Rivista Anarchica Online
Storie di ordinario carcere
di Agostino Manni
"Appena l'ho visto, ho capito
subito quello che gli avevano fatto: ho capito subito come l'avevano
curato". Dopo le due lettere pubblicate sullo
scorso numero, Agostino Manni prosegue la sua testimonianza diretta
dall'interno del carcere militare. Ricordiamo che Agostino sta
scontando un anno di carcere per il suo rifiuto del servizio militare
(e, al contempo, di presentare domanda per essere ammesso a quello
civile). È attualmente detenuto nel carcere militare di Santa Maria Capua
Vetere.
Appena le guardie hanno aperto la porta
della cella, Renzulli mi è venuto incontro, con una faccia
diversa dal solito, tesa e nervosa. (Ogni volta che si va a mangiare,
o in sala-tv, me lo vedo arrivare in cella: come un amico che ti
aspetta sotto casa, con la moto, per andare al mare).
"Hanno portato Silvestro in
isolamento" mi ha detto preoccupato. Silvestro è un altro
dei "comuni". Un tipo particolare, anche nell'aspetto: ha
grandi occhi, e orecchi enormi, e un paio di mani che, se ti molla
uno schiaffo, sono capaci di staccarti la testa.
Fa il pizzaiolo ad Avellino e ha già
scontato qualche anno di carcere civile per reati contro la
proprietà. Ha finito il servizio militare già da un
anno; ma i carabinieri l'hanno ripreso, perché deve scontare
una condanna a tre mesi di reclusione per aver insultato un superiore
quando era ancora soldato.
I primi giorni, stando a quello che
diceva, credevamo che avesse davvero rotto il fucile in testa ad un
maresciallo: in realtà, mi ha poi confidato di averlo solo
offeso con qualche parola di troppo, l'ultima sera di naja, mentre
era sotto l'effetto di una sbronza che si era preso con i compagni
per festeggiare il congedo.
Un batuffolo di ovatta
Sono due settimane che, ripetutamente,
perde sangue da un orecchio. Ha chiesto di essere curato: e, a dire
il vero, alcuni giorni fa l'hanno anche portato all'Ospedale militare
di Caserta. Ma si sa come vanno queste cose: un'occhiata veloce, e
via. Va sempre "tutto bene", quando si tratta della salute
di un soldato, e per giunta detenuto.
Così, inevitabilmente, ogni
volta che l'orecchio riprende a sanguinare, lui chiama il caporale,
il caporale chiama il tenente medico (un semplice laureato in
medicina, che distribuisce antibiotici e aspirine per ogni
malessere), e quest'ultimo non sa fare altro che dargli un batuffolo
di ovatta, perché se lo metta nell'orecchio ed eviti così
di sporcarsi. Sempre così da due settimane. E Silvestro, a
poco a poco, sta diventando nervoso come una bestia. "Manni, io
il militare l'ho fatto" mi ripete continuamente "Cosa
vogliono,ancora, questi qui, da me?" Così stasera, quando Renzulli
mi ha detto che lo avevano portato di sotto, in cella d'isolamento,
ci ho creduto subito. E stavo già mobilitando gli altri, per
farlo tirar fuori, quando l'ho visto arrivare, in fondo al corridoio,
accompagnato da un maresciallo e da un paio di guardie, una delle
quali mai viste in questo reparto: una specie di armadio che
camminava appena dietro a lui. Appena l'ho visto, ho capito subito
quello che gli avevano fatto: ho capito subito come l'avevano
"curato".
L'ho capito da come camminava, dal
passo pesante, e da quella sua enorme testa che sembrava facesse
fatica a tenersi dritta, e per quanto si sforzasse non riuscisse ad
esser fiera.
Poiché camminava così
anche Loris, quando andammo a trovarlo (io e Carmen) al reparto
psichiatrico dell'ospedale Niguarda, a Milano, dopo che ne aveva
combinata un'altra delle sue. Perché era lo stesso passo
pesante e trascinato di Salvatore, quando camminavamo al suo fianco,
dopo una delle sue "crisi", 4 anni fa, a Venezia, in mezzo
agli anarchici di mezzo mondo, e stavamo attenti che non si buttasse
di nuovo nella laguna (come aveva fatto una sera, seguendo chissà
quale filo mentale lontano dai nostri, obbedendo a chissà
quale logica - diversa dalla nostra, e a noi incomprensibile).
Ho saputo poi che Silvestro stava
facendo una "saponata" (adesso che è estate, in
alcune celle ne fanno anche una alla settimana, per pulire e
rinfrescare l'ambiente) quando, sul pavimento bianco di schiuma, ha
visto cadere le gocce rosse del suo sangue; ed ha cominciato ad
urlare, perché le guardie chiamassero il medico, e a dare
colpi con uno sgabello sulla porta, perché qualcuno finalmente
gli desse retta e lo curasse.
Non l'hanno portato in isolamento, ma
in infermeria: ma, invece di curarlo (perché non sanno come
curarlo), gli hanno dato 15 gocce di Valium ed un paio di pillole di
Tavor, e gli hanno fatto una "strana" iniezione nel
braccio, che l'ha ridotto così.
Quelle enormi mani bagnate
"Se mi toccate con un dito, casco
per terra" ci dice. Poi, con gli occhi pieni di odio e di
umiliazione, indicando la guardia grande come un armadio: "L'hanno chiamata per me: credono che sia pazzo. Ma, se non mi curano,
lo divento davvero". E, come per il bisogno di "sentire"
il suo corpo, di controllare che gli hanno lasciato un po' di forza,
sferra dei terribili pugni sul muro, e sulle panche della sala.
Gli siamo tutti intorno: io, Enzo, gli
altri disertori, e Renzulli. Anche quest'ultimo si è già
congedato. Ha un figlio di un anno e mezzo, e ha già passato
due anni in carcere per una diserzione ed una tentata evasione.
Adesso sta scontando una condanna a 4 anni per una serie di reati
commessi durante una "rivolta", fatta con altri detenuti,
nel giugno dell'86, in quel posto schifoso che è il carcere
militare di Bari-Palese.
Gli sto insegnando a leggere e a
scrivere: non sa farlo, non ha mai imparato a farlo, semplicemente
perché non ha mai - proprio mai - frequentato una scuola in
vita sua. Silvestro ci guarda come un rimbambito: a tratti ride, a
tratti stringe i denti (ne sentiamo il rumore), ogni tanto ha degli
scatti, come se volesse picchiare qualcuno. Poi, alla fine, si mette
la testa tra le mani e piange forte, come un bambino. Io guardo quelle enormi mani bagnate,
e penso che un giorno o l'altro tutto questo schifo dovrà
finire. Poco dopo, mentre andiamo su e giù
per il corridoio - e gli altri guardano uno stupido film - mi chiede:
"Pensi che, se gliela chiedo, me la danno una licenza?".
Gli rispondo che non lo so.
"Non ce la faccio più"
mi confida. E scopro che ha altri quattro fratelli in carcere, e uno
agli arresti domiciliari; che lui e la sua famiglia, ad Avellino,
sono "un po' come le puttane", vittime di una cattiva
"fama" della quale non si libereranno più; che
vorrebbe vedere qualcuno dei suoi, ma che nessuno di quei pochi che
sono liberi può venire a trovarlo, ed è per questo che
vorrebbe una licenza.
Scopro che, quando era piccolo, ha
dormito per dei giorni "sotto la neve", scacciato da casa;
che praticamente è cresciuto in posti come questo - collegi,
riformatori, galere; che, quelle poche volte che ne era fuori, ha
sempre lavorato; che gli aveva anche chiesto scusa, a quel
maresciallo, ma che non è servito a nulla, perché lo
hanno condannato lo stesso.
Avrei voglia di abbracciarlo; come fa
lui con me, quando ha bevuto qualche bicchiere di più, e mi
bacia sulla fronte, con affetto. Ma riesco soltanto a dirgli: "Fa
come se fossi uno di quei tuoi fratelli: prima di fare qualche
fesseria, dimmelo, e vediamo di risolverli insieme, questi problemi".
Lui mi spalanca sul muso i suoi grandi
occhi rossi. (Penso per un attimo allo sguardo di un bisonte
infuriato, ma colpito a morte).
E, mentre si fanno lucidi, e sento il
rumore dei suoi denti che si serrano, mi stringe la mano,
racchiudendola nella sua enorme, pesante e piena di bontà.
"Sono con te - penso - sono con
te, fratello". E sento che odia quanto me questi stupidi
burattini che ci stanno rubando la vita.
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