Rivista Anarchica Online
Nel mondo delle emozioni
di Pippo Tadolini
"Militarismo e antimilitarismo
nel mondo delle emozioni" è il titolo della relazione che
Pippo Tadolini - della lista Verde di Ravenna - presenterà al
convegno nazionale "Ri/pensare l'antimilitarismo" (Forlì,
Salone comunale, 13/15 maggio). La pubblichiamo in queste pagine,
segnalando che altre relazioni sono state (e saranno) pubblicate sul
periodico "Senzapatria", organizzatore del convegno.
Che la guerra e la pace evochino la
sensazione immediata di modi diversi degli esseri umani - o di
qualunque altro vivente - di guardarsi, di toccarsi, di intrattenere
qualsiasi tipo di rapporto, è intuitivo, e fa parte della
cultura generale. Eppure, ogni qualvolta i pacifisti,
antimilitaristi, nonviolenti e più in generale la gente di
sinistra e dei movimenti "alternativi" si sono addentrati
nell'analisi delle cause di questo o quel conflitto bellico, quasi
sempre essi hanno posto l'accento sulle motivazioni
politiche-ideologiche (necessità di una nazione, o di una
categoria sociale, di instaurare il proprio potere su altre per non
esserne minacciata) o, ancor più, economiche (necessità
di un'economia di trovare a qualsiasi costo mercati per la propria
espansione). Anzi, il primato dell'economia è sempre stato
affermato, soprattutto dalla storiografia d'ispirazione marxista, che
ha sempre visto il potere politico stesso come uno strumento di cui
la dinamica economica si serve se, finché e nella forma in cui
ne ha bisogno. Ora, in un momento in cui ci troviamo
a vivere un'epoca non solo di crisi del capitalismo (come ama dire un
certo movimentismo di sinistra), o del marxismo (come usa ripetere la
cultura delle "magnifiche sorti e progressive"
dell'Occidente), ma direi una globale crisi di civiltà che
coinvolge trasversalmente strati sociali, ideologie ed aree
geografiche, io credo sia maturo il tempo per porre all'ordine del
giorno la revisione dei vecchi metri di giudizio, e rivalutare il
ruolo del mondo emotivo - individuale e di gruppo - nel formarsi dei
processi che portano intere società o pezzi di esse ad essere,
o divenire, guerriere, ed altre, o loro parti, ad opporsi alle guerre
anche quando fare ciò possa comportare il rischio della
propria vita.
I conigli e le carote
Non è infatti un'astratta
comparazione fra psicologia della pace e della guerra che vorrei
tentare di trattare in questo intervento. Ci può essere,
infatti, una buona dose di psicologia di guerra in uno stato che si
considera in pace: l'esempio di come le grandi potenze hanno
storicamente trattato le rispettive aree d'influenza è davanti
agli occhi di tutti. Così come, d'altra parte, ci può
anche essere "spirito pacifista", per esempio, nell'animo
di un popolo che si trovi costretto a difendere con la guerra i
propri diritti. Su questo tornerò più avanti. Vorrei
ora, piuttosto, cercare di analizzare come diversi afflati emotivi
siano gli elementi fondamentali del militarismo e del pacifismo, più
ancora che della guerra e della pace. Il militarismo è il movimento
di idee finalizzate alla preparazione della guerra, cioè
basate sulla convinzione che solo l'uso (attuale o potenziale) delle
armi possa garantire un funzionamento quanto più possibile
ordinato delle strutture sociali. Le idee si devono tradurre nella
costruzione di determinate strutture, più o meno rigidamente
gerarchiche, e in varia misura totalitarie, e che - in certo senso -
prefigurano al proprio interno il tipo di rapporti che si intendono
instaurare con gli eventuali avversari, ispirati sostanzialmente al
principio che il più forte comanda. È evidente che tale
modo di pensare informerà di sé non solo le strutture
specifiche deputate alle guerre (esercito, milizie, polizie) ma anche
una parte più o meno grande della società, e quindi le
istituzioni educative, le famiglie, l'organizzazione del lavoro, ecc. È
altresì evidente che, ben al di là del contesto
economico e/o politico nel quale si esprime (può avvenire nei
paesi poverissimi come in quelli opulenti, nei regimi comunisti come
nelle società a capitalismo avanzato), il militarismo produce
(ed allo stesso tempo è prodotto da) uno stato d'animo
adeguato al proprio automantenimento, uno stato d'animo basato sulla
regola, sull'esclusione della trasgressione,
sull'ordine. Tanto che diventa indistinguibile il confine fra
sentimenti interiori e comportamenti sociali, individuali e
collettivi. L'individuo, in tale sistema, ha una possibilità
di autoaffermazione solo se diventa, o si mostra, forte, o comunque
in grado di comandare su qualcun altro. L'esempio della struttura
gerarchica di quasi tutti gli eserciti, dove anche l'ultimo
sottufficiale è pur sempre un elemento di potere, perché
ha qualcuno su cui comandare, è sotto gli occhi di tutti. Dall'altra parte, il pacifismo è
il movimento di idee che pone all'apice della scala dei valori la
pace, e quindi nega la preparazione della guerra come strumento per
il mantenimento dell'ordine sociale. Semmai (e non in tutte le sue
componenti) arriva ad ammetterla suo malgrado, ma solo come eventuale
strumento "obbligato" per sconfiggere la sopraffazione e il
militarismo dell'avversario (vedremo dopo come questa ammissione si
configuri già come una prima sconfitta del pacifismo, e come
possa introdurre i germi di un nuovo militarismo). L'affermazione del valore della pace
porta i suoi assertori ad ammettere sì l'esistenza dei
conflitti, ma a stabilire che la regola del gioco non può
essere la legge del più forte, bensì il confronto delle
idee, la capacità di dimostrare di avere ragione, e
soprattutto il primato della coscienza, in nome della quale la
trasgressione alle regole del potere quando questo chieda di violare
il valore della pace, è non solo consentita ma auspicata.
L'idea pacifista, quindi, affonda le radici in uno stato d'animo
dell'individuo che si dichiara indisponibile all'uso della
sopraffazione dell'altro individuo (ammettendo in ciò, al
massimo, la legittima difesa), indisponibile ad accettare che chi
possiede la forza ha anche il diritto di comandare. Ed anzi rivendica
la forza morale come superiore e il più possibile sostitutiva
della forza fisica. Esalta il ruolo e la capacità del debole,
del fragile, del timoroso. Una canzone del movimento antimissili
di qualche anno fa, secondo me, esprimeva bene questo stato d'animo,
quando - di fronte all'appellativo di "conigli" dato ai
pacifisti dai militari - trasformava l'insulto in fregio, paragonando
i missili a delle grosse carote, che i conigli avrebbero rosicchiato
fino a distruggere. È
chiaro che anche il pacifista è soggetto a regole, esistono
anche nell'idea pacifista (e nell'eventuale società che essa
prefigura) delle leggi che non possono essere trasgredite, ma esse
sono il frutto di una mediazione fra gli stati d'animo di soggetti
fra loro simili, e producono un gruppo scarsamente gerarchico in cui
il potere acquista un valore di poco rilievo. L'istinto all'autoaffermazione viene
praticato tramite l'esaltazione delle proprie capacità
intellettuali, della propria forza morale, del primato della
coscienza e prende corpo in forme di lotta che possono anche
affermare la grandezza dell'individuo proprio nel momento in cui egli
si sacrifica. Le figure di Gandhi e di M. L. King ne sono la
testimonianza più emblematica.
Ma l'aggressività è
naturale?
Certo, a questo punto il discorso
rischia di essere al quanto banalizzato, tagliato un po' con
l'accetta. Perché anche negli ideali militaristi è
sempre esistita la figura dell'eroe, colui che distrugge sì il
nemico, ma che è anche disposto a dare la propria vita per la
patria in modo del tutto disinteressato. Così come nei
movimenti pacifisti non è del tutto estranea una certa
attrazione per il potere, la tentazione del comando basato più
sulla costruzione di maggioranze che sulla propria forza morale. Ecco che allora è necessario
tentare di andare oltre, non per il piacere della disquisizione
filosofica, ma proprio per fornire agli antimilitaristi uno strumento
di studio, utile a rinvigorire le loro convinzioni e il loro impegno.
Anche perché mi pare giusto cercare di capire per quale intimo
motivo l'insieme dei pacifisti sia così composito, fatto di
anime che restano ben distinte (i nonviolenti, gli ecopacifisti, gli
antimilitaristi puri, gli antimperialisti, i solidaristi, ecc.) anche
nel momento dell'azione comune, tanto da dare spesso, l'una
dell'altra, dei giudizi assai duri: chi accusa altri di riprodurre
esattamente un meccanismo militarista, perché ipotizza
l'eventuale uso della forza, chi - viceversa - liquida il rifiuto di
usare la violenza come un favore fatto all'avversario e quindi un
obiettivo vantaggio del militarismo. Cerchiamo di approfondire. L'affermazione ottimistica di Rousseau
sull'innata bontà della natura e dell'uomo, viene
quotidianamente contraddetta dalle innumerevoli forme in cui si
esprime l'aggressività. Di questo movimento effettivo e
comportamentale profondamente radicato negli esseri viventi si sono
occupati in vastissima misura sociologi, filosofi, psicologi, od
altri studiosi. Lorenz, per esempio, non distingue fra
aggressività animale ed umana e la considera innata, un
istinto che nasce da energia accumulata e risolventesi in esplosioni
gestuali e verbali. Una funzione utile alla sopravvivenza della
specie, quindi. L'uomo però, per una sorta di
"selezione maligna intraspecifica" avvenuta nel paleolitico
(quando la guerra fra tribù regolava l'emergere degli
individui più dotati), è arrivato al punto in cui la
propria aggressività sta minacciando di estinguere la specie,
più che di conservarla. Lorenz propone una sorta di modello
idraulico: l'aggressività si accumula spontaneamente e
progressivamente, e deve trovare uno sfogo. Se esso manca, prima o
poi porta all'esplosione. Modello che a mio avviso è ben
applicabile storicamente a molte situazioni. Si pensi, ad esempio,
alla guerra Falkland-Malvine voluta dal potere (non a caso militare)
argentino proprio per dare una via d'uscita ad un livello di tensione
interno divenuto insostenibile. Lorenz, quindi, considerando
l'aggressività un istinto naturale (ed utile) non si pone la
questione della sua eliminazione ed anzi, attribuisce il crescere
della violenza nella società odierna alla mancanza di sfoghi
per l'aggressività. Si tratta, quindi, di incanalarla, tramite -
per esempio - l'attività sportiva, o di sublimarla tramite la
psicanalisi, e comunque di utilizzarla "a fin di bene"
traducendola in "entusiasmo militante" teso alla difesa del
gruppo. Chiaramente questa traduzione può poi prendere corpo
in vario senso e, dato che ipotizza il bisogno del nemico esterno da
cui il gruppo deve difendersi, perché si creino le condizioni
dell'esistenza stessa della coesione del gruppo, e l'assunzione del
gruppo stesso a valore morale, può anche succedere che il
risultato sia proprio quello della creazione di una società
militarista. Per Lorenz si tratterà quindi
di direzionare questo entusiasmo militante a sostegno di
valori universalmente riconosciuti (l'arte, la scienza, la medicina,
ecc.) in modo che l'universalità dei valori favorisca la non
opposizione fra culture (nazionali, per l'autore) diverse e diriga
l'umanità lontano dall'autodistruzione. Personalmente penso che il bisogno del
nemico sia un concetto sul quale dovrebbe svilupparsi una
riflessione, all'interno dei movimenti antimilitaristi, che fino ad
ora probabilmente solo la componente più autenticamente
nonviolenta ha saputo in qualche modo approfondire. E questo perché
il movimento di idee che pone all'apice dei suoi valori la pace non
può non interrogarsi su come mai quasi sempre i rovesciamenti
sociali (anche quando attuati in perfetta buona fede, da gente che
lottava in nome della pace) si sono tradotti nella costruzione di
società che, seppure in misura assai diversa fra loro, hanno
riprodotto almeno una parte della cultura militarista ed hanno
considerato irrinunciabile od inevitabile dedicare parte (spesso gran
parte) delle loro energie, ancora una volta, alla preparazione della
guerra. Credo cioè che il pacifismo
dovrebbe proprio - ed in questo differenziandosi dagli altri
movimenti alternativi, libertari e rivoluzionari - fare di questa
riflessione (pur senza alcuna pretesa di dare e darsi una risposta
rapida o definitiva) una delle proprie, più qualificanti
caratteristiche.
Quei tabù nascosti
Di diverso parere da Lorenz è
Erich Fromm, il quale contesta che atti finalizzati a distruggere,
proteggere, costruire possono essere fatti risalire alla stessa causa
comune dell'aggressività. Per Fromm, infatti, la conclusione
logica del discorso di Lorenz non può che essere crudeltà
e sete di sangue, e quindi l'origine del "piacere di uccidere",
sia innato nella natura umana tanto quanto l'istinto di
sopravvivenza. Quindi Fromm afferma la necessità
di dividere nettamente quella che chiama "aggressione benigna",
e che mira alla difesa degli interessi vitali, da una "aggressività
maligna", tipicamente umana, che non ha
alcuna utilità biologica, né ubbidisce ad alcun
programma filogenetico, ma mira a distruggere la vita per il piacere
di farlo. Non vi è, secondo Fromm, il
modello "idraulico" di Lorenz secondo cui l'aggressività
si accumula spontaneamente, ma è un qualcosa che scatta
momento per momento. Analizzando i bisogni dell'uomo, Fromm
evidenzia una serie di esigenze esistenziali, non meno importanti dei
bisogni organici, che in sintesi si possono suddividere in:
- bisogno di
mettere radici, cioè di costruire legami, dopo che si è
consumata una rottura del legame primordiale con madre natura;
- bisogno di
identificarsi con ideali o ruoli sociali, o quello di ricercare una
maggiore unità interiore con se stessi;
- bisogno di
sentirsi efficace, di fare, e questo può essere realizzato sia
facendo del bene, esercitando creatività e costruttività,
sia facendo del male con la violenza sugli altri;
- bisogno di
stimoli, che può cercare in sé e fuori di sé, e
la violenza può essere una forma di stimolazione. Tutti questi bisogni vengono elaborati
dal carattere, che sostituisce, nell'uomo, quello che è
l'istinto per l'animale, e che orienta la vita in senso creativo o
distruttivo a seconda che esistano o meno condizioni favorevoli, il
che sta a significare – quindi - che la tendenza alla
distruzione è segno di un carattere patologicamente deformato
e si risolve sostanzialmente in un fallimento esistenziale. Allo stesso modo dell'individuo anche
i gruppi e le società hanno un carattere, che dipende o comunque
è strettamente collegato al tipo di organizzazione
economico-sociale, e - afferma Fromm - avere potere su un altro
essere umano è assolutamente inutile e non desiderabile, se
non è inserito in un sistema sociale che si basa su questo. Ed
allora, dice, dietro parole edificanti come "difesa",
"onore", "patriottismo", vi sono tabù
nascosti e un sistema sociale irrazionale che vanno messi in
discussione se si vuole fare uno studio serio delle cause
dell'aggressività. Tutta la storia delle scienze
psicologiche si è occupata dei problemi connessi
all'aggressività. Freud collega l'aggressività
sostanzialmente alla sessualità, e la considera parte della
pulsione di morte, che può essere rivolta sia verso l'esterno
che verso l'interno secondo i meccanismi sado-masochistici; è
una pulsione fondamentale nel gioco delle relazioni oggettuali, ed è
quindi determinante nello stabilirsi delle relazioni interpersonali e
sociali, ma in ogni caso è il polo opposto rispetto alla
pulsione libidica, che è la vera pulsione di vita. Adler cerca di spostare meglio
l'attenzione dall'ambito personale a quello sociale, partendo
dall'affermazione che gran parte dei comportamenti individuali
nascono come manifestazione aggressiva contro sentimenti
d'inferiorità, fondamentali nel giocare un ruolo determinante
nelle relazioni sociali. Sulla natura unicamente sociale
e culturale dell'aggressività, invece, si sofferma Agnes
Heller, che rifiuta le spiegazioni innatiste-naturaliste. Afferma che
accettare la visione culturale sociale permetterà di
rifletterci criticamente e di non scaricare sull'impulso innato tutto
quanto fa comodo non spiegare. Si potrebbe andare avanti con un gran
numero di citazioni, ma non vorrei rischiare di andare fuori del tema
assegnatomi.
La questione del potere
A questo punto, direi di provare a
ritornare allo specifico del nostro dibattito e calare le
considerazioni sopra esposte nella storia dei nostri ultimi anni;
storia che tocca assai profondamente la mente, e il cuore, di molte
persone che appartengono alla generazione protagonista, o
immediatamente figlia di quel movimento del '68 che rappresentò,
prima ancora che una contestazione politica sostanzialmente
libertaria ad una struttura politica conformista e per molti aspetti
autoritaria, una "ribellione del sé" (e cioè
del mondo delle emozioni, dei sentimenti, della creatività)
contro l'impero dell'io (cioè della ragione fredda e
schematizzante, incarnata nell'ordine e nel conformismo). Se prendo in esame per qualche istante
questo capitolo, è perché, in Europa Occidentale, il
movimento pacifista, pur attingendo in parte a radici più
antiche, in particolare a Gandhi e ai padri della nonviolenza
(Tolstoj, Lanza del Vasto, Capitini e M. L. King) vede probabilmente
le sue origini in uno dei tanti rivoli in cui l'esplosione
sessantottina si divise e - apparentemente - si disperse. Parte di quella generazione ha poi
subito il cosiddetto riflusso, ha rimosso, ha dimenticato, ha "messo
la testa a posto", cioè - di fatto - ha accettato
"l'impero dell'io" e le imposizioni superegoiche, o
rinnegando le idee professate durante la ribellione, quasi
ritraendosi spaventata dalla percezione dei nuovi, affascinanti ma in
gran parte ignoti orizzonti che si aprivano, oppure incanalando
queste idee in meticolose scelte di programmi, strategie, obiettivi,
schieramenti, schiacciando tutto quanto nelle arterie rigide della
politica tradizionale, in una parola nella questione del potere, il
massimo dell'accettazione dell'"impero dell'io" nella
società attuale. C'è stato però anche chi
ha cercato di voler tenere vivo e far emergere il bistrattato,
soffocato "fuoco del sé", l'irriducibile istinto
alla "vita globale" ed affermare la supremazia del diritto
alla vita sugli equilibri strategici, della ricerca della gioia sulla
ragion politica, della creatività sui tatticismi, dei
movimenti sulle istituzioni. La scelta di lavorare con il movimento
pacifista, o con quello ecologista (peraltro spesso quasi "fusi"
tra loro), o con altre espressioni piuttosto spontanee, si può
a pieno diritto definire una scelta psicosomatica. E non per caso i detrattori del
pacifismo, e del movimento verde o di quello libertario, assai spesso
ci "accusano" di essere "troppo emotivi". Accusa
che, probabilmente, a ben riflettere, potrebbe anche farci piacere. Una scelta psicosomatica, quindi,
perché esprime una ribellione esistenziale, molto prima che un
dissenso consciamente politico, ad una situazione in cui "l'impero
dell'io" ha lavorato così rigidamente da produrre un
sistema assolutamente bloccato, e in cui più nulla può
essere lasciato al di fuori di una rigida programmazione. Il militarismo è l'emblema
della concentrazione del potere: la sua stessa immagine, geometrica,
impettita, anelastica, metalliforme, "ipertesa", è
più eloquente di qualsiasi tentativo di spiegazione
descrittiva. Il suo mondo chiuso, impermeabile dall'esterno ed
imperforabile dall'interno, è un potere più potente e
micidiale del potere stesso (quello "politico") che in
teoria dovrebbe controllarlo. In tale sistema, che per definizione
ripudia l'emotività ed afferma la disciplina e le gerarchie,
più nulla può essere lasciato al caso o alla fantasia,
e incombe costante il rischio di uno spaventoso "ictus" del
mondo. Il movimento pacifista (ma lo stesso
discorso, "mutatis mutandis", vale per quello ecologista,
quello delle donne, ed altri ancora), il suo essersi "autogenerato"
contemporaneamente, al di fuori di collegamenti precostituiti, in
quasi tutti i paesi del mondo occidentale, il suo affermare la non
delega, la voglia degli individui di esserci come tali, e non solo
come "masse" più o meno anonime, anche nell'immagine
(i sit-in, le catene umane, i digiuni, e non solo i più
tradizionali cortei o altre forme simili di lotta) si propone con
tutta la presenza e la potenza dei corpi, dei singoli corpi dei
singoli individui e dei loro linguaggi; ed esprime un'esigenza che
sfugge alle catalogazioni stereotipate "del politico", ed
anzi si trova a combattere non solo contro il sistema militarista
superegoico, ma anche contro i tentativi dell'"io politico"
(principalmente esprimentesi nei partiti, in paesi come il nostro) di
incanalarlo in "traduzioni" razionali, coscienti,
asimboliche, e ancora una volta repressive - al di là di quali
siano gli schieramenti e le maggioranze - dell'istinto e
dell'affettività. Il movimento e i gruppi pacifisti ed
antimilitaristi riusciranno a tener fede alla loro origine
"psicosomatica" se sapranno rinunciare, o quanto meno
dimensionarla, alla tentazione di rinchiudersi nella "sicurezza"
nelle rigide pareti delle istituzioni verticali, se sapranno
accettare senza panico le prospettive di un mondo nudo di armi, ma
ricco di vita, in cui le aggressività, pur esistenti, le
tensioni ed i conflitti, pur inevitabili, si spandano in orizzonti di
creatività anziché di violenza bellica. E soprattutto ci riusciranno se
sapranno "inquinare" (ed esserne " inquinati")
gli altri movimenti, gli altri simboli della vita contro la morte,
quello ecologico, quello delle minoranze etniche, ecc., in una
"respirazione collettiva" che tutto vivifica. È ovvio che non sto qui
proponendo che ogni simpatizzante pacifista si sottoponga ad una
psicoterapia, prima di iniziare la sua militanza; ma ritengo che
all'interno del "popolo della pace" la riflessione
interiore dovrebbe diventare una caratteristica di quotidiana
metodologia di lavoro. Altrimenti si rischia di ritornare a
schemi vecchi e perdenti, al bisogno vitale di avere un nemico
identificabile, a non vedere che in buona parte il "lupo
cattivo" è dentro l'individuo (anche l'individuo
pacifista). E la conseguenza sarà ritrovare la "guerra
giusta", la "violenza liberatrice". Non voglio qui addentrarmi
nell'approfondimento della questione dal punto di vista nonviolento,
che pure mi starebbe a cuore. Mi sembra però che spesso anche
i pacifisti abbiano voluto trovare ad alcune guerre, quelle "di
popolo" o "di liberazione" tali motivazioni da
renderle da giustificabili a giuste. Cioè abbiamo indulgentemente
lasciato che una nuova logica militarista si sostituisse alla
eventuale logica della drammatica, dolorosa, obbligata scelta di
usare le armi come strumento di legittima difesa, ma pur sempre nella
coscienza di stare compiendo un gesto, una scelta, negativi delle
convinzioni di pace. Forse persuasi (almeno
"temporaneamente") che chi ama la pace non può fare
bene la guerra, si è lasciato che quest'ultima assumesse, da
scelta di sopravvivenza, un qualche valore positivo, o fondasse una
nuova mistica del soldato, dell'esercito, del combattimento, molto
spesso presenti in paesi che al termine di sanguinose guerre di
liberazione si sono trovati a non essersi "liberati" dei
germi del militarismo. Il che non vuol dire affatto proporre
di non essere solidali con chi combatte per la propria libertà.
Solo, vuol dire sostenere che quei valori che abbiamo voluto proporre
in opposizione alla protervia del mondo militarista, siano e restino
validi innanzi tutto per noi stessi. L'uso della violenza, ci ricorda
Gandhi, non conduce a soluzioni stabili dei conflitti di gruppo e
tende quindi a perpetuare l'uso della violenza stessa. L'impiego della violenza tende nel
corso del tempo a brutalizzare coloro che la usano rendendo sempre
più facile giustificare se stessi. Il ricorso alla
violenza conduce al rafforzarsi permanente di quelle istituzioni
connesse con l'uso della violenza organizzata. Alla "saggezza" politica
occidentale "il buon fine giustifica i cattivi mezzi"
Gandhi oppone la sua tesi dicendoci che "non si può
ottenere una rosa piantando della gramigna". E con questa considerazione, credo sia
giusto concludere, in spirito di riflessione.
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