Rivista Anarchica Online
Dietro Wall Street
di Luciano Lanza
Il recente lunedì nero dei mercati
speculativi non ha rappresentato solamente un periodico
riaggiustamento. Siamo di fronte a profonde
trasformazioni: la moda liberista è stata un venticello che si sta
rapidamente estinguendo sulle aride ma inoppugnabili compatibilità
determinate dal debito pubblico.
Le ragioni contingenti del lunedì
nero della Borsa sono presto elencate: il forte deficit della
bilancia commerciale statunitense ha indotto il governo di Bonn a
elevare il tasso di sconto della banca centrale per impedire che la
forte economia tedesca pagasse un conto troppo salato al potente
alleato d'oltreoceano. Ma questa operazione, decisa unilateralmente
dai tedeschi, ha rafforzato le tentazioni ribassiste che già da
tempo serpeggiavano sulle maggiori piazze finanziarie e con l'aiuto
dei computer, regolati per vendere quando i prezzi scendono sotto un
certo livello, il gioco si è completato: la valanga degli ordini di
vendita non ha più trovato compratori, nemmeno a prezzi stracciati.
Il panico, il fantasma del 1929, lo spauracchio della grande
recessione, hanno sconvolto i rampanti yuppies tanto bravi a
guadagnare quando le cose vanno con il vento in poppa, ma incapaci di
comprendere, nonostante i loro astronomici stipendi (e i cosiddetti
fringe benefit), cosa bisogna fare nei momenti difficili, soprattutto
quando bisogna avere sangue freddo per prendere decisioni immediate e
non conformistiche. Ma fino a questo punto siamo ancora
alla cronaca della crisi borsistica. Una cronaca che è stata
raccontata fin nei minimi particolari dai quotidiani e dai periodici
specializzati. Nel frattempo quasi tutti i guru dell'economia, quelli
che stanno nei campus del Mit o racchiusi nel tempio di Salomon (non
quello di Gerusalemme, ma di New York) si sono affrettati a ripetere
che una crisi simile a quella conosciuta negli anni Trenta non può
ripetersi perché gli strumenti di controllo a livello mondiale sono
capaci di scongiurare simili eventi e perché l'economia reale è
sana, ha una capacità produttiva elevata che incontra una domanda
sempre più diffusa e tendente al rialzo. Sarà anche vero, ma allora non si
capisce perché le quotazioni dei titoli che rappresentano quelle
aziende sane, quelle dell'economia reale, tanto per intenderci,
continuano a scendere o tuttalpiù fanno l'altalena a livelli fino a
pochi giorni fa ritenuti impensabili. La spiegazione, ovvia ma vale
la pena ricordarlo in questi tempi di edonismo reaganiano smemorato e
superficiale, va cercata più che nei fatti contingenti, cioè nella
cronaca, di per sé vera ma non esaustiva, nelle linee di fondo che
da alcuni decenni caratterizzano l'economia mondiale. Tre sono i
fenomeni su cui vale la pena riflettere: la continua avanzata dello
stato nell'economia e nella società; le capacità incontrollabili
della speculazione internazionale; l'autonomizzazione del capitale
finanziario. Il primo punto sembrerebbe, a prima
vista, un non senso, una solenne stupidaggine, un'analisi vecchia
decotta, legata alle proiezioni economiche che apparivano nei primi
anni Settanta su questa rivista. Così non è. Nonostante i canti di
vittoria lanciati dai sostenitori del liberismo, delle meraviglie del
libero mercato, del "meno stato più mercato", l'economia
statale ha continuato a fare passi da gigante. Molti, quasi tutti,
non se ne sono accorti (e altri furbescamente hanno finto di non
accorgersene) perché nel frattempo è realmente spirato un
venticello liberista. L'inefficienza delle varie burocrazie pubbliche
è stata messa sotto accusa (più formale che sostanziale), qualche
impresa pubblica è rientrata nell'area privata, alcune grandi
aziende private hanno guidato la ripresa produttiva, ma tutto questo
non basta per poter affermare che il liberismo è in grado di fornire
un soddisfacente modello di sviluppo per l'economia mondiale o anche
dei singoli stati. Il liberismo della fine degli anni Ottanta si
fonda su un pensiero debole, è costituito più da sensazioni
e umori che non da robusti ragionamenti e, visto che si tratta di
economia, da cifre. Ebbene, facciamo un po' di cifre, di
quelle che contano. Nel 1980 il debito pubblico dello stato italiano
(cioè quanto non riesce a rimborsare) rappresentava il 58,5% del
prodotto interno lordo (PIL) cioè quanto in un anno si produce in
Italia; alla fine di quest'anno, secondo i conti fatti dal
governatore della Banca d'Italia, questo rapporto sarà del 93,4%. In
pratica la produzione di un intero anno è quasi uguale al debito
accumulato. Qualcuno potrebbe obiettare che il caso Italia è anomalo
rispetto ai partner occidentali, dopotutto siamo il fanalino di coda
dei paesi maggiormente industrializzati. Bene, guardiamo i conti
della capitale dell'impero d'Occidente: negli Usa il debito pubblico
rappresentava nel 1980 il 37,7% del pil, sette anni dopo la
percentuale è salita al 51,6%. Qualcun altro, ancora, obietterà che
il vero liberismo viene dall'Estremo oriente. Ebbene, sempre negli
stessi anni, il debito pubblico del Giappone è passato dal 52 al
69,5%. Unica eccezione la Gran Bretagna che scende dal 54,9 al 53%,
ma grazie a costi sociali incredibili e impraticabili nei prossimi
anni. Quando il debito pubblico assume tali
dimensioni e soprattutto quando il deficit annuale si mantiene su
cifre di tutto rispetto come i 110 mila miliardi di lire per l'Italia
e i 100 miliardi di dollari per gli Usa (mettiamo pure 70 miliardi
nel 1998 se riesce la manovra denominata Gramm Rudman), ha ancora
senso parlare di economia di libero mercato? La risposta può essere
affermativa soltanto ricorrendo a un artificio logico formale, ma
nella sostanza la risposta non può che essere negativa, perché con
deficit e debiti a quei livelli bisogna riconoscere che il tanto
decantato liberismo attuale si muove soltanto all'interno di percorsi
tracciati dalle compatibilità imposte dalla contabilità dello
stato. Il tutto con buona pace dei teorici del liberismo.
Dall'economia alla finanza
Il secondo punto la speculazione
internazionale è più facilmente comprensibile. A partire dagli anni
Settanta, in concomitanza con le crisi petrolifere, si sono formate
masse indescrivibili di capitali che vagano da una piazza finanziaria
all'altra cercando le occasioni migliori per fare profitti. In questi
anni hanno continuato a crescere con un processo di autoalimentazione
senza soste e per di più, data la loro consistenza, non debbono
nemmeno ricercare la piazza più conveniente: semplicemente la
creano. Puntano al rialzo o al ribasso e operano, grazie alle loro
dimensioni, perché ciò avvenga. Una volta ottenuto il risultato
previsto (e aiutato) si ritirano e vanno verso altre avventure.
Questi capitali, è ovvio, sfuggono a ogni controllo, hanno una
priorità, quella del profitto, ma alcune volte ubbidiscono a
richiami di segno politico: si pensi, ad esempio, alle manovre di
pressione attuate dai capitali finanziari di origine araba. Questi capitali sono una variabile non
prevedibile (o scarsamente prevedibile) dagli economisti e dai
governatori delle banche centrali e giocano un effetto moltiplicativo
nelle congiunture economico finanziarie. Rappresentano il vero
internazionalismo finanziario e sono forse l'unica vera area del
liberismo. Lo sviluppo finanziario dell'economia,
terzo punto di quest'analisi, ha raggiunto una complessità e
un'articolazione tali, che risulta sempre più difficile considerare
economia produttiva ed economia finanziaria come parti complementari
di uno stesso fenomeno. Il fatto che a Detroit o a Chicago o a New
York si scommetta sulle quotazioni del grano o sul prezzo dei
pomodori oppure sui livelli dei tassi in un certo paese, oppure sulle
differenze di quotazione di una determinata moneta, ha un rapporto
molto tenue con quella che normalmente viene considerata economia
reale. Siamo nel campo di un'economia che conserva soltanto i segni
dei fenomeni reali ai quali si richiama, anzi questi segni ricordano
solo alla lontana fenomeni come produzione, trasferimenti, scambi.
Siamo nella simbologia dell'economia, cioè alla simbolizzazione di
un fenomeno che è già di per sé simbolico. L'economia, infatti, come momento di
rappresentazione formalizzata di processi reali, quali il produrre e
il consumare, trova la sua trasfigurazione nella finanza. Qui le
regole diventano semplici, perfino banali, tutto è all'interno di
binomi quali comprare-vendere, guadagno-perdita. Balza agli occhi,
anche di chi non mastica cose economiche, che c'è una grossa
diversità con i problemi dell'approvvigionamento di materie prime,
predisposizione del processo produttivo o di trasformazione,
individuazione dei canali distributivi, solo per citare alcuni
passaggi fondamentali dell'economia cosiddetta reale. Ora è proprio questa diversità,
questo rispondere a regole comportamentali diverse, che ci racconta
la nascita e la separazione della sfera del finanziario
dall'economico. Nata nel grembo della produzione, la finanza ormai
cammina su gambe che non hanno più alcun riferimento, se non
letterario o formale, con quelle della madre. Si è di fronte a una figura inedita
delle categorie dell'economico: il finanziario non rappresenta, come
scrivevano alcuni economisti dell'inizio di questo secolo, il
perfezionamento delle tecniche della produzione, siamo invece al
cospetto di una dimensione totalmente altra che, pur attingendo
validità dalle pratiche economiche tradizionali, ha forme di
rappresentazione che prescindono da quelle che l'hanno originata. è
l'apoteosi dell'immaginario economico che perde ogni contatto con il
reale per librarsi in dimensioni che nulla hanno a che vedere con la
prosaicità della materia. La finanza non è lo stadio evolutivo
superiore della produzione, è la sua negazione. Apparentemente la
esalta, sostanzialmente la nega, perché la finanza si fonda su un
atto di fede: se la gente ha fiducia tutto funziona, altrimenti tutto
crolla. I financial futures, ad esempio, non sono titoli che
rappresentano merci, ma sono forme astratte di una scommessa che darà
utili o perdite secondo quotazioni arbitrarie di altri titoli che
pretendono rappresentare merci. Merci che hanno la loro materialità
soltanto in mercati collegati informaticamente a quelli che decidono
delle loro sorti e dei loro sbocchi su altri mercati.
La morte del capitalismo
Ed è in questa chiave interpretativa
che si può analizzare il risveglio del capitalismo. Un risveglio, va
subito precisato, più vicino alla lotteria o al gioco del lotto che
alle sanguinarie pratiche del signor Ford, quando difendeva la
produttività delle sue catene di montaggio, minacciate dagli
scioperi dei sindacalisti dell'IWW, con le pistolettate degli agenti
della Pinkerton. Il capitalismo, infatti, è morto e sepolto, quello
a cui abbiamo assistito in questi anni ne è solo la forma illusoria:
fare il colpo grosso per ritirarsi sulle assolate spiagge di qualche
isola dei Tropici o, più modestamente, vivere di rendita. Cosa
assolutamente impensabile per un Rockfeller, un Dupont, un Agnelli
dei tempi andati. La crisi che stanno attraversando i
mercati finanziari in questi giorni ha cause che non hanno nulla a
che vedere con le analisi trite e ritrite lette sui mass media: è
una crisi che discende direttamente dal processo di autonomizzazione
prima indicato. Oggi la credenza più diffusa tende ancora ad
assegnare alla finanza una dimensione complementaria all'industria
(intesa in senso lato come insieme della produzione e dei servizi)
per cui quando le sue quotazioni e le sue regole si distaccano troppo
sensibilmente dalla seconda, subentra un'ancestrale paura che
provoca la crisi. Bottegai, arraffoni, pensionati sprovveduti,
banchieri ottusi, ingordi speculatori, marpioni della partita doppia
, finanzieri improvvisati, boccheggianti bocconiani, pendolari della
Borsa, giornalisti prezzolati, impiegati d'azzardo si fanno
travolgere dai sacri timori delle regole dell'economia classica e
perdono tutto quanto avevano guadagnato e spesso anche molto di più.
Perché, vale la pena sottolinearlo, la Borsa si basa su un gioco a
somma zero: quello che guadagna uno lo perde l'altro, oppure se tutti
(o quasi) guadagnano, tutti (o quasi) perderanno in un momento
successivo. L'attuale crisi è, dunque, momento
che prelude a un'accentuata evoluzione: la finanza, nuova farfalla
del guadagno, esce dalla crisalide dell'economia produttiva che per
troppi inverni l'ha racchiusa e volteggia nel venticello della
speculazione. La finanza si delinea come sfera autonoma della
produzione di ricchezza, ricchezza fittizia come i segni che la
rappresentano, ma in grado di fornire occasioni di guadagno ai suoi
fedeli credenti perché, parafrasando una nota canzone, l'importante
è crederci e allora tutto andrà per il verso desiderato fino a
quando i paesi debitori del terzo mondo decideranno definitivamente
di non onorare più i debiti contratti, allora nuove alchimie
sostituiranno le attuali simbologie finanziarie e il gioco riprenderà
su altre basi. Messieurs faites vos jeux.
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