Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 147
giugno 1987


Rivista Anarchica Online

Oltre l'astensione
di Salvo Vaccaro

Anche in occasione delle elezioni del 14 giugno, il movimento anarchico si è impegnato in una campagna astensionista. Ma denunciare la mistificazione e la sostanziale inutilità del rito elettorale non basta. È necessario proporre alcune alternative praticabili, con le quali possano ritrovarsi anche non-anarchici che abbiano espresso gesti, comportamenti e motivazioni di rifiuto. Ci servono progetti transitori, intermedi, tattici. L'importanza dell'auto-organizzazione sociale.

In questa fine di secolo, in cui le istanze del dominio solcano trasversalmente, e non più verticalmente, il corpo sociale, sempre più frammentato e ricomposto secondo una miriade di punti-di-vista contingenti, particolari, cangianti, la possibilità che i cittadini si auto-organizzino in vista di qualche obiettivo specifico - sia esso di difesa, per esempio dall'inquinamento come l'Assemblea permanente di Massa e Carrara, sia in funzione più propositiva, come l'occupazione di alloggi dei krakers olandesi di qualche anno fa - diventa una prospettiva che va guardata con attenzione.
Ridimensionata, per non dire dissoltasi, una netta dimidiazione di classe, che bollava di interclassismo qualsiasi mobilitazione che andasse al di là del proletariato industriale e agricolo, tali mobilitazioni hanno visto, in taluni casi, una partecipazione diretta di settori sociali coinvolti in determinati problemi collettivi, attivata senza deleghe attraverso organismi spontanei che vivono per il tempo necessario senza autoperpetuarsi come ennesimi partiti. Esempio possono essere le Bürgerinitiativen (iniziative di quartiere, n.d.r.) in Germania qualche anno fa, sorte ed attivatesi su svariate "questioni sociali" attuali: militarizzazione, inquinamento, alloggi, ma anche tematiche ecologiche e quotidiane, in un certo senso, più "soft".

Quei diritti smarriti
È possibile tradurre anche in Italia un modello simile, peraltro così vago e elastico da avere, ovviamente, i suoi pro e i suoi contro, e soprattutto suscettibile di adattarsi allo "spirito" italiano? È quello che, con molta probabilità, si sarà chiesto Giorgio Ruffolo, deputato socialista, docente universitario e buon conoscitore di "cose nostre", punta di diamante dell'intellighenzia nazionale nonché teorico della programmazione "scientifica" in politica e nell'economia ai tempi dei governi di centro-sinistra degli anni sessanta.
È chiaro che mi voglio riferire al neo-nato Movimento per la Difesa dei Diritti (smarriti) del Cittadino, che ha visto intellettuali, politologi, politici di tutte le aree, professionisti e, in parte, studenti e gente comune del cosiddetto ceto medio, accorrere richiamati dall'appello provocatoriamente giacobino "Aux armes les citoyens!" (senza con ciò incorrere nelle ire della Magistratura, in altri casi, altrettanto innocenti, ben più solerte a far scattare il reato di istigazione a delinquere...)
Il Comitato promotore di questo Movimento ha lanciato appelli, raccolto le prime adesioni di varie personalità, acquisito due pagine settimanali di servizio sull'Espresso, organizzato assemblee cittadine un po' dappertutto, e iniziato la prima campagna di mobilitazione. Incuriosito e interessato, ho partecipato ad un paio di incontri. Senza paraocchi pregiudiziali né infatuazioni seducenti, ho cercato di distinguere, se e ove possibile, piani meramente riformistici (senza offesa) e spunti interessanti di intervento libertario.
Punto nodale delle campagne è il rapporto cittadini/Pubblica Amministrazione. Tutti siamo al corrente, per averlo vissuto direttamente, della vessazione cui è sottoposto il cittadino comune, che non ha "santi in paradiso", quando viene, per necessità, in contatto con la Pubblica amministrazione: senso d'impotenza, d'inutilità, di inferiorità', d'anonimato più buio, d'incomprensione e d'ignoranza, di smarrimento di fronte al labirinto burocratico attraverso cui passa qualsiasi pratica. E ciò più o meno in tutte le amministrazioni statali, centrali e periferiche.
Per di più, la presenza ossessiva e invadente dello stato ha moltiplicato all'infinito uffici, enti e procedure burocratiche, per cui oggi è impossibile sfuggire alla ragnatela della P.A. che paralizza qualsiasi attività un cittadino voglia intraprendere, sottomettendolo ad una sfilza di nulla osta, certificati, attestati, permessi, e chi più ne ha più ne metta, grazie alla fervida fantasia di decreti e circolari ministeriali.
Svincolare il cittadino, quanto più è possibile sin da oggi, da questo contatto asfissiante con i vari "palazzi" in cui lo Stato si incarna (e penetra, nel contempo, nelle carni di tutti noi, sfibrati da code e attacchi biliari nei nostri rapporti con impiegati e funzionari grigi e impenetrabili, sebbene "ungibili"), è l'obiettivo prioritario del Movimento, che mira anche a preservare i diritti riconosciuti del cittadino a che, negletti, vengano rispettati. Ottenere una progressiva de-burocratizzazione amministrativa, che liberi le attività comuni dagli intralci statali, ottenere una trasparenza procedurale e una accelerazione o scorciatoie procedurali nell'iter amministrativo, ottenere un quadro limpido dei diritti all'interno del mare magnum di circolari, decreti, minileggi e diktat funzionali-organizzativi nella Pubblica Amministrazione: questa è la ricetta neo-liberale della deregulation di Ruffolo.
Non che sia un obiettivo facile, anzi, perché le resistenze all'interno della Pubblica Amministrazione in quegli alti burocrati il cui potere è il privilegio di vessare l'inerme cittadino - processo che sfugge di mano, spesso, agli stessi politici, sebbene il rapporto politica/pubblica amministrazione sia, spesso, di complementarietà e alleanza reciproca -; né un obiettivo disprezzabile, specie se contribuisce, probabilmente nonostante le intenzioni degli stessi promotori, ad abituare il cittadino a fare a meno dello Stato.
Ed è qua che scatta il mio interesse di anarchico, che intravvede in questa proposta ad ampio respiro operativo, sebbene, talvolta, ristretta quanto a potenzialità latenti scardinatrici, una qualcerta strategia non soltanto di deregulation, ma anche di destatalizzazione, ottenuta attraverso una pressione combinata e convergente di istanze neo-riformiste (di targa PSI, tanto per intenderci), e di auto-organizzazione dei cittadini.

Se mancano i cittadini
Sconfortanti sono le prime impressioni che ho ricevuto dalla presentazione (locale) di quel Movimento per la Difesa dei Diritti dei Cittadini. Se è vero che l'adesione individuale "garantisce", almeno in una certa misura, la non-partiticità (ma non la inter-partiticità), è anche vero che promotori se ne fanno personaggi politici (locali), legati direttamente o indirettamente a partiti tradizionali e non (leggi verdi). Ma questo sarebbe nulla, non siamo vergini in politica, e sappiamo leggere tra le righe e valutare, realisticamente e gradualmente, le novità più o meno emergenti. Certo, l'assemblea di presentazione alla cittadinanza era elitaria, gli oratori prestabiliti e gli interventi estemporanei confinati in fondo in due minuti (letterali) a i cittadini che avrebbero dovuto organizzarsi mancavano, anche perché è un controsenso pretendere che vengano da te comitato promotore quando sei tu che devi aprirti al territorio, farti conoscere e organizzare non una ma dieci assemblee cittadine nei quartieri (e non all'Università).
I consulenti, inoltre, che dovrebbero tutelare l'azione del Movimento con consigli, appunto, di carattere specifico, normativo, ecc., spesso sono figure prestigiose intellettualmente, già legati più o meno a formazioni partitiche (ma chi oggi non è legato per poter emergere?...); ma questo non sarebbe nulla, ancora, se a impostare l'azione del Movimento fossero i cittadini stessi che individuano disfunzioni, si organizzano per contrastarle e mettono un po' a soqquadro e sotto pressione l'amministrazione malcapitata. Invece le campagne partono dall'alto, gli obiettivi, per carità notevoli, vengono individuati dell'élite promotrice, e poi non si capisce bene su quali gambe organizzare la pressione popolare.
Perché qua sta il vero nodo ambiguo della proposta di Ruffolo: movimento per cittadini di questo stato o movimento dei cittadini? Non è la solita ottica anti-statuale dell'anarchico - la mia disponibilità di massima a prendere in considerazione l'ipotesi già suonerebbe eresia a qualche compagno più "duro" e "ortodosso", meno "aperto" a suggestioni esterne e, ripeto, ambigue -. Il rischio del Movimento è quello di americanizzarsi, diventare cioè una lobby elitaria di istanze riformiste, paternalisticamente miranti ad alleggerire gli oneri dei cittadini, che sentitamente ringraziano accettando, sempre passivamente (o con la minima fatica di segnalare disfunzioni, con il rischio che una prassi di segnalazioni degeneri, magari in altri campi, in prassi delatoria diffusa, e addio rispetto della privacy del cittadino), accettando, si diceva, questa ennesima manna dal cielo, da parte di uno stato buono questa volta, ma sempre stato. Ci penseranno intellettuali e politici a trasformare le lamentele in pressioni interne al sistema politico e, grazie ai loro contatti nel Governo e nel Parlamento, a varare un disegno riformista di legge, o un nuovo decreto ministeriale, un nuovo regolamento amministrativo e via continuando, e così accontentare i cittadini onesti.
Il tutto nel quadro di uno Stato nuovo, dove nulla di sostanziale cambia, restando inalterate le posizioni in campo ed i ruoli, restando inalterata, anzi uscendo rafforzata, la legittimità e la credibilità di autoriforma delle istituzioni (utopia di un sogno?), restando inalterata la fisionomia organizzativa della forma-Stato, variando tuttalpiù la bilancia del rapporto conflittuale politico/pubblica amministrazione.
Del resto, in ultima analisi, il riferimento alla figura del cittadino nata dalla rivoluzione francese e istituzionalizzata dalle varie carte di diritti e costituzioni della borghesia nel suo periodo d'oro avvalorerebbe questi timori, giacché precipuità del cittadino è l'appartenenza ad uno Stato e la sua sottomissione felice e consenziente.

Dalla deregulation alla destatalizzazione
Ma allora, qual'è lo spiraglio interessante da un punto di vista libertario? I giochi sono già fatti? Sicuramente no, e infatti non mi spaventa tanto il fatto che si voglia canalizzare il tutto, depotenziato da prospettive più ampie, verso istanze riformiste e basta, per giunta concesse grazie ad attività di lobby e non strappate con la forza dell'auto-organizzazione dal basso.
Io credo che un progetto di strategie anarchiche di fine secolo debba fare i conti con la possibilità di sfruttare l'ondata di deregulation per radicalizzarla in una marea di destatalizzazione, a partire anche da elementi minimali come l'approccio quotidiano con i mille problemi del rapporto cittadini/Pubblica Amministrazione. Per far ciò, è probabile che si debba correre qualche rischio di deragliamento dai binari consueti e consolidati (ma sarà poi vero?) dell'azione libertaria tradizionale, rischio che va tenuto in conto e prevenuto/corretto, secondo le fasi, da un'attenzione critica di rispetto della "logica anarchica".
Entrare in questa ottica politica di destatalizzazione vuol dire, a mio avviso, uscire dalle sedi e misurarsi con la prospettiva dell'auto-organizzazione dei cittadini su obiettivi concreti, specifici, più o meno immediati, ai quali saper dare risposte concrete, intermedie rispetto al mitico R. Day (giorno della Rivoluzione con la R maiuscola) e senza scandalizzarci se questa possibilità verrà da altri giocata come carta riformista per cambiare qualche legge, a patto che l'auto-organizzazione dei cittadini sia un fatto vero, reale, di lotta dal basso.
Certo, noi anarchici, sebbene gradualisti a parole, citando Malatesta a memoria, siamo poi incapaci di concepire, dentro una strategia politica a lungo termine, passaggi intermedi tattici, non diluiti né affossatori o incoerenti, che però siano soddisfacenti sia per i nostri percorsi, sia per le aspettative delle lotte, che a un certo punto devono "sfociare" in qualche conquista "praticabile", "possibile", pur essendo sorretta dall'utopia, e che deve porre la controparte nelle condizioni di dover cedere senza attaccare con azioni repressive che brucerebbero il campo e farebbero svanire l'auto-organizzazione dei cittadini stessi (da non confondersi con l'auto-organizzazione specifica degli anarchici, che lottano contro lo Stato "senza macchia e senza paura", convinti e coscienti, mentre i cittadini sono gente comune, con i loro livelli di coscienza da rispettare, con i loro timori reverenziali da smussare lentamente come la loro apatia all'impegno diretto, con le loro paure ancestrali verso lo Stato da rimuovere gradualmente, senza bacchette magiche a disposizione).
Ed uno dei banchi di prova di questa ipotesi, tutta da verificare sia teoricamente che praticamente, è dato dalle elezioni generali prossime venture (non ha importanza quando, se a maggio/giugno o in autunno o l'anno prossimo, ma la scadenza in se stessa). "Il primo e il più efficace dei mezzi di comunicazione di massa è il sistema elettorale: il referendum ne rappresenta il coronamento, giacché la risposta è implicita nella domanda, come nei sondaggi d'opinione. Si tratta di una parola che risponde a se stessa, simulando il processo di una risposta; e, ancora una volta, l'assolutizzazione di una parola sotto il travestimento formale dello scambio rappresenta la costituzione stessa del potere" (Jean Baudrillard, Per una critica dell'economia politica del segno, Mazzotta, Milano, 1974, p.183).

Ma le chiacchiere non bastano
L'estraneità degli anarchici ai "riti" istituzionali è notoria, essendo motivata sia da profonde convinzioni ideologiche, sia da rinnovate verifiche politiche: la via di un cambiamento reale della società, sia nella sua totalità, sia in qualche suo segmento, non passa attraverso le istituzioni, deputate appunto a cristallizzare e fissare piuttosto che a dar libero spazio a dinamiche mutazionali - se non quelle di riassesto fisiologico interno.
Pur tuttavia, l'approccio strategico degli anarchici di fronte alle elezioni non va al di là della mera propaganda astensionista, in una pia illusione che solo l'"educazionismo della parola" sia sufficiente a mostrare alla pubblica opinione l'evidenza delle nostre motivazioni e coerenze ideologiche e politiche, oltreché a dimostrare la bontà della nostra alternativa.
Su questo punto siamo deficitari, e non possiamo cullarci oltremodo a pensare che la gente si estranei da un rito d'identità interiorizzato, quale la partecipazione "coatta" e "volontaria" nel contempo, che è conforme a tutto uno stile di vita ed a una organizzazione sociale che investe globalmente il corpo e la mente di ciascuno di noi. In questi ultimi tempi, inoltre, il fenomeno singolare dell'astensionismo (o della protesta nell'urna espressa ambiguamente, per noi palati fini, in varie modalità comunicative) ha preso una qualche dimensione che è difficile da ricondurre o meno alla nostra influenza propagandistica; la gente si astiene, alcuni non anarchici, per dirla in soldoni, rifiutano coscientemente di partecipare attivamente e passivamente al voto, con motivazioni specifiche alle loro sensibilità, manifestando un comportamento di estraneità simile al nostro.
A questo punto, senza esaltare la nostra capacità d'influenza, penso sia un peccato limitarci a "chiacchiere" ed a inviti astensionisti, perché i tempi sembrano maturi per altre scadenze ed altre possibilità: occorre andare oltre l'astensione, oltre cioè al mero momento astensionistico, per cercare di organizzare un rifiuto cosciente del rito istituzionale che allarghi il proprio raggio d'azione oltre al voto.

Graduare le strategie
Va fatta una considerazione. A prescindere dalle motivazioni ideologiche e politiche specificatamente anarchiche, non è plausibile immaginare che gli astenuti o i protestatari del voto siano o possano diventare tutti libertari, almeno se il loro gesto è circoscrivibile a questo unico momento. Né è plausibile pensare una loro presa di coscienza più radicale se l'alternativa al momento del voto, o di qualunque altro rito istituzionale, è la mera denuncia a parole. Occorre che l'anarchia organizzata faccia intravedere alcuni spazi concreti in cui le potenzialità d'estraneità che la società esprime in alcuni momenti e in alcuni comportamenti, anche se delimitati quantitativamente, possono ritrovarsi insieme ed esprimersi compiutamente, canalizzando tali potenzialità.
Organizzare l'astensione, in due parole, non strumentalizzando quei gesti, quei comportamenti, quelle motivazioni, come potrebbe fare un Pannella, bensì organizzando le condizioni affinché quei gesti, quei comportamenti, quelle motivazioni si auto-organizzino insieme per convogliare la protesta e il rifiuto su determinati obiettivi, su percorsi alternativi e radicalmente estranei agli spazi istituzionali.
Non possiamo ragionare come se queste auto-organizzazioni sociali siano in nuce anarchiche, o siano libertarie solo dal punto di vista metodologico, pur importante, cioè siano autoregolamentate secondo i principi e la prassi della spontaneità, dell'azione diretta e non mediata, dall'autogestione dei meccanismi interni organizzati, del rifiuto della delega "professionalizzata", ecc.; mirando solo a ciò, peraltro, abdicheremmo a formulare una strategia politica per quelle situazioni d'auto-organizzazione sociale in cui noi anarchici siamo presenti insieme a non anarchici.
Ciò vuol dire considerare anche il punto di vista di questi ultimi, e dover graduare le nostre strategie specifiche, talvolta rarefatte a livelli di astrazione perché prassi incapaci di radicarsi nello spazio e nel tempo vincolanti attuali, che dettano le condizioni per innescare dinamiche di cambiamento sociale collettivo dal basso.
In tal senso, quando si condanna il rito istituzionale, occorre, a mio avviso, non solo denunciarne la fallacia, la mistificazione, la sostanziale inutilità, ma anche avanzare alcune alternative praticabili con cui possano ritrovarsi non-anarchici che abbiano espresso gesti, comportamenti e motivazioni di rifiuto, solo in ultima analisi e non automaticamente riconducibili a istanze libertarie, ancora non compiute (e non c'è nessuna garanzia che si compiano o meno, specie se non pratichiamo alternative plausibili). Ciò vuol dire dotarsi di progetti transitori, intermedi tattici, chiamiamoli come li si vuole, che identifichino degli obbiettivi e li perseguano, senza arrestarsi a questi (non è una variante "nobile" del riformismo quella che, non nitidamente, ho in testa), responsabilizzando auto-organizzazioni di base in crescita solo se riescono a concretizzare istanze e tensioni, cioè a tradurle in realtà con vittorie, costringendo la controparte a concessioni e utilizzando queste per ulteriori trampolini di lancio verso altri obiettivi, facendo avanzare, nella prassi, un terreno di lotta comune, anarchici e non anarchici, se è vero che queste auto-organizzazioni sociali sono per definizione pluralistiche.
Per fare un esempio concreto: io penso che una delle motivazioni del fenomeno astensionista, per come lo interpretano e lo vivono non anarchici, e non quindi soltanto noi corazzati e supportati da scelte ideologiche, teoriche e politiche, sia la rarefazione della dimensione del controllo popolare e della partecipazione reale tradotta in capacità di scegliere e decidere alcune cose in alcuni settori di rilevanza sociale. E ciò sia a livello globale che, a maggior ragione, a quello locale. Ebbene, noi anarchici non possiamo stare alla finestra; dobbiamo organizzare uno spazio concreto, agibile, operativo, in cui si possano riconoscere tutti coloro che rifiutano di stare al gioco istituzionale e sentano la necessità di tradurre quel loro rifiuto in qualcosa di concreto; tale spazio non è uno spazio tout-court rivoluzionario per essenza "divina", perché siamo noi anarchici che lo allestiamo astrattamente; è uno spazio d'auto-organizzazione popolare, dal basso, degli astenuti per restare nell'esempio, che si proponga, tanto per buttare giù qualche spunto, di tallonare da vicino le azioni del potere locale, che si proponga di controllare scelte, decisioni, effetti, dal di fuori dello scenario istituzionalizzato, canalizzando direttamente eventuali conflittualità.
Spazio sociale, quindi, non specifico, che renda partecipativa una istanza e una tensione diffusa, che preveda alcune fasi di sbocco di determinate campagne di protesta, che dimostri tangibilmente che l'azione diretta, l'autogestione, l'auto-organizzazione, la via non istituzionale insomma, paga, riesce a esprimere un controllo reale; riesce a bloccare magagne del potere, riesce a migliorare seppur di poco la qualità della vita, riesce a tradursi in fatti concreti da imporre al potere.
Certo, non è la rivoluzione, ma è urgente uscire dalla logica manichea e auto-castrante del "o tutto o niente", perché la peggior astrazione è quella di una prassi sganciata dalle reali condizioni di preparazione, di opportunità e di possibilità che si offrono ad una strategia anarchica. Graduare obiettivi, tempi, risultati conseguibili è una logica specificatamente anarchica al passo con la realtà, dentro la realtà per stravolgerla contro essa stessa, essendo anche un minimo baluardo contro degenerazioni sia messianiche, sia velleitarie, sia riformistiche (la tendenza ad accontentarsi di quanto strappato e ottenuto, arrestandosi ai primi risultati e abbassando la guardia).
Non credo di aver delineato, per concludere, alcunché di estremamente originale; solo la tensione di far compiere un salto qualitativo al movimento anarchico - immodestia da poco... - sia da un punto di vista di logica specificatamente anarchica in contesti illibertari, sia da un punto di vista di preparazione di progettualità del cambiamento reale in contesti vincolanti, sia da un punto di vista di strategie e di tattiche necessarie per far muovere una macchina rivoluzionaria che voglia tornare ad essere protagonista, e non soltanto antagonista, delle istanze di libertà individuali e sociali.