Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 174
giugno 1990


Rivista Anarchica Online

Autogestione in sari
di Tiziana Ferrero

Uno sguardo e alcune riflessioni sulla Sewa (Self Employement Women's Association), un'organizzazione di donne che, fondata come strumento di mutuo appoggio economico, è oggi un veicolo di emancipazione sociale e una proposta per un altro modello di sviluppo.

Sono un po' in ritardo rispetto alle ondate di hippy ed ex militanti della sinistra delusi che, negli anni Settanta, andavano in India a cercare il proprio nord, o il karma o il guru o l'eroina e l'hashish sulle spiagge di Goa. Si viveva con poco, ci si spostava con ancora meno, si fumava con niente, tutti passavano da un ashram all'altro, dove l'ospitalità è sacra, e le giornate trascorrevano tra una meditazione zen e lo yoga. Non sono moralista e non voglio fare del moralismo, ma questa era l'India che si conosceva in Occidente per i racconti di chi ci era stato o di chi ci voleva andare.
Poi c'era l'India di Indira Gandhi, stretta tra le reminiscenze pacifiste del mahatma e la scelta della bomba atomica, assediata dalla crescita demografica e divisa sulla sterilizzazione forzata. Un paese, anzi, un continente, autarchico, dove solo oggi si comincia a importare dagli stati del primo mondo (e a indebitarsi), attanagliato dalla povertà e dalla fame di decine di milioni di persone, con gravi problemi sociali ed etnici, tanto che persino il suo premier è stato ucciso in un attentato da un sik, che era poi la sua guardia del corpo. Così come trentasei anni prima l'altro Gandhi, il mahatma, il padre della patria, era stato ucciso da un indù.
E ancora, l'India dove tutto è bellezza:le montagne del Kashmir e la giungla tropicale del Kerala, il Taj Mahal e le sculture tantriche del sud, erotiche, forse oscene e conturbanti per l'occidentale che ha subito secoli di cattolicesimo o di calvinismo per cui il corpo nudo è solo quello che si ha quando si nasce.
E poi tante altre Indie, ciascuna con una faccia diversa, che si offrono al visitatore; forse è per questo che ognuno vi trova ciò che vuol trovare e ne coglie sempre solo un aspetto. Così, o piace o non piace.
A me è piaciuta perché è bella e perché guardando negli occhi qualsiasi indiano si coglie nel suo sguardo la saggezza millenaria di chi sembra sapere da sempre cos'è la vita. E non mi è piaciuta perché in quello sguardo i miei occhi da occidentale leggono anche rassegnazione, l'attesa di una vita futura che dovrebbe essere migliore; mi ha intristito vedere la gente che vive sulla strada, e non è folclore, la malattia,la fame. . . Insomma, l'India è il paese delle contraddizioni, delle emozioni forti, belle o brutte che siano.
Una delle tante Indie, quella che ho conosciuto io, è quella delle comuni, degli ashram gandhiani, dei movimenti delle donne. Un'India che dà speranza, alla quale persino l'evoluto Occidente dovrebbe guardare.
Arrivo a Delhi proprio pochi giorni prima delle ultime elezioni; il clima è surriscaldato, il governo di Rajiv Gandhi è in pericolo, sommerso com'è dagli scandali, sui giornali locali si fanno allusioni alla moglie italiana e alla mafia, in una vignetta appare un aereo dell'Alitalia spezzato in due.
Anna dice che è meglio restare a Delhi qualche giorno, in attesa che le acque si calmino. Ma io scalpito. Qualche telefonata in giro e scopriamo che a Delhi c'è Runa Banj, la segretaria della Sewa di Lucknow. Anna la conosce e mi dice che è una donna in gamba. Andiamo a trovarla dai suoi ospiti. È senz'altro una donna affascinante, ma avrò modo di conoscerla meglio, a Lucknow, nella comunità della Sewa, dove lavora.

I più poveri dei poveri
Decidiamo così di partire per Lucknow, la capitale dell'Uttar Pradesh, lo stato a maggioranza musulmana. Otto ore di viaggio in treno - e qui ho il primo sgradevole impatto con le ferrovie indiane, anche se in seguito imparerò anch'io a prendere ciò che viene come l'ineluttabile corso degli eventi - attraverso una pianura brutta e sconfinata, sembra una pianura Padana interminabile. Lucknow in compenso è meglio di Delhi, c'è il solito traffico congestionato, ma tutto sembra essere meno frenetico. Andiamo a casa di Runa che ci accoglie con grande cordialità e ci accompagna al nostro albergo, la rest house del governo. La camera è brutta, squallida, abbastanza sporca e nel bagno non funziona quasi nulla, ma questo fa meno impressione, basta avere un letto e un tetto e si supera tutto e poi io non sono schizzinosa.
La mattina successiva Runa ci manda a prendere da un uomo che pensiamo sia l'autista della comunità. È magrissimo, quasi senza denti e le gengive sono arrossate dalla masticazione della pasta di noci di betel, alla quale spesso vengono aggiunte droghe leggere e che produce una salivazione color rosso.
Guardo fuori dal finestrino e vedo un uomo che sputa per terra, sembra che sputi sangue: adesso capisco cos'erano quelle chiazze rosse che vedevo un po' ovunque, sui muri, per terra, sui finestrini...La piccola palazzina dove stanno le donne della Sewa è lontana, Lucknow è grande, ha due milioni di abitanti e non ci sono grattacieli. Attraversiamo quartieri poveri, agglomerati di slum; e poi ci sono i più poveri dei poveri, quelli che vivono nelle tende lungo le strade, tende fatte di stracci raccattati qua e là, alte non più di un metro; dentro, le donne, accucciate, cucinano, mettono al mondo bambini, li allevano, vivono; fuori, gli scarichi delle automobili, degli autobus e la polvere, che entrano direttamente nei loro polmoni.
Runa ci stava aspettando, tutte le donne della comunità sono state avvertite e ci osservano con sguardi tra lo stupore e la curiosità, alcune si scambiano occhiate e ridono divertite. Devo confessare che mi sento un po' in imbarazzo, mi sento proprio un'occidentale, è il mio primo contatto diretto e profondo con le donne indiane, e sento che apparteniamo a due mondi diversi che difficilmente riusciranno a comprendersi. Runa ci presenta e poi riunisce tutte le donne - circa una cinquantina - e in cerchio cantano una specie di inno della Sewa di Lucknow; tra le altre parole, dicono: contro i padroni, libertà; contro lo sfruttamento, libertà; contro il pregiudizio religioso, libertà. Nel vedere e sentire queste piccole e minute donne, avvolte nei loro sari coloratissimi, gli occhi grandi e pieni di speranza, cantare queste parole, arrivo alla commozione massima, quasi al pianto. Il coro si scioglie, Runa ci presenta le donne una per una, e poi ci mostra tutte le attività che si svolgono in comunità. Siamo libere di muoverci, di fotografare. Anna sta filmando con la videocamera. Purtroppo c'è il problema insormontabile della lingua, ma Shabana ci fa da interprete. Sembra che in India l'incomprensione linguistica tra i diversi gruppi etnici sia alla base di incomprensioni più profonde e radicate.
Qui a Lucknow parlano l'urdu, la lingua degli indiani di religione musulmana, o un dialetto di hindi e urdu mischiati. I1 primo reparto che visitiamo è quello degli stampatori. Alcuni uomini stampano a mano, con timbri che riproducono disegni diversi metri e metri di vari tessuti, dal cotone, all'organza, alla più nobile seta. I tessuti passano poi alle tagliatrici, quindi alle cucitrici e, per ultime, alle ricamatrici. Ogni lavoro è fatto rigorosamente a mano.
Solo le cucitrici dispongono di vecchie macchine da cucire, così come insegnava il mahatma. Le kurte (casacche) e i pantaloni e le dupatte (le sciarpe che usano le donne musulmane) vengono così distribuite alle ricamatrici che possono lavorare in casa o recarsi alla comunità: un bel passo avanti, visto che la donna musulmana non può lavorare, né tanto meno entrare in contatto con estranei; la purda (l'isolamento) va rispettata! Dalle mani di queste donne escono abiti meravigliosamente ricamati a mano, e loro su questo ci vivono, mantenendo spesso tutta la famiglia. Ma com'era la situazione prima che arrivasse la Sewa? Il ricamo chikan, tipico di questa città, era estremamente curato e raffinato durante la dominazione britannica. Con l'indipendenza il mercato si apre e l'esecuzione dei ricami non è più accurata. Le donne lavorano molto, ma percepiscono poche rupie (2 rupie ogni kurta prima della Sewa), sono sfruttate dai mediatori che portano e ritirano il lavoro e che spesso sono i presta valute che le finanziano per le materie prime (filo, cotone, ecc.). Le donne sono sempre più indebitate, il giro è vizioso.

800 donne 13 villaggi
Ma nel 1979 l'Unicef finanzia alcune ricerche in India sul lavoro minorile. Lucknow è inclusa, si indaga sull'industria del ricamo chikan. Le condizioni di queste lavoratrici risultano subito disastrose. Con i fondi dell'Unicef e del Sida (la Swedish International Development Agency - agenzia svedese per lo sviluppo internazionale) si avvia nel l982 un progetto per organizzare le donne e migliorarne le condizioni di lavoro e di vita. Nel 1984 nasce la cooperativa Sewa (Self Employment women's Association) Lucknow, che funziona da allora indipendentemente. Oggi ogni donna percepisce 50 rupie per ogni capo che ricama, guadagna settimanalmente in proporzione al lavoro che fa, è incentivata a raggiungere livelli qualitativi sempre più alti e ha diritto anche ad altri servizi accessori quali l'istruzione per sé e i propri figli, l'assistenza sanitaria, e legale, l'asilo nido, ecc. E' un bel passo avanti, tenuto conto della situazione della donna indiana.
"Runa, quante sono oggi le socie della cooperativa?".
"Le donne sono 800 circa, distribuite in 13 villaggi intorno a Lucknow e in Lucknow stessa. Qui c'è uno staff tecnico della Sewa permanente, composto da 15 donne, in più c'è il segretario generale, che sarei io, che è eleggibile annualmente. Per mia sfortuna", continua Runa - ma lo dice ridendo, " sono stata rieletta. Noi le aiutiamo a organizzare il lavoro e nella vendita dei prodotti. Sai, ogni anno facciamo due esportazioni con vendita, una Bombay e una a Delhi".
"È vero", interviene Anna, "io sono stata a una loro esposizione a Delhi, e il pubblico, tutto femminile, composto anche di donne agiate, strappava di mano le kurte e le dupatte".
"Posso vedere qualche cosa di finito?"
"Certo, vieni".

Una donna vestita di bianco
Mi portano nel magazzino. Intere pareti stipate di kurte, dupatte, sari, caffettani, tutti completamente ricamati a mano. Sono bellissimi e decido di fare qualche acquisto per me e per qualche regalo alle amiche. Queste donne sono veramente brave. Mi chiedo come si organizzano economicamente. Runa ci fornisce qualche dato. I ricavi sono passati dai 5 milioni di rupie nel 1985 ai 53 nel 1988; la cooperativa è completamente autogestita e delle 15 donne dello staff sette provengono già dalla cooperativa. La prospettiva futura della Sewa è quella di passare completamente le funzioni del consiglio di amministrazione nelle mani delle donne della cooperativa; inoltre vogliono costruire una sede propria, con un asilo-nido, un negozio,gli uffici commerciali e un ricovero-dormitorio temporaneo per la donna con problemi familiari. Perché qui il sesso femminile ha grossi problemi. Se per caso ti capita di rimanere vedova, sono guai: non hai un lavoro, quindi non sei autosufficiente, perciò pesi economicamente sulla famiglia del marito. Non hai più marito, e questo vuol dire che non sei nessuno. Se ti va bene , cioè se tua suocera è buona con te, rimani nella famiglia acquisita, e fai praticamente la cameriera di tutti (talvolta anche a letto); oppure puoi diventare la moglie di un tuo cognato, ancora celibe. Per molte, l'alternativa è il sati, bruciare sulla pira insieme al marito morto.
Con il sati diventi una santa, una dea e così sarai venerata per sempre. Oggi questa pratica è molto meno diffusa, anche se non si hanno dati certi, soprattutto per quanto riguarda i villaggi, dove è più difficile effettuare controlli. Nella sede della Sewa di Lucknow c'è una donna, vestita di bianco. È una vedova (il bianco, in India, è un colore legato alla morte). Ha 40 anni, un viso dolcissimo che a vent'anni doveva essere molto bello. I capelli sono quasi completamente bianchi e risaltano sulla sua carnagione scura. E' entrata nella Sewa nel 1984, ed è stata la sua salvezza. Fa la tagliatrice, il mestiere forse più difficile e con il suo lavoro si mantiene. Qui sono tutte orgogliose di lei.
"Runa, che rapporti avete con la Sewa di Ahmedhabad?".
"Cerchiamo di camminare con le nostre gambe, non siamo molto in contatto ".

Non solo una banca
Ad Ahmedhabad, stato del Gujarat (e che ha dato i natali a Gandhi), c'è infatti la banca della Sewa, fondata nel 1974.
Nel 1972 alcune donne della capitale gujarata si erano riunite in un sindacato per organizzare e trasformare il lavoro femminile, sottopagato e socialmente sottostimato. Il problema era sempre lo stesso: le donne dipendevano totalmente dai presta valute e dai mediatori che procuravano loro il lavoro. Decidono così di formare delle cooperative di mestiere e chiedono finanziamenti alle banche nazionali, usufruendo di una legge fresca fresca del governo che mirava a incentivare il lavoro autonomo.
Lavorano tanto e così bene che nel 1974, restituiti i prestiti, fondano una banca propria, tutta al femminile, la Shri Mahila Sewa Bahakari Bank. Le prime socie sono 4000 e ciascuna versa un capitale iniziale di 10 rupie (la rupia è pari a circa 90 lire). Le iniziative si moltiplicano, la Sewa non è più solo una banca, in sei stati indiani nascono 26 cooperative, tutte di donne. Le iscritte al sindacato sono oggi 40mila e le socie - e azioniste - della banca di Ahmedhabad nel 1988 erano 77.329, con 23.156 libretti di risparmio e un capitale liquido passato da 332.231 rupie nel 1975 a 14.931.000 nel 1988. Le cooperative sono costituite dalle lavoratrici che versando una quota di capitale ne diventano membri a tutti gli effetti. Sono quindi collettivamente proprietarie del proprio lavoro e delle attrezzature e dei macchinari.
Lo staff tecnico della Sewa assiste le donne in ogni loro attività, dall'acquisto delle materie prime alle relazioni con il mercato; insegna loro come si spuntano i prezzi migliori e come si fa di conto. Infatti nei consigli di amministrazione cominciano a entrare le socie della cooperativa, ex-analfabete oggi in grado di reggersi sulle proprie gambe. La Sewa-Lucknow è una delle 26 cooperative, e come abbiamo visto la produzione si basa sul ricamo chikan. La peculiarità della Sewa è proprio quella di individuare quelli che da sempre sono i settori merceologici tipici di una zona (dal ricamo alla tessitura, alla falegnameria, alla vendita di ortaggi e frutta, pesce, latte, alle produzioni artigianali di ceramica, patchwork, e così via) e organizzare intorno a questi il lavoro delle donne. Con successo.
Così, tra una chiacchiera e l'altra, è arrivata l'ora del pranzo. Runa ha ordinato per noi in un vicino ristorante un ottimo pasto cinese, naturalmente molto piccante. Fra poco ci sarà una riunione perché alcune donne dei villaggi vicini hanno chiesto un incontro per discutere sul pagamento di alcune kurte. Runa sostiene che il lavoro è stato eseguito male e non è stato possibile ottenere buoni prezzi sul mercato. Le donne cominciano ad arrivare a piccoli gruppi, sono quasi tutte vestite di nero e portano il velo, che però poi sollevano, essendo noi tutte donne. Alla riunione partecipiamo anche noi in qualità di osservatrici, anche perché ci è impossibile comprendere anche solo una parola di urdu. Sono circa centocinquanta e agguerrite. Non hanno certo l'atteggiamento passivo e un po' ritroso che ci si potrebbe aspettare. La discussione dura almeno due ore, ma si giunge a una mediazione. Il lavoro sarà pagato loro regolarmente, ma in futuro dovranno fare più attenzione. Lo staff della Sewa punta molto sulla qualità dei prodotti, proprio per alzare i prezzi e incrementare i guadagni, a tutto vantaggio della cooperativa. Il meeting si chiude con un'offerta di the e il grido di alcuni slogan, tra cui le parole dell'inno che la mattina avevano cantato per noi.
Ormai è buio, la sera scende presto, è ora di tornare nel nostro albergo. Ma abbiamo appuntamento con Runa a cena. Organizziamo per l'indomani mattina la visita in uno degli slum in cui abitano alcune donne della Sewa.
Per andare in questo villaggio dobbiamo noleggiare un taxi per alcune ore. La contrattazione del prezzo ci porta via un po' di tempo e ci lascia come sempre arrabbiate con noi stesse e con il tassista. La sensazione è quella della fregatura, perché siamo occidentali, bianche e donne. Certo, loro sono poveri e 100 rupie in più per me non sono niente. Il problema è che sono stati proprio i turisti occidentali a stravolgere tutte le loro regole di mercato non dette. L'offerta di mance generose e il pagamento di prezzi alti, che spesso corrispondono a una paga mensile di un indiano, ha causato una specie di avidità e di generalizzazione per cui tutti i turisti sono ricchi. Invece bisognerebbe adeguarsi alle loro regole di mercato: Runa usava avvertirci dell'importo delle tariffe dei risciò a pedali, raccomandandoci di non pagare una rupia di più.
Regola che noi contravvenivamo immediatamente, perché farsi scarrozzate su un risciò a pedali, guidato da un indiano magro e macilento, era terribilmente imbarazzante. Ma era l'unico mezzo di trasporto e se non ne avessimo usufruito noi, l'avrebbe fatto qualche altro indiano, che non sarebbe stato altrettanto generoso.
Nel villaggio siamo subito attorniate da gruppi di ragazzini incuriositi, che ci accompagneranno per tutta la nostra permanenza. Le strade sono di terra battuta e ai lati scorrono i canali della fogna scoperta. L'odore acre dell'orina umana si mischia a quello del letame delle vacche che viene lasciato a essiccare sui muri delle case e che sarà usato poi come combustibile. Il caldo accentua l'odore, le mosche ronzano intorno ai cumuli di rifiuti. La percentuale di infezioni, soprattutto agli occhi, contratte dagli abitanti in questi villaggi è altissima. Le socie della Sewa hanno diritto anche all'assistenza sanitaria: due medici si recano ogni settimana nei villaggi e vengono pagati con una cifra simbolica; perché parte del ricavo della cooperativa viene usato per coprire le spese in eccedenza. Da quando la Sewa è entrata in questi villaggi alcune cose sono migliorate. Qui, ben 500 bambini ora possono frequentare la scuola, anche questa organizzata dalla Sewa; molte famiglie prima dormivano su giacigli in terra, ora hanno potuto comprare qualche mobile e qualche suppellettile per la cucina e, soprattutto, il loro fabbisogno alimentare ora viene rispettato.
Lasciamo il villaggio verso l'una e torniamo alla sede della cooperativa. Oggi è domenica, l'attività è ridotta, quasi tutte le donne sono nelle loro case. Giriamo l'ultimo pezzo della pellicola intervistando Runa. Ora che l'ho conosciuta meglio, posso dire che è una donna con una notevole personalità e di grande autorevolezza, non faccio che ripeterle che è una "strong person" e che di donne come lei se ne trovano poche persino in Occidente. "Vedrai quelle di Ahmedhabad", mi dice Anna. Non ne vedo l'ora.
La prima parte del mio passaggio in India si conclude con il rientro a Delhi. Ora mi aspetta Jaipur, prima tappa di una ricerca parallela, quella del movimento sarvodaya. Trarre conclusioni dalla visita alle donne di Lucknow mi sembrerebbe retorico. Dire che sono stati giorni entusiasmanti per una "vecchia" militante un po' delusa e annoiata dai catatonici anni Ottanta forse non rende l'idea, né l'atmosfera, né trasmette la sensazione, provata per la prima volta, di verificare che è possibile costruire una vita parallela e alternativa alla società che funziona, economicamente e socialmente. Non sono stata su Anarres, ma lasciatemi l'illusione di aver trovato là ciò che cercavo qui.