Rivista Anarchica Online
Il senso di una morte
di Massimo Ortalli
Le prime notizie sulle bombe di
Milano, lo sconcerto, la paura, la ripresa dei contatti con i
compagni, i conti con la strage di Stato nel ricordo di un anarchico
oggi militante nel gruppo "Malatesta" di Imola, allora
studente universitario a Bologna.
Pino Pinelli non era un vecchio
militante, di quelli passati attraverso carcere, confino, esilio, ma
quando si è trovato a dover contrastare col proprio corpo e la
propria vita una provocazione di regime che avrebbe affossato anni di
lotte, criminalizzato l'intero movimento di opposizione e chiusi gli
spazi di libertà conquistati, la sua fermezza e il suo
coraggio sono diventati la montagna di certezza che tanti, tantissimi
altri militanti anonimi, come lui era stato fino a quel momento,
stavano cercando per riprendere la lotta.
Ripensare a quei fatti per me non è
solo ricordare i grandi titoli dei giornali, le dichiarazioni dei
politici e i teoremi precostituiti, ma è anche rivivere alcuni
giorni di panico, sbandamento e confusione cui la morte di Pinelli
impose una sterzata violenta e rabbiosa. E non si tratta solo di un
ricordo personale, ma del quotidiano condiviso, allora, pressoché
generalmente dal movimento: da quell'onda anonima e collettiva che
era stata crescente e che rischiava di rifluire sulle montature dei
crimini di stato. Per questo credo che una testimonianza in prima
persona, dal punto di vista di chi faceva politica fra i tanti, possa
dire molto della storia concreta di quei giorni.
Prima, tutto era in salita
Lo venni a sapere nel tardo pomeriggio,
verso sera, dentro al solito bar davanti alla Centrale, quando
Pinuccio irruppe col suo modo nevrotico a bisbigliarmi: sono
scoppiate delle bombe a Milano, decine di morti, e voi anarchici
siete gli autori; poi mi propose l'immancabile tressette, mentre le
mani gli tremavano.
Gli chiesi maggiori dettagli, se ne
aveva: cosa si diceva, cosa facevano i compagni, se ci fosse qualche
iniziativa in giro, se a Bologna stesse già succedendo
qualcosa, insomma che fosse più preciso, per la madonna,
perché non era quello il modo di dare una notizia del genere.
Mi incazzai per la leggerezza con cui,
dopo tanti discorsi comuni sulle menzogne della propaganda borghese,
introiettava anche lui acriticamente la verità di regime; ma
mi incazzai anche perché già vedevo la facilità
con cui poteva affermarsi il coinvolgimento del movimento anarchico -
e quindi anche il mio - rispetto ad avvenimenti di una tragicità
per allora inimmaginabile. Il mio nervosismo - o forse paura - poteva
anche essere comprensibile, perché fino a quel momento
l'ipotesi di una involontaria corresponsabilità in fatti di
tale portata era del tutto impensabile per tutti noi, giovani
militanti da poco più di un anno protagonisti un po' ignari
della storia.
Certo, scontri con la polizia,
picchetti, qualche botta data o presa, qualche sasso lanciato o
qualche vaso di fiori messo di traverso per la strada: ma tutto era
in salita, l'entusiasmo rivoluzionario ti metteva le ali ai piedi e
pensavi che solo una tua personale defaillance avrebbe potuto farti
desistere dalla lotta e dall'impegno. Ma accidenti! quelle bombe,
addirittura irreali nell'eccesso della loro realtà,
diventavano l'uragano che spazzava via quelle pulsioni e quel
bagaglio ideologico che si erano fatti ragion d'essere.
Lasciai perdere Pinuccio e uscii in
strada, sperando follemente di incontrare uno qualsiasi dei
tantissimi compagni del movimento bolognese. Ma non ricordo di aver
visto una faccia amica o conosciuta. Ricordo invece il mio vagare
alienato e quasi inconsapevole: non verso piazza Maggiore, dove ci
sarebbe stato certamente un cane di compagno da cui prendere e a cui
dare coraggio, ma per via delle Moline, in direzione di casa, mentre
mi sentivo seguito dallo sguardo ostile di quanti, onesti cittadini,
individuavano in me l'anarchico e il dinamitardo; e quindi alla
"Pioggia" e sotto i portici, credendo di vedere dietro ogni
colonna il poliziotto della politica che mi pedinava; poi a passi
sempre più veloci, prospettando a me stesso l'assoluta
mancanza di alternative: - dove andare? dove nascondersi? ma guarda
te, l'autore, il complice, il simpatizzante che non può
espatriare perché in tasca ha le solite duemila lire (al
massimo il biglietto per Milano, ma non era il caso) e perché
nei passati 15 mesi di militanza l'idiota non aveva mai pensato a
prepararsi una via di fuga con relativo espatrio in Svizzera e rete
clandestina di compagni pronti ad aiutarlo -. Poi via San Carlo, dove
abitavo (ma che cazzo avevo letto, detto e fatto casino, se al
momento buono non ero stato neppure in grado di prendere una strada
diversa da quella di casa mia?) e dove ogni crocchio di persone mi
sembrava una micromanifestazione della Bologna "democratica e
antifascista", e i poliziotti che quella sera registravano i
movimenti della casa mi fecero sentire definitivamente spacciato. Con
la forza della disperazione cercavo di convincermi che "un
compagno non può averlo fatto", ma purtroppo non ne ero
sicuro più di tanto, figurarsi se sarei stato in grado di
sostenerlo nell'interrogatorio che già mi prefiguravo.
Il cliché dell'anarchico
bombarolo
Poi ricordo i giorni non meno
drammatici che si succedettero. Fra i compagni, dopo il primo momento
di confusione che aveva colpito l'intero movimento, si cercò
di cominciare a capire quanto stesse succedendo. Le notizie dei
giornali, i particolari dell'eccidio, l'arresto dei mostri anarchici
giustiziati sommariamente sull'altare dell'informazione di regime
facevano pensare, sì, a una montatura contro la lotta
crescente e dilagante di quel periodo, ma a una montatura che
purtroppo era stata permessa e agevolata da un'accozzaglia di
provocatori che pareva infestare con troppa faciloneria il movimento
anarchico specifico. Del resto, il cliché dell'anarchico
bombarolo, che un potere senza fantasia aveva rispolverato con grande
leggerezza, trovava credito, bisogna dirlo, anche tra quanti -
marxisti, libertari, m-l, movimentisti, senza partito - non
smettevano di interrogarsi criticamente sul significato degli
avvenimenti milanesi e romani.
Accortomi, nel breve arco di 24 ore,
che almeno per il momento la polizia non sembrava particolarmente
interessata ad indagare sulla mia complicità, anch'io come
tantissimi altri, ripresi fiato. C'erano incontri che avevano l'aria
di riunioni catacombali di militanti votati al sacrificio, piuttosto
che la gioiosa tumultuosità che aveva preceduto il 12
dicembre; e la discussione era attorno alle conseguenze politiche, e
forse anche personali, che si sarebbero aperte dopo piazza Fontana.
Era difficile, accidenti se era
difficile, cercare di difendere l'anarchia in quei momenti. E io non
ero certo la persona più adatta, perché se le mie
convinzioni avevano già vacillato con l'avvicinarmi a Potere
Operaio, ora quel residuo di anarchismo istintivo di fondo che ancora
mi faceva pensare da anarchico non era certo sufficiente per farmi
ribattere appieno alle dissepolte accuse di infantilismo e
avventurismo che i nuovi marxisti si sentivano legittimati a
rivolgere ai discepoli di Bakunin. Devo inoltre ammettere che non
pensai neppure a contattare i vecchi compagni del Berneri coi quali
mi ero formato: eppure ero più che certo che Gino o Mario o
Libero avrebbero potuto comunicarmi la sicurezza e la forza che
nessun altro sarebbe stato in grado di darmi.
Mi sentivo spinto fra quanti, pur non
colpevolizzando il movimento anarchico (perché questo va
detto: non ricordo che nessuno nella sinistra rivoluzionaria
criminalizzasse gli anarchici in quanto tali), mi spiattellavano col
buonsenso del marxista ortodosso l'ancor più cocente accusa
che si muoveva all'anarchismo: spontaneismo, senza linea politica e,
in quanto tale, terreno privilegiato delle provocazioni poliziesche
nonché anello debole della catena rivoluzionaria.
Il trovare questa spiegazione
"politica" per un fatto che mi sembrava esclusivamente
criminale mi permise di affrontare con un minimo di obiettività
l'intera questione, anche se ciò significava subire tesi ed
analisi che facevano dell'anarchismo un'accozzaglia di buoni
propositi e pessime esecuzioni. Di certo non fui il solo a subire la
contraddittorietà della situazione, ma farei torto alla verità
se non dicessi che tanti, tantissimi compagni anarchici anche in quei
giorni furono capaci di preservare la loro lucidità di fronte
agli attacchi criminali del potere e alle subdole esortazioni dei
benpensanti del comunismo autoritario. E anche il mio,
fortunatamente, fu lo sbandamento di un attimo durato pochissimi
giorni, uno sbandamento che corresse, con tutta la sua forza
sovversiva, la morte di Pino Pinelli.
L'ostinazione di un anarchico oscuro
Affermare oggi che la morte di Pinelli
fu il giro di volta imposto a un meccanismo assurdo e bestiale che
intendeva criminalizzare le proprie vittime, appare fin troppo
facile; come appare ovvio, anche se non altrettanto facile per tutti,
asserire che è immenso il debito dell'intera sinistra italiana
nei confronti di quell'oscuro ferroviere che seppe ergere la propria
verità di fronte alla "verità" dello stato, e
che gli spazi di libertà conquistati in quegli anni debbano
anch'essi a Pino Pinelli gran parte delle condizioni per la loro
affermazione ed esistenza. Tutto questo può apparire perfino
banale a chi visse direttamente, con partecipazione e commozione,
quei giorni. Eppure non si ricorderà mai a sufficienza come
solo la morte di una vittima consapevole della partita che si stava
giocando, di un uomo che seppe affrontare con determinazione e
coraggio il proprio destino, permise a un'intera generazione di
militanti, anarchici e non anarchici, libertari, marxisti, ecc., di
ritrovare la forza della ragione e la voglia di continuare,
apparentemente annullate dalla brutalità di una ragione di
stato criminale e assassina.
Non si tratta oggi di esprimere
riconoscenza e gratitudine, si tratta piuttosto di ritrovare la
chiarezza per capire che solo l'ostinazione di un anarchico oscuro,
un ferroviere di mezza età che allora ci sembrava tanto più
vecchio di noi, con la barba e l'espressione ferma e pacata, con due
figlie da mantenere e una moglie fiera e irriducibile, impedì
per tanti anni al potere di riprendersi quello spazio che
l'immaginazione aveva occupato.
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