Rivista Anarchica Online
Oltre
l'astensione
di Salvo Vaccaro
Anche in
occasione delle elezioni del 14 giugno, il movimento anarchico si è
impegnato in una campagna astensionista. Ma denunciare la
mistificazione e la sostanziale inutilità del rito elettorale non
basta. È necessario proporre alcune alternative praticabili, con le
quali possano ritrovarsi anche non-anarchici che abbiano espresso
gesti, comportamenti e motivazioni di rifiuto. Ci servono progetti
transitori, intermedi, tattici. L'importanza
dell'auto-organizzazione sociale.
In questa fine di
secolo, in cui le istanze del dominio solcano trasversalmente, e non
più verticalmente, il corpo sociale, sempre più frammentato e
ricomposto secondo una miriade di punti-di-vista contingenti,
particolari, cangianti, la possibilità che i cittadini si
auto-organizzino in vista di qualche obiettivo specifico - sia esso
di difesa, per esempio dall'inquinamento come l'Assemblea permanente
di Massa e Carrara, sia in funzione più propositiva, come
l'occupazione di alloggi dei krakers olandesi di qualche anno fa -
diventa una prospettiva che va guardata con attenzione. Ridimensionata, per
non dire dissoltasi, una netta dimidiazione di classe, che bollava di
interclassismo qualsiasi mobilitazione che andasse al di là del
proletariato industriale e agricolo, tali mobilitazioni hanno visto,
in taluni casi, una partecipazione diretta di settori sociali
coinvolti in determinati problemi collettivi, attivata senza deleghe
attraverso organismi spontanei che vivono per il tempo necessario
senza autoperpetuarsi come ennesimi partiti. Esempio possono essere
le Bürgerinitiativen
(iniziative di quartiere, n.d.r.) in Germania qualche anno fa, sorte
ed attivatesi su svariate "questioni sociali" attuali:
militarizzazione, inquinamento, alloggi, ma anche tematiche
ecologiche e quotidiane, in un certo senso, più "soft".
Quei diritti
smarriti È possibile
tradurre anche in Italia un modello simile, peraltro così vago e
elastico da avere, ovviamente, i suoi pro e i suoi contro, e
soprattutto suscettibile di adattarsi allo "spirito"
italiano? È quello che,
con molta probabilità, si sarà chiesto Giorgio Ruffolo, deputato
socialista, docente universitario e buon conoscitore di "cose
nostre", punta di diamante dell'intellighenzia nazionale nonché
teorico della programmazione "scientifica" in politica e
nell'economia ai tempi dei governi di centro-sinistra degli anni
sessanta. È chiaro che mi voglio riferire al neo-nato Movimento per la Difesa dei
Diritti (smarriti) del Cittadino, che ha visto intellettuali,
politologi, politici di tutte le aree, professionisti e, in parte,
studenti e gente comune del cosiddetto ceto medio, accorrere
richiamati dall'appello provocatoriamente giacobino "Aux armes
les citoyens!" (senza con ciò incorrere nelle ire della
Magistratura, in altri casi, altrettanto innocenti, ben più solerte
a far scattare il reato di istigazione a delinquere...) Il Comitato
promotore di questo Movimento ha lanciato appelli, raccolto le prime
adesioni di varie personalità, acquisito due pagine settimanali di
servizio sull'Espresso, organizzato assemblee cittadine un po'
dappertutto, e iniziato la prima campagna di mobilitazione.
Incuriosito e interessato, ho partecipato ad un paio di incontri.
Senza paraocchi pregiudiziali né infatuazioni seducenti, ho cercato
di distinguere, se e ove possibile, piani meramente riformistici
(senza offesa) e spunti interessanti di intervento libertario. Punto nodale delle
campagne è il rapporto cittadini/Pubblica Amministrazione. Tutti
siamo al corrente, per averlo vissuto direttamente, della vessazione
cui è sottoposto il cittadino comune, che non ha "santi in
paradiso", quando viene, per necessità, in contatto con la
Pubblica amministrazione: senso d'impotenza, d'inutilità, di
inferiorità', d'anonimato più buio, d'incomprensione e d'ignoranza,
di smarrimento di fronte al labirinto burocratico attraverso cui
passa qualsiasi pratica. E ciò più o meno in tutte le
amministrazioni statali, centrali e periferiche. Per di più, la
presenza ossessiva e invadente dello stato ha moltiplicato
all'infinito uffici, enti e procedure burocratiche, per cui oggi è
impossibile sfuggire alla ragnatela della P.A. che paralizza
qualsiasi attività un cittadino voglia intraprendere,
sottomettendolo ad una sfilza di nulla osta, certificati, attestati,
permessi, e chi più ne ha più ne metta, grazie alla fervida
fantasia di decreti e circolari ministeriali. Svincolare il
cittadino, quanto più è possibile sin da oggi, da questo contatto
asfissiante con i vari "palazzi" in cui lo Stato si incarna (e
penetra, nel contempo, nelle carni di tutti noi, sfibrati da code e
attacchi biliari nei nostri rapporti con impiegati e funzionari grigi
e impenetrabili, sebbene "ungibili"), è l'obiettivo
prioritario del Movimento, che mira anche a preservare i diritti
riconosciuti del cittadino a che, negletti, vengano rispettati.
Ottenere una progressiva de-burocratizzazione amministrativa, che
liberi le attività comuni dagli intralci statali, ottenere una
trasparenza procedurale e una accelerazione o scorciatoie procedurali
nell'iter amministrativo, ottenere un quadro limpido dei diritti
all'interno del mare magnum di circolari, decreti, minileggi e diktat
funzionali-organizzativi nella Pubblica Amministrazione: questa è la
ricetta neo-liberale della deregulation di Ruffolo. Non che sia un
obiettivo facile, anzi, perché le resistenze all'interno della
Pubblica Amministrazione in quegli alti burocrati il cui potere è il
privilegio di vessare l'inerme cittadino - processo che sfugge di
mano, spesso, agli stessi politici, sebbene il rapporto
politica/pubblica amministrazione sia, spesso, di complementarietà e
alleanza reciproca -; né un obiettivo disprezzabile, specie se
contribuisce, probabilmente nonostante le intenzioni degli stessi
promotori, ad abituare il cittadino a fare a meno dello Stato. Ed è qua che
scatta il mio interesse di anarchico, che intravvede in questa
proposta ad ampio respiro operativo, sebbene, talvolta, ristretta
quanto a potenzialità latenti scardinatrici, una qualcerta strategia
non soltanto di deregulation, ma anche di destatalizzazione, ottenuta
attraverso una pressione combinata e convergente di istanze
neo-riformiste (di targa PSI, tanto per intenderci), e di
auto-organizzazione dei cittadini.
Se mancano i
cittadini
Sconfortanti sono
le prime impressioni che ho ricevuto dalla presentazione (locale) di
quel Movimento per la Difesa dei Diritti dei Cittadini. Se è vero
che l'adesione individuale "garantisce", almeno in una certa
misura, la non-partiticità (ma non la inter-partiticità), è anche
vero che promotori se ne fanno personaggi politici (locali), legati
direttamente o indirettamente a partiti tradizionali e non (leggi
verdi). Ma questo sarebbe nulla, non siamo vergini in politica, e
sappiamo leggere tra le righe e valutare, realisticamente e
gradualmente, le novità più o meno emergenti. Certo, l'assemblea di
presentazione alla cittadinanza era elitaria, gli oratori
prestabiliti e gli interventi estemporanei confinati in fondo in due
minuti (letterali) a i cittadini che avrebbero dovuto organizzarsi
mancavano, anche perché è un controsenso pretendere che vengano da
te comitato promotore quando sei tu che devi aprirti al territorio,
farti conoscere e organizzare non una ma dieci assemblee cittadine
nei quartieri (e non all'Università). I consulenti,
inoltre, che dovrebbero tutelare l'azione del Movimento con consigli,
appunto, di carattere specifico, normativo, ecc., spesso sono figure
prestigiose intellettualmente, già legati più o meno a formazioni
partitiche (ma chi oggi non è legato per poter emergere?...); ma
questo non sarebbe nulla, ancora, se a impostare l'azione del
Movimento fossero i cittadini stessi che individuano disfunzioni, si
organizzano per contrastarle e mettono un po' a soqquadro e sotto
pressione l'amministrazione malcapitata. Invece le campagne partono
dall'alto, gli obiettivi, per carità notevoli, vengono individuati
dell'élite promotrice, e poi non si capisce bene su quali gambe
organizzare la pressione popolare. Perché qua sta il
vero nodo ambiguo della proposta di Ruffolo: movimento per cittadini
di questo stato o movimento dei cittadini? Non è la solita ottica
anti-statuale dell'anarchico - la mia disponibilità di massima a
prendere in considerazione l'ipotesi già suonerebbe eresia a qualche
compagno più "duro" e "ortodosso", meno "aperto"
a suggestioni esterne e, ripeto, ambigue -. Il rischio del Movimento
è quello di americanizzarsi, diventare cioè una lobby elitaria di
istanze riformiste, paternalisticamente miranti ad alleggerire gli
oneri dei cittadini, che sentitamente ringraziano accettando, sempre
passivamente (o con la minima fatica di segnalare disfunzioni, con il
rischio che una prassi di segnalazioni degeneri, magari in altri
campi, in prassi delatoria diffusa, e addio rispetto della privacy
del cittadino), accettando, si diceva, questa ennesima manna dal
cielo, da parte di uno stato buono questa volta, ma sempre stato. Ci
penseranno intellettuali e politici a trasformare le lamentele in
pressioni interne al sistema politico e, grazie ai loro contatti nel
Governo e nel Parlamento, a varare un disegno riformista di legge, o
un nuovo decreto ministeriale, un nuovo regolamento amministrativo e
via continuando, e così accontentare i cittadini onesti. Il tutto nel quadro
di uno Stato nuovo, dove nulla di sostanziale cambia, restando
inalterate le posizioni in campo ed i ruoli, restando inalterata,
anzi uscendo rafforzata, la legittimità e la credibilità di
autoriforma delle istituzioni (utopia di un sogno?), restando
inalterata la fisionomia organizzativa della forma-Stato, variando
tuttalpiù la bilancia del rapporto conflittuale politico/pubblica
amministrazione. Del resto, in
ultima analisi, il riferimento alla figura del cittadino nata dalla
rivoluzione francese e istituzionalizzata dalle varie carte di
diritti e costituzioni della borghesia nel suo periodo d'oro
avvalorerebbe questi timori, giacché precipuità del cittadino è
l'appartenenza ad uno Stato e la sua sottomissione felice e
consenziente.
Dalla
deregulation alla destatalizzazione
Ma allora, qual'è
lo spiraglio interessante da un punto di vista libertario? I giochi
sono già fatti? Sicuramente no, e infatti non mi spaventa tanto il
fatto che si voglia canalizzare il tutto, depotenziato da prospettive
più ampie, verso istanze riformiste e basta, per giunta concesse
grazie ad attività di lobby e non strappate con la forza
dell'auto-organizzazione dal basso. Io credo che un
progetto di strategie anarchiche di fine secolo debba fare i conti
con la possibilità di sfruttare l'ondata di deregulation per
radicalizzarla in una marea di destatalizzazione, a partire anche da
elementi minimali come l'approccio quotidiano con i mille problemi
del rapporto cittadini/Pubblica Amministrazione. Per far ciò, è
probabile che si debba correre qualche rischio di deragliamento dai
binari consueti e consolidati (ma sarà poi vero?) dell'azione
libertaria tradizionale, rischio che va tenuto in conto e
prevenuto/corretto, secondo le fasi, da un'attenzione critica di
rispetto della "logica anarchica". Entrare in questa
ottica politica di destatalizzazione vuol dire, a mio avviso, uscire
dalle sedi e misurarsi con la prospettiva dell'auto-organizzazione
dei cittadini su obiettivi concreti, specifici, più o meno
immediati, ai quali saper dare risposte concrete, intermedie rispetto
al mitico R. Day (giorno della Rivoluzione con la R maiuscola) e
senza scandalizzarci se questa possibilità verrà da altri giocata
come carta riformista per cambiare qualche legge, a patto che
l'auto-organizzazione dei cittadini sia un fatto vero, reale, di
lotta dal basso.
Certo, noi
anarchici, sebbene gradualisti a parole, citando Malatesta a memoria,
siamo poi incapaci di concepire, dentro una strategia politica a
lungo termine, passaggi intermedi tattici, non diluiti né
affossatori o incoerenti, che però siano soddisfacenti sia per i
nostri percorsi, sia per le aspettative delle lotte, che a un certo
punto devono "sfociare" in qualche conquista "praticabile",
"possibile", pur essendo sorretta dall'utopia, e che deve
porre la controparte nelle condizioni di dover cedere senza attaccare
con azioni repressive che brucerebbero il campo e farebbero svanire
l'auto-organizzazione dei cittadini stessi (da non confondersi con
l'auto-organizzazione specifica degli anarchici, che lottano contro
lo Stato "senza macchia e senza paura", convinti e
coscienti, mentre i cittadini sono gente comune, con i loro livelli
di coscienza da rispettare, con i loro timori reverenziali da
smussare lentamente come la loro apatia all'impegno diretto, con le
loro paure ancestrali verso lo Stato da rimuovere gradualmente, senza
bacchette magiche a disposizione). Ed uno dei banchi
di prova di questa ipotesi, tutta da verificare sia teoricamente che
praticamente, è dato dalle elezioni generali prossime venture (non
ha importanza quando, se a maggio/giugno o in autunno o l'anno
prossimo, ma la scadenza in se stessa). "Il primo e il più
efficace dei mezzi di comunicazione di massa è il sistema
elettorale: il referendum ne rappresenta il coronamento, giacché la
risposta è implicita nella domanda, come nei sondaggi d'opinione. Si
tratta di una parola che risponde a se stessa, simulando il processo
di una risposta; e, ancora una volta, l'assolutizzazione di una
parola sotto il travestimento formale dello scambio rappresenta la
costituzione stessa del potere" (Jean Baudrillard, Per una
critica dell'economia politica del segno, Mazzotta, Milano, 1974,
p.183).
Ma le
chiacchiere non bastano
L'estraneità degli
anarchici ai "riti" istituzionali è notoria, essendo
motivata sia da profonde convinzioni ideologiche, sia da rinnovate
verifiche politiche: la via di un cambiamento reale della società,
sia nella sua totalità, sia in qualche suo segmento, non passa
attraverso le istituzioni, deputate appunto a cristallizzare e
fissare piuttosto che a dar libero spazio a dinamiche mutazionali -
se non quelle di riassesto fisiologico interno. Pur tuttavia,
l'approccio strategico degli anarchici di fronte alle elezioni non va
al di là della mera propaganda astensionista, in una pia illusione
che solo l'"educazionismo della parola" sia sufficiente a
mostrare alla pubblica opinione l'evidenza delle nostre motivazioni e
coerenze ideologiche e politiche, oltreché a dimostrare la bontà
della nostra alternativa. Su questo punto
siamo deficitari, e non possiamo cullarci oltremodo a pensare che la
gente si estranei da un rito d'identità interiorizzato, quale la
partecipazione "coatta" e "volontaria" nel
contempo, che è conforme a tutto uno stile di vita ed a una
organizzazione sociale che investe globalmente il corpo e la mente di
ciascuno di noi. In questi ultimi tempi, inoltre, il fenomeno
singolare dell'astensionismo (o della protesta nell'urna
espressa ambiguamente, per noi palati fini, in varie modalità
comunicative) ha preso una qualche dimensione che è difficile da
ricondurre o meno alla nostra influenza propagandistica; la gente si
astiene, alcuni non anarchici, per dirla in soldoni, rifiutano
coscientemente di partecipare attivamente e passivamente al voto, con
motivazioni specifiche alle loro sensibilità, manifestando un
comportamento di estraneità simile al nostro. A questo punto,
senza esaltare la nostra capacità d'influenza, penso sia un peccato
limitarci a "chiacchiere" ed a inviti astensionisti, perché i
tempi sembrano maturi per altre scadenze ed altre possibilità:
occorre andare oltre l'astensione, oltre cioè al mero momento
astensionistico, per cercare di organizzare un rifiuto cosciente del
rito istituzionale che allarghi il proprio raggio d'azione oltre al
voto.
Graduare le
strategie
Va fatta una
considerazione. A prescindere dalle motivazioni ideologiche e
politiche specificatamente anarchiche, non è plausibile immaginare
che gli astenuti o i protestatari del voto siano o possano diventare
tutti libertari, almeno se il loro gesto è circoscrivibile a questo
unico momento. Né è plausibile pensare una loro presa di coscienza
più radicale se l'alternativa al momento del voto, o di qualunque
altro rito istituzionale, è la mera denuncia a parole. Occorre che
l'anarchia organizzata faccia intravedere alcuni spazi concreti in
cui le potenzialità d'estraneità che la società esprime in alcuni
momenti e in alcuni comportamenti, anche se delimitati
quantitativamente, possono ritrovarsi insieme ed esprimersi
compiutamente, canalizzando tali potenzialità. Organizzare
l'astensione, in due parole, non strumentalizzando quei gesti, quei
comportamenti, quelle motivazioni, come potrebbe fare un Pannella,
bensì organizzando le condizioni affinché quei gesti, quei
comportamenti, quelle motivazioni si auto-organizzino insieme per
convogliare la protesta e il rifiuto su determinati obiettivi, su
percorsi alternativi e radicalmente estranei agli spazi
istituzionali. Non possiamo
ragionare come se queste auto-organizzazioni sociali siano in nuce
anarchiche, o siano libertarie solo dal punto di vista metodologico,
pur importante, cioè siano autoregolamentate secondo i principi e la
prassi della spontaneità, dell'azione diretta e non mediata,
dall'autogestione dei meccanismi interni organizzati, del rifiuto
della delega "professionalizzata", ecc.; mirando solo a
ciò, peraltro, abdicheremmo a formulare una strategia politica per
quelle situazioni d'auto-organizzazione sociale in cui noi anarchici
siamo presenti insieme a non anarchici. Ciò vuol dire
considerare anche il punto di vista di questi ultimi, e dover
graduare le nostre strategie specifiche, talvolta rarefatte a livelli
di astrazione perché prassi incapaci di radicarsi nello spazio e nel
tempo vincolanti attuali, che dettano le condizioni per innescare
dinamiche di cambiamento sociale collettivo dal basso. In tal senso,
quando si condanna il rito istituzionale, occorre, a mio avviso, non
solo denunciarne la fallacia, la mistificazione, la sostanziale
inutilità, ma anche avanzare alcune alternative praticabili con cui
possano ritrovarsi non-anarchici che abbiano espresso gesti,
comportamenti e motivazioni di rifiuto, solo in ultima analisi e non
automaticamente riconducibili a istanze libertarie, ancora non
compiute (e non c'è nessuna garanzia che si compiano o meno, specie
se non pratichiamo alternative plausibili). Ciò vuol dire dotarsi di
progetti transitori, intermedi tattici, chiamiamoli come li si vuole,
che identifichino degli obbiettivi e li perseguano, senza arrestarsi
a questi (non è una variante "nobile" del riformismo
quella che, non nitidamente, ho in testa), responsabilizzando
auto-organizzazioni di base in crescita solo se riescono a
concretizzare istanze e tensioni, cioè a tradurle in realtà con
vittorie, costringendo la controparte a concessioni e utilizzando
queste per ulteriori trampolini di lancio verso altri obiettivi,
facendo avanzare, nella prassi, un terreno di lotta comune, anarchici
e non anarchici, se è vero che queste auto-organizzazioni sociali
sono per definizione pluralistiche.
Per fare un esempio
concreto: io penso che una delle motivazioni del fenomeno
astensionista, per come lo interpretano e lo vivono non anarchici, e
non quindi soltanto noi corazzati e supportati da scelte ideologiche,
teoriche e politiche, sia la rarefazione della dimensione del
controllo popolare e della partecipazione reale tradotta in capacità
di scegliere e decidere alcune cose in alcuni settori di rilevanza
sociale. E ciò sia a livello globale che, a maggior ragione, a
quello locale. Ebbene, noi anarchici non possiamo stare alla
finestra; dobbiamo organizzare uno spazio concreto, agibile,
operativo, in cui si possano riconoscere tutti coloro che rifiutano
di stare al gioco istituzionale e sentano la necessità di tradurre
quel loro rifiuto in qualcosa di concreto; tale spazio non è uno
spazio tout-court rivoluzionario per essenza "divina",
perché siamo noi anarchici che lo allestiamo astrattamente; è uno
spazio d'auto-organizzazione popolare, dal basso, degli astenuti per
restare nell'esempio, che si proponga, tanto per buttare giù qualche
spunto, di tallonare da vicino le azioni del potere locale, che si
proponga di controllare scelte, decisioni, effetti, dal di fuori
dello scenario istituzionalizzato, canalizzando direttamente
eventuali conflittualità. Spazio sociale,
quindi, non specifico, che renda partecipativa una istanza e una
tensione diffusa, che preveda alcune fasi di sbocco di determinate
campagne di protesta, che dimostri tangibilmente che l'azione
diretta, l'autogestione, l'auto-organizzazione, la via non
istituzionale insomma, paga, riesce a esprimere un controllo reale;
riesce a bloccare magagne del potere, riesce a migliorare seppur di
poco la qualità della vita, riesce a tradursi in fatti concreti da
imporre al potere. Certo, non è la
rivoluzione, ma è urgente uscire dalla logica manichea e
auto-castrante del "o tutto o niente", perché la peggior
astrazione è quella di una prassi sganciata dalle reali condizioni
di preparazione, di opportunità e di possibilità che si offrono ad
una strategia anarchica. Graduare obiettivi, tempi, risultati
conseguibili è una logica specificatamente anarchica al passo con la
realtà, dentro la realtà per stravolgerla contro essa stessa,
essendo anche un
minimo baluardo
contro degenerazioni sia messianiche, sia velleitarie, sia
riformistiche (la tendenza ad accontentarsi di quanto strappato e
ottenuto, arrestandosi ai primi risultati e abbassando la guardia). Non credo di aver
delineato, per concludere, alcunché di estremamente originale; solo
la tensione di far compiere un salto qualitativo al movimento
anarchico - immodestia da poco... - sia da un punto di vista di
logica specificatamente anarchica in contesti illibertari, sia da un
punto di vista di preparazione di progettualità del cambiamento
reale in contesti vincolanti, sia da un punto di vista di strategie e
di tattiche necessarie per far muovere una macchina rivoluzionaria
che voglia tornare ad essere protagonista, e non soltanto
antagonista, delle istanze di libertà individuali e sociali.
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