Rivista Anarchica Online
Gandhi abita ancora qui?
di Tiziana Ferrero
Che cosa è rimasto, oltre 40
anni dopo la sua morte, dell'insegnamento di Gandhi e del suo
modello di autogoverno e di sviluppo? Intervista a Jain Jawahirlal,
teorico del movimento Sarvodaya. Il ruolo di Vinoba Bave, discepolo
di Gandhi, considerato l'ideatore di una particolare forma di
"anarchismo indiano".
Sono le sei del mattino e il Pink City
lascia la New Delhi Station in perfetto orario. Cinque ore di viaggio
comodo (il Pink City è un treno veloce e abbastanza
confortevole, soprattutto se paragonato al comfort medio dei treni
indiani che è molto basso) ci porteranno da Delhi a Jaipur,
capitale del Rajasthan, la terra dei rajà, e prima tappa del
nostro secondo viaggio. A metà del percorso il paesaggio
comincia a cambiare, la temperatura sale, la pianura brulla e a
tratti coltivata che circonda Delhi si trasforma poco a poco: i
colori sono quelli del deserto, tutto è roccia rossa, ocra ,
terra di siena bruciata, le colline emergono improvvise e poco prima
di Jaipur si cominciano a vedere i bastioni di difesa di antichi
palazzi o villaggi che corrono per centinaia di metri seguendo il
saliscendi delle colline. L'aria predesertica rende il cielo di un
blu secco. I nostri compagni di viaggio appartengono decisamente a
classi più agiate di quelli incontrati sui treni per Lucknow e
parlano perfettamente inglese. Stanno commentando i primi risultati
delle elezioni politiche; 800 milioni di indiani (uno più, uno
meno) sono come fermi, in attesa: il governo di Rajiv Gandhi
probabilmente non avrà la maggioranza. C'è tensione in
tutta l'India, gli incidenti tra musulmani e indù sono
numerosi. Maledetta aria condizionata: il mio raffreddore non guarirà
più! La stazione di Jaipur è la
solita caotica stazione ferroviaria indiana: le grida dei coolie
(facchini), che ti assalgono per portarti il bagaglio per poche rupie
- una cosa che continua a imbarazzarmi molto - l'odore delle polpette
di verdura fritte nell'olio di semi vari, i profumi dei mille curry,
la puzza acre dei combustibili usati per friggere, la gente che se ne
sta sdraiata sui marciapiedi dei treni in attesa di partire, o,
semplicemente, perché quella è la loro casa. In
compenso Jaipur è più bella di quanto ci aspettassimo.
La città nuova ha strade abbastanza ampie, è molto
verde e il traffico, anche se caotico, non è chiassoso,
esasperante e inquinante come a Delhi.
Lasciamo i nostri bagagli in un'antica
residenza di nobili rajasthani, oggi albergo gestito dall'ultimo
discendente (lontanissimo da quei principi salgariani che da bambini
ci fanno sognare, ma in compenso un perfetto e discreto gentiluomo).
La nostra camera è il doppio - credo - della casa in cui abito
io a Milano, è molto decadente, ma qui si respira un'atmosfera
che non ritroveremo in nessun altro albergo "indian style"
- veramente molto indian, e molto poco style.
Finalmente siamo nella sede del
Rajasthan Khadi Gramadyag Sarath sangh, una bella costruzione, molto
semplice al suo interno, con ampi corridoi che immettono negli
uffici. Qui si coordina e organizza l'attività di 125 piccole
industrie che si trovano in altrettanti villaggi, che producono il
Khadi, il tessuto di cotone confezionato su telaio a mano. Gandhi
cominciò proprio da qui la sua rivoluzione, usando, ed
esortando a usare, solo abiti tessuti in proprio e rigorosamente a
mano, rifiutando gli abiti confezionati in Inghilterra col cotone
indiano e lì rivenduti. Ci accoglie un uomo anziano, minuto,
capelli bianchi, vestito alla maniera classica indù: dhoti
(pantaloni) e casacca bianchi, gilet abbottonato di lana color
caffellatte e cappello a busta. Il segretario del Rajasthan Khadi è
molto impegnato, ma ci porterà da un uomo interessante, il
presidente di varie attività produttive del Khadi, scrittore,
teorico del movimento Sarvodaya, nonché discepolo di Gandhi. Jain Jawahirlal è un uomo
semplice, il ritratto perfetto di Gandhi: piccolo, magro, uno sguardo
profondo e azzurro che infonde calma e serenità, avrà
circa settant'anni, anche lui è in dhoti. Ci accoglie nella
sua casa, semplice ma molto dignitosa. Dopo esserci tolte le scarpe,
ci sediamo sul tappeto per terra e cominciamo l'intervista.
Sviluppo e progresso di tutti
Ci può parlare brevemente del
movimento sarvodaya?
Il movimento sarvodaya fu fondato da
Gandhi. La sua idea era quella di creare una nuova società che
fosse nonviolenta. A quell'epoca l'India si trovava sotto il dominio
britannico, mentre noi volevamo essere liberi di poter determinare il
nostro futuro. Il movimento di liberazione è stato il primo
gradino per formare la società sarvodaya.
Cosa significa sarvodaya?
Il nome è stato dato da
Gandhi e significa letteralmente sviluppo e progresso di tutti, non
prosperità della maggioranza, di un piccolo gruppo, né
tanto meno di un singolo. Non dobbiamo mai dimenticare che noi
avevamo in casa gli inglesi, che erano - e sono - una società
del profitto, governati da un parlamento guidato dalla maggioranza,
mentre Gandhi non credeva in questa forma di governo: ne voleva uno
dove ci fosse il consenso di tutti e che operasse per il bene di
tutti. E prima di formare questa società era necessario che
l'India fosse libera; il popolo indiano, che doveva decidere del
proprio futuro, doveva avere dentro di se i concetti
dell'autogoverno. Ma sfortunatamente Gandhi non visse a lungo: fu
ucciso proprio nel momento in cui l'India dichiarò la propria
indipendenza, ma ha fatto in tempo a tramandarci i principi-base
della Società sarvodaya. Gandhi è stato un grande
oratore, ci ha lasciato solo tre libri; Civiltà
occidentale e rinascita dell'India, scritto durante il suo
soggiorno in Sudafrica; in La
nonviolenza come liberazione individuale e collettiva spiega
quali devono essere i comportamenti individuali e, nel terzo, Gandhi
elenca le azioni da intraprendere per costruire in pratica la società
sarvodaya, e quali sono le forme politiche ed economiche che si deve
dare. Gandhi non era un uomo teorico, ma pratico; egli non insegnò
come avrebbe dovuto essere la società sarvodaya, ma come dalle
idee si poteva arrivare alla pratica; formulò anche una serie
di programmi sociali che, realizzati, avrebbero portato alla società
nuova, in cui tutti collaborano e che dà lavoro a tutti. Tutta
la gente deve partecipare al governo economico e sociale della
società, che deve soddisfare gli interessi in tutti. Gandhi
non credeva in una società di classe né in un governo
formato da una classe che dominasse sulle altre, come la società
comunista che vuole la dittatura del proletariato. Anche la forma di
governo pluritaria esprime comunque il dominio della classe politica
sul resto della società. Inoltre Gandhi era contrario alla
formula politica maggioranza-opposizione, perché una società
deve operare per il benessere di tutti.
Piccolo è bello
Ma in pratica come era possibile
arrivare all'autogestione in un paese così grande e così
densamente popolato, con molta povertà e gravi problemi
sociali?
L' organizzazione politica doveva
essere decentrata e il potere nelle mani del popolo, della base, cioè
il villaggio, che doveva gestire la propria vita. Per questo Gandhi
la chiamò autogestione del villaggio: ogni attività
doveva essere decentrata. Sia il mahatma che Vinoba Bave erano
contrari a qualsiasi forma di potere centralizzato e alla riforma
parlamentare, perché qui le decisioni sono sempre prese alla
maggioranza.
Vinoba Bave usava dire che il 51 per
cento della gente aveva il 100 per cento dei diritti e il 49 per
cento zero. Infatti qualsiasi decisione presa da un parlamento viene
presa con una maggioranza minima del 51 per cento. L'autogoverno di
Gandhi si basava sul panchajat,
il consiglio degli anziani e dei saggi del villaggio; qui le
decisioni non venivano prese dal 51 per cento ma con il consenso e
sentendo le opinioni di tutti; nel caso in cui non si fosse raggiunta
l'unanimità, bisognava almeno arrivare alla non opposizione.
Questo è il governo del
consenso, non quello del voto e mi sembra molto vicino all'idea
anarchica dell'autogoverno decentrato. Per Gandhi, dunque, ogni
iniziativa doveva essere presa dalla base, e questa era la direzione
in cui ci si doveva muovere.
E come era possibile organizzare
economicamente una tale struttura?
Allo stesso modo, Gandhi fu molto
chiaro nella sua visione dell'economico. Non credeva nelle grosse
concentrazioni di industrie, di scambi commerciali e di banche.
Voleva piccoli agglomerati industriali che danno lavoro a tutti, non
voleva la meccanizzazione, che solleva sì l'uomo dalle
fatiche, ma che crea disoccupazione. Nella società
capitalistica c'è la produzione di massa, con un ridotto
numero di persone che producono la quantità maggiore di
prodotti; invece per Gandhi erano le masse che dovevano produrre;
ogni individuo, anche i bambini, doveva partecipare alla produzione e
ognuno doveva fare un qualunque lavoro manuale. In ogni società
con una larga fetta di ricchi che consuma molto c'è anche un
gran numero di poveri che consuma poco o niente. Quest'economia non
avrebbe futuro se tutti partecipassero alla produzione; ciò
eviterebbe una meccanizzazione forzata e, di conseguenza, la
disoccupazione. Gandhi non era contro le macchine in quanto tali, ma
solo contro quelle che tolgono lavoro; qualora ci fosse una macchina
che rende il lavoro piacevole o meno faticoso, quella può
essere usata, ciò significa che "piccolo è bello".
Se si rinunciasse ai grandi concentramenti industriali, tra l'altro,
si consumerebbe meno carburante, e anche l'ambiente ne trarrebbe
profitto.
Gandhi si trovò certamente anche
a dover affrontare il problema delle caste. Come pensava di
risolverlo?
Dal punto di vista sociale, Gandhi
credeva nell'uguaglianza. In India, voi sapete, c'è molta
gente povera. La posizione della popolazione indiana è
ineguale per via delle caste. Per elevare quelle più basse,
gli intoccabili per esempio, bisogna dare educazione e lavoro. Solo
attraverso queste si può pensare di creare uguaglianza.
Naturalmente voi sapete che la società sarvodaya deve essere
realizzata con la pratica della nonviolenza.
Proprietà privata e
socializzazione
Vinoba Bave fu un discepolo di Gandhi e
fondatore di quello che può essere definito "anarchismo
indiano". Ci può raccontare qualcosa di lui?
Vinoba Bave, prima di conoscere
Gandhi, pensava di andare in Himalaya a vivere là mendicando,
ma poi ebbe l'opportunità di ascoltare il mahatma a Varanasi.
Rinunciò alla sua idea, scrisse a Gandhi e in seguito iniziò
a vivere con lui. Aderì in pieno all'idea economica, politica
e sociale gandhiana e fece molti esperimenti di autogestione.
Lavorava 12-14 ore allo spinning-wheel (filatoio, ndt). Con il
mahatma partì da Ahmedabad e andò a Wardha, vicino a
Bombay, dove fondarono il primo ashram (insediamento, letteralmente,
ndr), il Sabarmati. Fino alla morte di Gandhi, Vinoba Bave non ha mai
avuto un ruolo pubblico, si limitava a seguire le indicazioni del
maestro. Alla sua morte prese la leadership del movimento gandhiano e
organizzò due importanti movimenti: il bhoodan (terra
data, ndr) e il gramdam.
Per il movimento bhoodan si spostò
nel paese chiedendo ai proprietari terrieri di lasciare parte delle
loro proprietà ai poveri. Inaspettatamente i latifondisti
aderirono alla richiesta e gliele consegnarono, in quanto era il
rappresentante dei "senza terra", circa un sesto della
popolazione. Questo, in poche parole, il discorso che teneva ai
proprietari terrieri: "Consideratemi come il membro nullatenente
di una famiglia di sei persone. Quindi lasciatemi un sesto delle
vostre terre " . Chiunque lavori in un'azienda agricola deve
essere proprietario della terra che lavora. Ciò significa che
non devono esserci latifondisti, ma solo contadini che lavorano la
propria terra e vivono liberamente. Milioni di acri vennero così
donati a Vinoba Bave, che, per dovere di cronaca, si muoveva a piedi
e per tre volte in dieci anni percorse tutto il paese. Capì
però che la pura donazione di un sesto delle terre dei ricchi
non avrebbe risolto il problema dei senza terra. La proprietà
privata della terra originava l'ineguaglianza, perché il solo
possesso della terra, anche se non lavorata, incrementa il suo
valore, come un capitale depositato in banca. Come si può
accettare una tale società? Questo il motivo per cui per
Vinoba Bave tutta la terra e i capitali avrebbero dovuto essere
socializzati.
A questo punto fondò il
movimento gramdan, attraverso il quale propose che fosse il villaggio
nel suo insieme a possedere le terre. I contadini le potevano usare,
lavorare, ma non dovevano considerarle come loro proprietà. La
terra era un bene comune, sul quale non si aveva il diritto di
vendita, ma solo quello di lavorarci. Così Vinoba Bave andò
dai contadini a dire che dovevano donare la terra al villaggio, ed
era l'assemblea del villaggio a decidere la quantità di terra
individuale. Migliaia di villaggi aderirono al movimento gramdan. Qui
in Rajasthan abbiamo più di 150 villaggi. Da allora, però,
le adesioni non sono più incrementate.
Il senso della comunità
Come fu possibile, per un uomo solo,
avere un così ampio seguito?
Né con la forza, né
con le armi, ma solo facendo appello ai valori più alti di
questa gente, il senso della comunità.
Vinoba Bave morì nel 1975: cosa
accadde al movimento sarvodaya e qual'è il suo futuro?
Gandhi ci ha indicato la via, ma
siamo lontani dalla realizzazione della società sarvodaya.
Oggi non c'è un movimento organizzato per continuare l'opera
del mahatma e di Vinoba Bave. Ma i lavoratori sarvodaya sono
impegnati in vari programmi formulati da Gandhi; uno di questi era
per l'appunto la rivoluzione del khadi. Ci sono migliaia di gruppi e
di villaggi che lavorano con noi per realizzare quest'obiettivo, ma
non c'è al momento nessun movimento organizzato e non abbiamo
nessuna leadership che possa coordinare i lavoratori sarvodaya, ma
speriamo nello sviluppo di qualche gruppo che si muova in questa
direzione.
L'intervista è terminata,
restiamo a parlare dell'Italia, dell'anarchia, di Gandhi. Il tè
è sempre troppo dolce e c'è troppo latte, ma tant'è,
è l'unica cosa sicura che si possa bere in India. Jain
Jawahirlal riceve nel frattempo parecchie telefonate. C'è
tensione nella Città Vecchia, qualcosa accadrà. E
infatti l'indomani mattina verremo a sapere che ci sono stati quattro
morti, due indù e due musulmani, e attentati ai negozi. Tutta
Jaipur è sotto il coprifuoco, non possiamo muoverci
dall'albergo. Generalmente si ha del popolo indiano l'idea che sia un
popolo non-violento per natura, ma le tensioni che covano in un tale
crogiolo di culture prima o poi esplodono. Gli uomini sarvodaya
aspettano forse un nuovo "messia"?
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