Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 151
dicembre 1987 - gennaio 1988


Rivista Anarchica Online

Dietro Wall Street
di Luciano Lanza

Il recente lunedì nero dei mercati speculativi non ha rappresentato solamente un periodico riaggiustamento. Siamo di fronte a profonde trasformazioni: la moda liberista è stata un venticello che si sta rapidamente estinguendo sulle aride ma inoppugnabili compatibilità determinate dal debito pubblico.

Le ragioni contingenti del lunedì nero della Borsa sono presto elencate: il forte deficit della bilancia commerciale statunitense ha indotto il governo di Bonn a elevare il tasso di sconto della banca centrale per impedire che la forte economia tedesca pagasse un conto troppo salato al potente alleato d'oltreoceano. Ma questa operazione, decisa unilateralmente dai tedeschi, ha rafforzato le tentazioni ribassiste che già da tempo serpeggiavano sulle maggiori piazze finanziarie e con l'aiuto dei computer, regolati per vendere quando i prezzi scendono sotto un certo livello, il gioco si è completato: la valanga degli ordini di vendita non ha più trovato compratori, nemmeno a prezzi stracciati. Il panico, il fantasma del 1929, lo spauracchio della grande recessione, hanno sconvolto i rampanti yuppies tanto bravi a guadagnare quando le cose vanno con il vento in poppa, ma incapaci di comprendere, nonostante i loro astronomici stipendi (e i cosiddetti fringe benefit), cosa bisogna fare nei momenti difficili, soprattutto quando bisogna avere sangue freddo per prendere decisioni immediate e non conformistiche.
Ma fino a questo punto siamo ancora alla cronaca della crisi borsistica. Una cronaca che è stata raccontata fin nei minimi particolari dai quotidiani e dai periodici specializzati. Nel frattempo quasi tutti i guru dell'economia, quelli che stanno nei campus del Mit o racchiusi nel tempio di Salomon (non quello di Gerusalemme, ma di New York) si sono affrettati a ripetere che una crisi simile a quella conosciuta negli anni Trenta non può ripetersi perché gli strumenti di controllo a livello mondiale sono capaci di scongiurare simili eventi e perché l'economia reale è sana, ha una capacità produttiva elevata che incontra una domanda sempre più diffusa e tendente al rialzo.
Sarà anche vero, ma allora non si capisce perché le quotazioni dei titoli che rappresentano quelle aziende sane, quelle dell'economia reale, tanto per intenderci, continuano a scendere o tuttalpiù fanno l'altalena a livelli fino a pochi giorni fa ritenuti impensabili. La spiegazione, ovvia ma vale la pena ricordarlo in questi tempi di edonismo reaganiano smemorato e superficiale, va cercata più che nei fatti contingenti, cioè nella cronaca, di per sé vera ma non esaustiva, nelle linee di fondo che da alcuni decenni caratterizzano l'economia mondiale. Tre sono i fenomeni su cui vale la pena riflettere: la continua avanzata dello stato nell'economia e nella società; le capacità incontrollabili della speculazione internazionale; l'autonomizzazione del capitale finanziario.
Il primo punto sembrerebbe, a prima vista, un non senso, una solenne stupidaggine, un'analisi vecchia decotta, legata alle proiezioni economiche che apparivano nei primi anni Settanta su questa rivista. Così non è. Nonostante i canti di vittoria lanciati dai sostenitori del liberismo, delle meraviglie del libero mercato, del "meno stato più mercato", l'economia statale ha continuato a fare passi da gigante. Molti, quasi tutti, non se ne sono accorti (e altri furbescamente hanno finto di non accorgersene) perché nel frattempo è realmente spirato un venticello liberista. L'inefficienza delle varie burocrazie pubbliche è stata messa sotto accusa (più formale che sostanziale), qualche impresa pubblica è rientrata nell'area privata, alcune grandi aziende private hanno guidato la ripresa produttiva, ma tutto questo non basta per poter affermare che il liberismo è in grado di fornire un soddisfacente modello di sviluppo per l'economia mondiale o anche dei singoli stati. Il liberismo della fine degli anni Ottanta si fonda su un pensiero debole, è costituito più da sensazioni e umori che non da robusti ragionamenti e, visto che si tratta di economia, da cifre.
Ebbene, facciamo un po' di cifre, di quelle che contano. Nel 1980 il debito pubblico dello stato italiano (cioè quanto non riesce a rimborsare) rappresentava il 58,5% del prodotto interno lordo (PIL) cioè quanto in un anno si produce in Italia; alla fine di quest'anno, secondo i conti fatti dal governatore della Banca d'Italia, questo rapporto sarà del 93,4%. In pratica la produzione di un intero anno è quasi uguale al debito accumulato. Qualcuno potrebbe obiettare che il caso Italia è anomalo rispetto ai partner occidentali, dopotutto siamo il fanalino di coda dei paesi maggiormente industrializzati. Bene, guardiamo i conti della capitale dell'impero d'Occidente: negli Usa il debito pubblico rappresentava nel 1980 il 37,7% del pil, sette anni dopo la percentuale è salita al 51,6%. Qualcun altro, ancora, obietterà che il vero liberismo viene dall'Estremo oriente. Ebbene, sempre negli stessi anni, il debito pubblico del Giappone è passato dal 52 al 69,5%. Unica eccezione la Gran Bretagna che scende dal 54,9 al 53%, ma grazie a costi sociali incredibili e impraticabili nei prossimi anni.
Quando il debito pubblico assume tali dimensioni e soprattutto quando il deficit annuale si mantiene su cifre di tutto rispetto come i 110 mila miliardi di lire per l'Italia e i 100 miliardi di dollari per gli Usa (mettiamo pure 70 miliardi nel 1998 se riesce la manovra denominata Gramm Rudman), ha ancora senso parlare di economia di libero mercato? La risposta può essere affermativa soltanto ricorrendo a un artificio logico formale, ma nella sostanza la risposta non può che essere negativa, perché con deficit e debiti a quei livelli bisogna riconoscere che il tanto decantato liberismo attuale si muove soltanto all'interno di percorsi tracciati dalle compatibilità imposte dalla contabilità dello stato. Il tutto con buona pace dei teorici del liberismo.

Dall'economia alla finanza
Il secondo punto la speculazione internazionale è più facilmente comprensibile. A partire dagli anni Settanta, in concomitanza con le crisi petrolifere, si sono formate masse indescrivibili di capitali che vagano da una piazza finanziaria all'altra cercando le occasioni migliori per fare profitti. In questi anni hanno continuato a crescere con un processo di autoalimentazione senza soste e per di più, data la loro consistenza, non debbono nemmeno ricercare la piazza più conveniente: semplicemente la creano. Puntano al rialzo o al ribasso e operano, grazie alle loro dimensioni, perché ciò avvenga. Una volta ottenuto il risultato previsto (e aiutato) si ritirano e vanno verso altre avventure. Questi capitali, è ovvio, sfuggono a ogni controllo, hanno una priorità, quella del profitto, ma alcune volte ubbidiscono a richiami di segno politico: si pensi, ad esempio, alle manovre di pressione attuate dai capitali finanziari di origine araba.
Questi capitali sono una variabile non prevedibile (o scarsamente prevedibile) dagli economisti e dai governatori delle banche centrali e giocano un effetto moltiplicativo nelle congiunture economico finanziarie. Rappresentano il vero internazionalismo finanziario e sono forse l'unica vera area del liberismo.
Lo sviluppo finanziario dell'economia, terzo punto di quest'analisi, ha raggiunto una complessità e un'articolazione tali, che risulta sempre più difficile considerare economia produttiva ed economia finanziaria come parti complementari di uno stesso fenomeno. Il fatto che a Detroit o a Chicago o a New York si scommetta sulle quotazioni del grano o sul prezzo dei pomodori oppure sui livelli dei tassi in un certo paese, oppure sulle differenze di quotazione di una determinata moneta, ha un rapporto molto tenue con quella che normalmente viene considerata economia reale. Siamo nel campo di un'economia che conserva soltanto i segni dei fenomeni reali ai quali si richiama, anzi questi segni ricordano solo alla lontana fenomeni come produzione, trasferimenti, scambi. Siamo nella simbologia dell'economia, cioè alla simbolizzazione di un fenomeno che è già di per sé simbolico.
L'economia, infatti, come momento di rappresentazione formalizzata di processi reali, quali il produrre e il consumare, trova la sua trasfigurazione nella finanza. Qui le regole diventano semplici, perfino banali, tutto è all'interno di binomi quali comprare-vendere, guadagno-perdita. Balza agli occhi, anche di chi non mastica cose economiche, che c'è una grossa diversità con i problemi dell'approvvigionamento di materie prime, predisposizione del processo produttivo o di trasformazione, individuazione dei canali distributivi, solo per citare alcuni passaggi fondamentali dell'economia cosiddetta reale.
Ora è proprio questa diversità, questo rispondere a regole comportamentali diverse, che ci racconta la nascita e la separazione della sfera del finanziario dall'economico. Nata nel grembo della produzione, la finanza ormai cammina su gambe che non hanno più alcun riferimento, se non letterario o formale, con quelle della madre.
Si è di fronte a una figura inedita delle categorie dell'economico: il finanziario non rappresenta, come scrivevano alcuni economisti dell'inizio di questo secolo, il perfezionamento delle tecniche della produzione, siamo invece al cospetto di una dimensione totalmente altra che, pur attingendo validità dalle pratiche economiche tradizionali, ha forme di rappresentazione che prescindono da quelle che l'hanno originata. è l'apoteosi dell'immaginario economico che perde ogni contatto con il reale per librarsi in dimensioni che nulla hanno a che vedere con la prosaicità della materia. La finanza non è lo stadio evolutivo superiore della produzione, è la sua negazione. Apparentemente la esalta, sostanzialmente la nega, perché la finanza si fonda su un atto di fede: se la gente ha fiducia tutto funziona, altrimenti tutto crolla. I financial futures, ad esempio, non sono titoli che rappresentano merci, ma sono forme astratte di una scommessa che darà utili o perdite secondo quotazioni arbitrarie di altri titoli che pretendono rappresentare merci. Merci che hanno la loro materialità soltanto in mercati collegati informaticamente a quelli che decidono delle loro sorti e dei loro sbocchi su altri mercati.

La morte del capitalismo
Ed è in questa chiave interpretativa che si può analizzare il risveglio del capitalismo. Un risveglio, va subito precisato, più vicino alla lotteria o al gioco del lotto che alle sanguinarie pratiche del signor Ford, quando difendeva la produttività delle sue catene di montaggio, minacciate dagli scioperi dei sindacalisti dell'IWW, con le pistolettate degli agenti della Pinkerton. Il capitalismo, infatti, è morto e sepolto, quello a cui abbiamo assistito in questi anni ne è solo la forma illusoria: fare il colpo grosso per ritirarsi sulle assolate spiagge di qualche isola dei Tropici o, più modestamente, vivere di rendita. Cosa assolutamente impensabile per un Rockfeller, un Dupont, un Agnelli dei tempi andati.
La crisi che stanno attraversando i mercati finanziari in questi giorni ha cause che non hanno nulla a che vedere con le analisi trite e ritrite lette sui mass media: è una crisi che discende direttamente dal processo di autonomizzazione prima indicato. Oggi la credenza più diffusa tende ancora ad assegnare alla finanza una dimensione complementaria all'industria (intesa in senso lato come insieme della produzione e dei servizi) per cui quando le sue quotazioni e le sue regole si distaccano troppo sensibilmente dalla seconda, subentra un'ancestrale paura che provoca la crisi. Bottegai, arraffoni, pensionati sprovveduti, banchieri ottusi, ingordi speculatori, marpioni della partita doppia , finanzieri improvvisati, boccheggianti bocconiani, pendolari della Borsa, giornalisti prezzolati, impiegati d'azzardo si fanno travolgere dai sacri timori delle regole dell'economia classica e perdono tutto quanto avevano guadagnato e spesso anche molto di più. Perché, vale la pena sottolinearlo, la Borsa si basa su un gioco a somma zero: quello che guadagna uno lo perde l'altro, oppure se tutti (o quasi) guadagnano, tutti (o quasi) perderanno in un momento successivo.
L'attuale crisi è, dunque, momento che prelude a un'accentuata evoluzione: la finanza, nuova farfalla del guadagno, esce dalla crisalide dell'economia produttiva che per troppi inverni l'ha racchiusa e volteggia nel venticello della speculazione. La finanza si delinea come sfera autonoma della produzione di ricchezza, ricchezza fittizia come i segni che la rappresentano, ma in grado di fornire occasioni di guadagno ai suoi fedeli credenti perché, parafrasando una nota canzone, l'importante è crederci e allora tutto andrà per il verso desiderato fino a quando i paesi debitori del terzo mondo decideranno definitivamente di non onorare più i debiti contratti, allora nuove alchimie sostituiranno le attuali simbologie finanziarie e il gioco riprenderà su altre basi. Messieurs faites vos jeux.