Rivista Anarchica Online
Goria sfrizzola il velopendulo
di Andrea Papi
Ohibò! L'Altissimo si è
finalmente fatto sentire. Nonostante la sua velata presenza,
formalmente pacata e più che rispettosa, questa volta ha
tentato di usare la mano pesante. Così il buon Goria, che è
riuscito a conservare le buone maniere da tranquillo borghese di
provincia pur cadendo con stupore dalle nuvole, si è sentito
in dovere di dare le dimissioni. Uscito dall'ultimo vertice del suo
primo governo aveva dichiarato di esser sicuro di avercela fatta. A
suo dire, quando le persone hanno la volontà esplicita di
mettersi d'accordo trovano sempre il modo di stare insieme. Solo
Bettino, solito furbacchione, aveva dato ad intendere che verso sera
il cielo si sarebbe rabbuiato. E così è stato. Dopo 100
giorni il primo governo Goria è maldestramente caduto per
volontà, forse, di chi si trova nelle altissime sfere. Questa caduta non ha neanche fatto un
gran tonfo; è stata talmente soffice che abbiamo percepito
solo un lieve paff! al momento dell'impatto. Del resto era nell'aria
fin dal suo nascere di governo post-elettorale, alleanza a cinque
definita di programma. Ma la cosa più strabiliante è
che subito dopo la caduta non rovinosa, più che altro di
facciata, è stato affidato il reincarico allo stesso Goria, il
quale in tempi brevissimi, con velocità da record inusuale in
Italia, ha riformato lo stesso governo di prima nell'ambito della
medesima alleanza a cinque. Roba da primato. Producendo uno
spettacolo inatteso, l'Altissimo è ritornato al suo bassissimo
ruolo d'appoggio, mentre i litigiosi leader dei cinque partiti in
carica hanno miracolosamente ritrovato la via dell'accordo, che per
qualche ora era sembrato compromesso.
Elasticità compromissoria
Qualcosa evidentemente non funziona o,
a seconda dei punti di vista, funziona fin troppo bene. È
il fatto di riuscire a fare e disfare sempre impunemente attraverso
gli squallidi giochi di palazzo; quando succede, pagano dei costi
politici bassissimi, senz'altro sproporzionati per difetto rispetto
alle continue nefandezze di cui sono da sempre faccendieri. Lor
signori non smettono di giocare con la cosa pubblica, decidendo
tranquillamente quando e come, occupandosi in modo astruso e
bizantino delle loro spensierate alleanze, che girano a spirale, cioè
a vuoto, in continuazione attorno agli stessi nomi e alle stesse
cose, riproponendo in mille modi e in mille forme le stesse non
soluzioni, gabbando bellamente le aspettative, i desideri e i bisogni
di tutte le persone che, al di là della propria volontà,
si trovano ad essi sottoposti. Proprio i due ultimi
macro-avvenimenti, la falsa caduta del governo e i referendum, sono
in questo senso esempi lampanti. Entrambi hanno la caratteristica di
risultare poco comprensibili agli occhi e agli orecchi di chi non ha
la masochista buona volontà di seguire puntigliosamente i
fatti arroganti dei responsabili della decisionalità politica. Il governo è caduto per poi
ricomporsi subito attorno, diciamo così, a una questione
d'onore. Il tutto fatto con una faccia tosta che ha del sorprendente.
I liberali non potevano accettare che fossero completamente ignorate
le loro pregiudiziali di programma, che tutta la manovra finanziaria
venisse fatta come se non esistessero. Avevano chiesto una minor
tassazione accompagnata a un aumento dei tagli alla spesa pubblica,
mentre la riscrittura della finanziaria in seguito alla sopravvenuta
crisi internazionale era stata impostata in senso inverso a queste
loro richieste. Così, tra dubbi e incertezze, hanno fatto
sentire la loro voce inscenando il piccolo buttasù della finta
caduta del governo, immediatamente rimarginato. Poi, appena sentitisi
un po' importanti, hanno accettato un compromesso che riconosce solo
in minima parte le motivazioni addotte. Sono veramente molto malleabili le
questioni di principio di questi signori, forse perché il loro
unico principio è l'elasticità compromissoria, chiamata
con molta eleganza "senso di responsabilità",
secondo il quale le questioni poste sembrano irrinunciabili, mentre
poi arrivano sempre a mettersi d'accordo in gran minestroni,
all'interno dei quali le questioni irrinunciabili vengono stravolte.
Nel caso in questione, si è fatta una crisi di governo
sostanzialmente per riscrivere la "tabella D" del progetto
di legge finanziaria che verrà sottoposta al vaglio del
parlamento. Il famoso taglio irrinunciabile alla spesa pubblica,
secondo il principio per cui lo stato deve tassare di meno perché
deve spendere meno, è diventato praticamente un taglio di 1500
miliardi agli stanziamenti agli enti locali. Così a spendere
di meno non sarà tanto lo stato, ma i comuni e le provincie,
che già soffrono di poca disponibilità di denaro per la
costruzione, a lor dire, di servizi di pubblica utilità. La questione della spesa pubblica, al
di là delle barzellette raccontate da Altissimo in TV, è
veramente una cosa seria, al punto che i signori del governo non
possono e non vogliono risolvere perché, se affrontata fino in
fondo e portata alle sue logiche conseguenze, metterebbe in crisi i
presupposti fondanti dello stato stesso. Infatti lo stato è
una enorme azienda improduttiva, la cui caratteristica principale è
quella di succhiare continuamente ricchezza senza produrre
praticamente nulla. Esso deve mantenere una burocrazia parassitaria,
che vegeta all'ombra delle clientele mafiose dei potentati politici,
costosissima e quasi sempre inefficiente. Deve provvedere alle
ingenti spese della difesa, cioè mantenere in piedi l'apparato
militare, anch'esso costosissimo e funzionale solo alla logica
militarista, che non ha nulla a che vedere con la pubblica utilità.
Poi gestisce ferrovie, sanità e scuole, ma attraverso un
enorme spreco di energie e di denaro divenuto ormai leggendario.
Inoltre è emanatore e sovvenzionatore di una miriade di enti e
sotto-enti definiti eufemisticamente inutili, in realtà più
che altro dannosi, i quali vivono esclusivamente all'ombra delle
clientele e succhiano denaro pubblico subdolamente, senza far
praticamente nulla.
A chi è servita questa
"crisi"
Si tratta dunque di una macchina e
un'azienda estremamente costose e funzionali solo alle ramificazioni
di potere gestite dalla partitocrazia. È appunto questa
struttura tentacolare e totalizzante, descritta per sommi capi, che
porta agli ingenti oneri della spesa pubblica, che la finanziaria
ogni anno deve mettere in bilancio. Porre perciò il problema
di diminuire la spesa per diminuire al contempo la tassazione fa
senz'altro un buon effetto populistico, ma è impossibile da
realizzare se non vengono messi in discussione i presupposti fondati
e strutturali su cui si sorregge lo stato. Non possiamo aspettarci
tanto da conservatori inveterati come i politici del PLI, né
tantomeno dagli altri partiti, in particolare quelli di governo,
perché continuano a vivere, in non pochi casi ad arricchirsi,
proprio per mezzo dello stato che dovrebbero mettere in discussione. Nonostante tutto questa finta crisi a
lor signori è in qualche modo servita. Hanno infatti
approfittato del piccolo pateracchio per mettere a punto alcuni
potenziali pomi della discordia, uno dei quali è proprio la
finanziaria, risoltasi nel modo che abbiamo visto. Altro problema che
rischia di suscitare non pochi litigi è la gestione politica
del post-referendum, sia per quello che riguarda la magistratura, sia
soprattutto per la definizione del piano energetico. La prevista
vittoria dei sì ha legittimato le consorterie politiche a
gestire entrambi i casi attraverso la decisionalità
governativa e parlamentare. Anche se al loro interno ci sono
interessi e visioni contrastanti, per quello che ci è dato di
capire, le visioni generali non sono poi così diverse. Il problema giustizia è stato
concepito fin dall'inizio come momento di ristrutturazione
legislativa dell'operato della magistratura. Sarà sicuramente
risolto con accordi che tengano conto degli interessi della casta,
come delle ingerenze e influenza della classe politica al potere, e
probabilmente con una spartizione clientelare degli incarichi, più
aggiornata rispetto alle modificazioni della geografia partitica.
Resta comunque un problema completamente interno all'assetto politico
dominante. L'accordo che ne scaturirà non farà
certamente trionfare la giustizia, perché in ogni caso si
tratterà di una giustizia e di una magistratura di stato,
garanti della logica e degli interessi di questo. Da anarchici, a
ragion veduta, riteniamo che lo stato in quanto tale sia una
struttura contraria alla realizzazione di un'organizzazione sociale
basata sulla libertà. Non possiamo che assistere distaccati a
questa messa in scena.
Nonostante i referendum
Per quanto riguarda il piano
energetico la questione è un po' diversa perché investe
tensioni e visioni del mondo realmente contrapposte. Qui non si
tratta semplicemente di mettere d'accordo la volontà
partitocratica e gli interessi di una casta, come nel caso della
magistratura. Si tratta bensì di scegliere tra una concezione
industrialista ed una ambientalista. Noi non abbiamo dubbi, come non
ne avevamo prima dello svolgersi dei referendum, che le scelte in
proposito avverranno all'insegna del controllo centralizzato
dell'energia, perfettamente concomitante con la logica industriale
che domina il mondo, comprendente la costruzione di megacentrali, sia
nucleari, sia a carbone, sia a metano. Al di là delle ingenue
aspettative dei referendumisti, probabilmente la vittoria dei sì
sortirà l'unico effetto di riuscire a bloccare la costruzione
di tutte le centrali in programma, almeno per ora. Ma quasi
sicuramente saranno autorizzate a continuare a produrre energia
quelle già costruite. Le prime avvisaglie di questa tendenza
si vedono già nella ridefinizione programmatica del Goria bis.
I socialisti, che avevano finto di essere antinucleari per esigenze
di propaganda e di ricatti all'interno dell'alleanza governativa, già
stanno abbattendo quest'immagine abbastanza velocemente, riconoscendo
la necessità confindustriale che non si possono mandare a male
le centrali già in funzione, come quelle quasi terminate. I
democristiani che, nonostante siano da sempre nuclearisti, avevano
dato indicazione di votare sì, ora si sentono legittimati nel
porre in campo le loro proposte di un piano energetico comprendente
anche il nucleare. Il problema è che sono sempre
lor signori a decidere. I referendum, al di là della evidente
vittoria dei sì, non hanno fatto altro che legittimare il loro
operato attraverso il consenso generalizzato. I sì hanno
abrogato solo la definizione, non il senso si badi bene, di alcune
norme. E i tutori della cosa pubblica, che sono sempre stati
favorevoli a una politica comprendente il nucleare, rimanendo
coerenti con la loro impostazione, prenderanno atto che dovranno
ridefinire nuove norme, utili a una concezione dell'uso dell'energia
com'essi intendono. Lo faranno togliendo ai sì quel
significato di inversione di tendenze che gli ambientalisti,
illusoriamente e caparbiamente, continuano ad attribuirgli. Questa
vittoria di Pirro sta dimostrando la dannosità dello strumento
referendario, inteso quale mezzo per condurre battaglie di
emancipazione e di libertà.
|