
In Birdy, un giovane aiuta l'amico a recuperare la memoria e l'equilibrio psichico dopo l'atroce esperienza della guerra, e solo molto faticosamente sembra che riesca infine nel suo intento. In entrambi i film il Vietnam è lontano, e vive solo nella memoria dei personaggi e negli effetti che ha avuto sulle loro vite: ma non per questo il messaggio è ambiguo, anzi, esaminare qualcosa nei suoi effetti può essere ancora più significativo che esaminarla nel suo svolgersi.
Penso che questa profondità di intenti sia un po' vaga in Platoon; e se l'epopea non si è ancora conclusa, se ancora questa ed altre guerre daranno, purtroppo, argomenti di riflessione e discussione, mi auguro contributi più coraggiosi, e una retorica meno appariscente ed ambigua.