Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 169
dicembre 1989 - gennaio 1990


Rivista Anarchica Online

Il senso di una morte
di Massimo Ortalli

Le prime notizie sulle bombe di Milano, lo sconcerto, la paura, la ripresa dei contatti con i compagni, i conti con la strage di Stato nel ricordo di un anarchico oggi militante nel gruppo "Malatesta" di Imola, allora studente universitario a Bologna.

Pino Pinelli non era un vecchio militante, di quelli passati attraverso carcere, confino, esilio, ma quando si è trovato a dover contrastare col proprio corpo e la propria vita una provocazione di regime che avrebbe affossato anni di lotte, criminalizzato l'intero movimento di opposizione e chiusi gli spazi di libertà conquistati, la sua fermezza e il suo coraggio sono diventati la montagna di certezza che tanti, tantissimi altri militanti anonimi, come lui era stato fino a quel momento, stavano cercando per riprendere la lotta.
Ripensare a quei fatti per me non è solo ricordare i grandi titoli dei giornali, le dichiarazioni dei politici e i teoremi precostituiti, ma è anche rivivere alcuni giorni di panico, sbandamento e confusione cui la morte di Pinelli impose una sterzata violenta e rabbiosa. E non si tratta solo di un ricordo personale, ma del quotidiano condiviso, allora, pressoché generalmente dal movimento: da quell'onda anonima e collettiva che era stata crescente e che rischiava di rifluire sulle montature dei crimini di stato. Per questo credo che una testimonianza in prima persona, dal punto di vista di chi faceva politica fra i tanti, possa dire molto della storia concreta di quei giorni.

Prima, tutto era in salita
Lo venni a sapere nel tardo pomeriggio, verso sera, dentro al solito bar davanti alla Centrale, quando Pinuccio irruppe col suo modo nevrotico a bisbigliarmi: sono scoppiate delle bombe a Milano, decine di morti, e voi anarchici siete gli autori; poi mi propose l'immancabile tressette, mentre le mani gli tremavano.
Gli chiesi maggiori dettagli, se ne aveva: cosa si diceva, cosa facevano i compagni, se ci fosse qualche iniziativa in giro, se a Bologna stesse già succedendo qualcosa, insomma che fosse più preciso, per la madonna, perché non era quello il modo di dare una notizia del genere.
Mi incazzai per la leggerezza con cui, dopo tanti discorsi comuni sulle menzogne della propaganda borghese, introiettava anche lui acriticamente la verità di regime; ma mi incazzai anche perché già vedevo la facilità con cui poteva affermarsi il coinvolgimento del movimento anarchico - e quindi anche il mio - rispetto ad avvenimenti di una tragicità per allora inimmaginabile. Il mio nervosismo - o forse paura - poteva anche essere comprensibile, perché fino a quel momento l'ipotesi di una involontaria corresponsabilità in fatti di tale portata era del tutto impensabile per tutti noi, giovani militanti da poco più di un anno protagonisti un po' ignari della storia.
Certo, scontri con la polizia, picchetti, qualche botta data o presa, qualche sasso lanciato o qualche vaso di fiori messo di traverso per la strada: ma tutto era in salita, l'entusiasmo rivoluzionario ti metteva le ali ai piedi e pensavi che solo una tua personale defaillance avrebbe potuto farti desistere dalla lotta e dall'impegno. Ma accidenti! quelle bombe, addirittura irreali nell'eccesso della loro realtà, diventavano l'uragano che spazzava via quelle pulsioni e quel bagaglio ideologico che si erano fatti ragion d'essere.
Lasciai perdere Pinuccio e uscii in strada, sperando follemente di incontrare uno qualsiasi dei tantissimi compagni del movimento bolognese. Ma non ricordo di aver visto una faccia amica o conosciuta. Ricordo invece il mio vagare alienato e quasi inconsapevole: non verso piazza Maggiore, dove ci sarebbe stato certamente un cane di compagno da cui prendere e a cui dare coraggio, ma per via delle Moline, in direzione di casa, mentre mi sentivo seguito dallo sguardo ostile di quanti, onesti cittadini, individuavano in me l'anarchico e il dinamitardo; e quindi alla "Pioggia" e sotto i portici, credendo di vedere dietro ogni colonna il poliziotto della politica che mi pedinava; poi a passi sempre più veloci, prospettando a me stesso l'assoluta mancanza di alternative: - dove andare? dove nascondersi? ma guarda te, l'autore, il complice, il simpatizzante che non può espatriare perché in tasca ha le solite duemila lire (al massimo il biglietto per Milano, ma non era il caso) e perché nei passati 15 mesi di militanza l'idiota non aveva mai pensato a prepararsi una via di fuga con relativo espatrio in Svizzera e rete clandestina di compagni pronti ad aiutarlo -. Poi via San Carlo, dove abitavo (ma che cazzo avevo letto, detto e fatto casino, se al momento buono non ero stato neppure in grado di prendere una strada diversa da quella di casa mia?) e dove ogni crocchio di persone mi sembrava una micromanifestazione della Bologna "democratica e antifascista", e i poliziotti che quella sera registravano i movimenti della casa mi fecero sentire definitivamente spacciato. Con la forza della disperazione cercavo di convincermi che "un compagno non può averlo fatto", ma purtroppo non ne ero sicuro più di tanto, figurarsi se sarei stato in grado di sostenerlo nell'interrogatorio che già mi prefiguravo.

Il cliché dell'anarchico bombarolo
Poi ricordo i giorni non meno drammatici che si succedettero. Fra i compagni, dopo il primo momento di confusione che aveva colpito l'intero movimento, si cercò di cominciare a capire quanto stesse succedendo. Le notizie dei giornali, i particolari dell'eccidio, l'arresto dei mostri anarchici giustiziati sommariamente sull'altare dell'informazione di regime facevano pensare, sì, a una montatura contro la lotta crescente e dilagante di quel periodo, ma a una montatura che purtroppo era stata permessa e agevolata da un'accozzaglia di provocatori che pareva infestare con troppa faciloneria il movimento anarchico specifico. Del resto, il cliché dell'anarchico bombarolo, che un potere senza fantasia aveva rispolverato con grande leggerezza, trovava credito, bisogna dirlo, anche tra quanti - marxisti, libertari, m-l, movimentisti, senza partito - non smettevano di interrogarsi criticamente sul significato degli avvenimenti milanesi e romani.
Accortomi, nel breve arco di 24 ore, che almeno per il momento la polizia non sembrava particolarmente interessata ad indagare sulla mia complicità, anch'io come tantissimi altri, ripresi fiato. C'erano incontri che avevano l'aria di riunioni catacombali di militanti votati al sacrificio, piuttosto che la gioiosa tumultuosità che aveva preceduto il 12 dicembre; e la discussione era attorno alle conseguenze politiche, e forse anche personali, che si sarebbero aperte dopo piazza Fontana.
Era difficile, accidenti se era difficile, cercare di difendere l'anarchia in quei momenti. E io non ero certo la persona più adatta, perché se le mie convinzioni avevano già vacillato con l'avvicinarmi a Potere Operaio, ora quel residuo di anarchismo istintivo di fondo che ancora mi faceva pensare da anarchico non era certo sufficiente per farmi ribattere appieno alle dissepolte accuse di infantilismo e avventurismo che i nuovi marxisti si sentivano legittimati a rivolgere ai discepoli di Bakunin. Devo inoltre ammettere che non pensai neppure a contattare i vecchi compagni del Berneri coi quali mi ero formato: eppure ero più che certo che Gino o Mario o Libero avrebbero potuto comunicarmi la sicurezza e la forza che nessun altro sarebbe stato in grado di darmi.
Mi sentivo spinto fra quanti, pur non colpevolizzando il movimento anarchico (perché questo va detto: non ricordo che nessuno nella sinistra rivoluzionaria criminalizzasse gli anarchici in quanto tali), mi spiattellavano col buonsenso del marxista ortodosso l'ancor più cocente accusa che si muoveva all'anarchismo: spontaneismo, senza linea politica e, in quanto tale, terreno privilegiato delle provocazioni poliziesche nonché anello debole della catena rivoluzionaria.
Il trovare questa spiegazione "politica" per un fatto che mi sembrava esclusivamente criminale mi permise di affrontare con un minimo di obiettività l'intera questione, anche se ciò significava subire tesi ed analisi che facevano dell'anarchismo un'accozzaglia di buoni propositi e pessime esecuzioni. Di certo non fui il solo a subire la contraddittorietà della situazione, ma farei torto alla verità se non dicessi che tanti, tantissimi compagni anarchici anche in quei giorni furono capaci di preservare la loro lucidità di fronte agli attacchi criminali del potere e alle subdole esortazioni dei benpensanti del comunismo autoritario. E anche il mio, fortunatamente, fu lo sbandamento di un attimo durato pochissimi giorni, uno sbandamento che corresse, con tutta la sua forza sovversiva, la morte di Pino Pinelli.

L'ostinazione di un anarchico oscuro
Affermare oggi che la morte di Pinelli fu il giro di volta imposto a un meccanismo assurdo e bestiale che intendeva criminalizzare le proprie vittime, appare fin troppo facile; come appare ovvio, anche se non altrettanto facile per tutti, asserire che è immenso il debito dell'intera sinistra italiana nei confronti di quell'oscuro ferroviere che seppe ergere la propria verità di fronte alla "verità" dello stato, e che gli spazi di libertà conquistati in quegli anni debbano anch'essi a Pino Pinelli gran parte delle condizioni per la loro affermazione ed esistenza. Tutto questo può apparire perfino banale a chi visse direttamente, con partecipazione e commozione, quei giorni. Eppure non si ricorderà mai a sufficienza come solo la morte di una vittima consapevole della partita che si stava giocando, di un uomo che seppe affrontare con determinazione e coraggio il proprio destino, permise a un'intera generazione di militanti, anarchici e non anarchici, libertari, marxisti, ecc., di ritrovare la forza della ragione e la voglia di continuare, apparentemente annullate dalla brutalità di una ragione di stato criminale e assassina.
Non si tratta oggi di esprimere riconoscenza e gratitudine, si tratta piuttosto di ritrovare la chiarezza per capire che solo l'ostinazione di un anarchico oscuro, un ferroviere di mezza età che allora ci sembrava tanto più vecchio di noi, con la barba e l'espressione ferma e pacata, con due figlie da mantenere e una moglie fiera e irriducibile, impedì per tanti anni al potere di riprendersi quello spazio che l'immaginazione aveva occupato.