Rivista Anarchica Online
Vivere da anarchici
di Vittorio Emiliani
Per oltre mezzo secolo - dai primi
del '900 alla fine degli anni '60 - Armando Borghi è stato una
delle figure più note del movimento anarchico di lingua
italiana. Scrittore, oratore,
sindacalista, profugo, la sua vita ha coinciso - come recita il
titolo della sua vivace autobiografia - con "mezzo
secolo di anarchia". Lo scorso dicembre si è
tenuto nel suo paese natio - Castelbolognese - un interessante convegno
di studi sulla sua figura, promosso dalla locale biblioteca
libertaria a lui intestata. Pubblichiamo qui la testimonianza
fatta pervenire al convegno da Vittorio Emiliani, giornalista e
saggista (curò, tra l'altro, l'antologia di
scritti di Borghi "Vivere da anarchici").
"Sono io, Armando. Cosa vuoi noi
vecchi ci svegliamo presto...". Il telefono squilla alle sette,
sette e mezza. Per me che tornavo dal giornale a notte fonda era
davvero l'alba. Ma cosa avrei potuto dire ad un adorabile, indomabile
vecchio come Armando Borghi? "Sai, per noi anziani, il tempo
corre più veloce che non per voi", aggiungeva per
scusarsi di quelle telefonate così mattutine.
Avevamo lavorato insieme, lui a Roma,
io al Nord, ad una sua antologia di scritti. Molti noti, altri meno,
alcuni inediti. E tra di noi si era stabilita, nonostante il mezzo
secolo abbondante che ci divideva, un'amicizia vera, calda, piena.
Anche se ci eravamo incontrati poche volte. Ci legava indubbiamente
il fatto di venire dalla stessa terra, la Romagna, dalla stessa
cultura in fondo, cosa che ci aveva consentito di intenderci a prima
vista: bastava un nome, un luogo, una data "fatidica" a far
scattare la memoria, le coordinate storiche, il senso di un contesto
politico-culturale.
E poi gli piaceva che io mi chiamassi
Emiliani, come Giovanni, garibaldino, uno dei settanta di Villa
Glori, poi libertario, anche lui di "Castello" (ora posso
confessare di aver quasi mentito a qualche vecchio anarchico
romagnolo lasciando intendere che sì, insomma, una parentela
con Giovanni Emiliani non era poi impossibile, e invece mio bisnonno
Nicola, faentino, era ahimè così clericale da essere
sbeffeggiato col nomignolo di "papalone"). Quello che mi
colpì in Armando Borghi, sin dalle prime volte che lo lessi,
su "Umanità Nova" ma soprattutto su "Mezzo
secolo d'anarchia", fu la sua straordinaria predisposizione
narrativa, una capacità di racconto non rara fra gli uomini
della sua generazione, comunque fra quelli nati a cavallo dei due
secoli, ma in lui speciale, forte, colorita, mai bozzettistica però,
mai affetta da "romagnolismo", cioè da facili
patetismi o da un eccesso di "colore locale".
La sua era una prosa densa, asciutta,
tesa, specie nel dialogato (alcuni suoi "incontri" sono
"letterariamente" fulminanti, per esempio quello con Benito
Mussolini a Milano, dopo il "tradimento" interventista del
futuro duce).
Abitudine affabulatoria
Armando Borghi scrittore nativo,
naturale? Mi par proprio di sì. Come del resto un altro
romagnolo che però aveva fatto del giornalismo una
professione, a lungo, e con brillanti successi: parlo di Pietro Nenni
i cui scritti autobiografici, pochi purtroppo, sono di forte e
intensa bellezza narrativa (penso soprattutto a quelli sull'infanzia
e sull'adolescenza, povere di pane e di affetto).
In fondo c'è un certo
parallelismo fra i due, dal punto di vista culturale: entrambi figli
di un ceto sociale povero, entrambi autodidatti, entrambi cultori di
un mondo, quello francese, che allora era il riferimento inevitabile
per ogni giovane "sovversivo" o comunque impegnato a
sinistra (con Zola, Hugo, Sue, probabilmente, a campeggiare),
entrambi romagnoli, nati a pochi chilometri e a non moltissimi anni
di distanza, e cresciuti in un clima politico non troppo diverso
(anche se Borghi era già ben consapevole quando accaddero, ad
esempio, i fatti del '98, mentre per Nenni bambino fu il primo choc
politico la carica di cavalleria seguita dalle finestre
dell'orfanotrofio-collegio, in piazza a Faenza), entrambi figli di
una cultura più agraria che urbana, con effetti diretti sul
modo e sul gusto di narrare.
Perché dico questo? Perché,
specie in Romagna, esisteva allora (l'ho potuto riscontrare
direttamente in mio padre, che era nato nel '96, e in altri parenti
cresciuti in quel periodo) una diffusa, radicatissima abitudine
affabulatoria, una pratica serale molto mal vista da preti e
benpensanti perché metteva assieme uomini e donne, anche di
giovane età, che consisteva nel riunirsi, nelle cucine o nelle
stalle "a filò" , a raccontare storie, vere e
inventate, tramandate oralmente. Lì emergeva già un
"leader", il narratore, l'affabulatore: l'uomo, o la donna,
capace di narrare con più gusto, con più colore, con
più incisività. Sono sempre più convinto che
quell'esercizio, che quella tradizione di racconto orale (magari col
concorso dei melodrammi, dei libretti d'opera allora notissimi) abbia
inciso profondamente sulla formazione e sulla predisposizione a
raccontare, in prosa stavolta, di ragazzi senza molti studi e senza
molti libri, come Borghi e Nenni. E sulla loro immaginosità
oratoria, l'oratoria a braccio, senza microfoni di sorta, magari in
contraddittorio con avversari politici non meno agguerriti. Nonché
sulle capacità di essere efficaci giornalisti e polemisti
politici, secondo una tradizione che veniva dritta dal Risorgimento e
dalle varie Gazzette, dai vari giornali e giornaletti locali (in
Romagna dai titoli più fantasiosi, come "La Marmaglia",
"La Poveraglia", "La Gentaglia" e così
via) e dalla Francia naturalmente.
Armando poi aveva tratto un evidente
profitto anche dal soggiorno bolognese e dalla frequentazione di un
gruppo politico che era fatto pure di intellettuali, di gente
dell'Università. Come Samaja o Bidone. Lui stesso ricorda
nelle sue memorie di aver frequentato, da uditore, certe lezioni
universitarie. Là dove si era formato il Costa anarchico,
allievo di Carducci , capace di trascinare, per pochissimo, in
politica lo stesso Pascoli, col risultato di fargli passare (per un
articolo sul "Nettuno") una notte in gattabuia e di
provocargli con la fifa di quelle ore un rigetto pressoché
totale della politica stessa.
Breve, secco orgoglioso
Poi la grande palestra del giornalismo
politico, esercitato da Borghi con fervore, con grande capacità
professionale: nell'articolo diffuso, nel ritratto e nel corsivo
breve, secco, orgoglioso o micidiale (per l'avversario politico,
s'intende). Come la battuta che riserva sempre a Mussolini incontrato
a Forlì nel periodo della "Lotta di classe": "Poco
parlamentarista è come dire poco sifilitico".
Anche nelle lettere - ne conservo un
pacchetto degli ultimi anni, a disposizione della Biblioteca
Libertaria, naturalmente - uomini come Borghi sapevano essere pieni
di vivacità narrativa: il telefono, purtroppo, ci ha privato
di una grande risorsa, di un grande momento meditativo e narrativo
come l'epistolario. Anche lì invece Armando sapeva essere
allegro, paradossale, polemico: scrittore insomma.
Come quando, accompagnando ritagli di
vecchie cose, annotava, agro e dolce insieme: "Mi par di frugare
fra le rovine di Cartagine...". Negli anni fra il 1966 e la morte,
finita la fatica comune dell'antologia pubblicata dell'Alfa di
Bologna col bel titolo di "Vivere da anarchici", Armando
premeva molto per scrivere un ultimo libretto da dedicare ad Arturo
Toscanini, il grande, generoso amico, con Salvemini, degli anni
nuovayorkesi, gli anni di cui parlerà - vedo dal programma del
convegno - il professor Luciano Bergonzini. Lo voleva fortemente
perché sentiva di doverlo al coraggioso maestro di Parma,
leader di un antifascismo, di un antimussolinismo così
difficili da praticare nell'America di allora, fra gli
italo-americani infatuati dal mito dell'ordine e del rispetto per
l'Italia.
Non poté, oltre il proposito,
oltre qualche appunto, oltre qualche lettera. Ma mi sembrò, mi
sembra molto bello questo suo ostinato pensiero rivolto con
ammirazione e riconoscenza all'irascibile, ineguagliabile,
irripetibile Arturo Toscanini.
Armando Borghi, mezzo secolo d'anarchia
Nato a Castelbolognese (Ravenna) nel 1882, Borghi entrò giovanissimo nel movimento anarchico e nelle lotte operaie, ponendosi immediatamente in luce per le brillanti capacità di oratore e pubblicista autodidatta, e attirandosi anche numerose persecuzioni che lo accompagneranno per tutta la vita.
Trasferitosi nel 1900 a Bologna, vi svolse un'intensa attività antimilitarista e sindacale. Fin dalla sua fondazione, nel 1912, aderì all'Unione Sindacale Italiana, di cui divenne attivo organizzatore e di cui assunse nel 1914 la segreteria, dopo una lunga battaglia politica contro i sindacalisti rivoluzionari passati all'interventismo. Mantenne tale carica nel difficile periodo bellico (trascorso in internamento prima a Impruneta - Firenze - e poi ad Isernia) e negli anni della ventata rivoluzionaria del primo dopoguerra, il cosiddetto "biennio rosso" (1919-1920), quando l'USI arrivò ad avere mezzo milione di iscritti.
Nel 1920 con un viaggio avventuroso si recò a Mosca dove si incontrò con Zinoviev e con Lenin, ma ogni intesa si rivelò impossibile, e negli anni successivi Borghi accentuò sempre di più le sue critiche all'autoritario e dittatoriale regime sovietico.
Lasciata nel 1921 la segreteria dell'USI, fu costretto dall'avvento del fascismo ad emigrare prima in Francia e poi negli Stati Uniti, dove rimase dal 1926 al 1945, conducendo in condizioni di semiclandestinità una strenua lotta politica contro la dittatura di Mussolini.
Tornato in Italia dopo la Liberazione, rimase tra gli esponenti più in vista del movimento anarchico (diresse tra l'altro, dal 1953 al 1965, il settimanale "Umanità Nova", organo della Federazione Anarchica Italiana).
Autore di numerosi volumi, tra le sue opere si ricordano in particolare L'Italia tra due Crispi, Mussolini in camicia, Errico Malatesta e l'apprezzata autobiografia Mezzo secolo di anarchia.
Morì a Roma il 21 aprile 1968.
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