Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 174
giugno 1990


Rivista Anarchica Online

Malatesta in Italia, 1920
di Maurizio Antonioli

E' imminente l'uscita, per i tipi delle edizioni La Fiaccola (c/o Franco Leggio, via San Francesco 238, 97100 Ragusa), del volume La nota persona (sottotitolo: "Errico Malatesta in Italia - dicembre 1919 / luglio 1920"). Ne è autore un redattore della nostra rivista, Paolo Finzi.
Il volume (176 pagg., 15.000 lire) segue passo passo l'attività rivoluzionaria dell'anarchico campano dal suo avventuroso e contrastato ritorno in Italia dopo oltre cinque anni di esilio, fino al congresso di Bologna dell'Unione Anarchica Italiana.
Pubblichiamo qui di seguito la prefazione di Maurizio Antonioli, storico del movimento operaio e di quello anarchico e sindacalista rivoluzionario in particolare.


Malatesta e il 1920: un binomio inseparabile, eppure non sempre considerato dalla maggior parte degli storici dell'età contemporanea con la dovuta attenzione. Non voglio, con questo, unirmi al consueto coro di lamentele, così frequente nelle pubblicazioni anarchiche, sui torti della cosiddetta storiografia ufficiale. Non solo perché non credo che ne esista una, ma perché è evidente che anche la ricostruzione storica è frutto delle opzioni culturali dominanti, e certamente una cultura anche solo libertaria ha ricoperto e ricopre tuttora un ruolo fortemente minoritario. Soprattutto, all'interno di un'ottica strettamente istituzionale, la figura di Malatesta trova difficoltà ad essere collocata perché i suoi punti di riferimento non sono quelli consueti dei partiti o dei sindacati; non si inserisce nel quadro politico tradizionale. Il movimento anarchico del primo dopoguerra, del resto, nonostante il tentativo di darsi una maggiore organicità con la costituzione dell'Unione Comunista Anarchica Italiana nel 1919, poi Unione Anarchica Italiana, rimane un complesso microcosmo di tendenze, che non può essere affrontato alla stregua di un qualunque partito, proprio per la sua mancanza di sedi istituzionali. La UAI rappresenta una corrente, quella definibile comunista organizzatrice, dell'anarchismo, ma non mira all'egemonia e riesce a coesistere con le altre anime del movimento. Se, talvolta, il livello della polemica tra le diverse tendenze, o addirittura, tra i singoli individui, è elevato, il dato di fatto predominante è la consapevolezza da parte degli anarchici dell'irriducibilità dell'anarchismo ad un fenomeno compatto, omogeneo e soprattutto che ogni espressione libertaria ha diritto ad esistere in piena autonomia senza dover sottostare al gioco delle maggioranze e delle minoranze.
Di tutto questo, in fondo, Malatesta è un po' l'espressione. Non certo perché il suo anarchismo non fosse politicamente orientato in senso ben preciso: comunista, organizzatore, ma lontano da tentazioni sindacaliste. Ma perché il vecchio internazionalista costituiva il punto di riferimento di tutti gli anarchici, anche di quelli che la pensavano diversamente da lui. Privo di qualunque settarismo non aveva mai posto limiti alla collaborazione con gli anarchici di altre tendenze, pur nella chiarezza di vedute. A differenza di quanto accadeva in altri ambiti politici, ad esempio nel Partito socialista, dove i leader erano leader di correnti, Malatesta, per gli anarchici, era qualcosa di più e di meno nello stesso tempo. Non un capo politico, ruolo improponibile tra gli anarchici e inaccettabile per Malatesta stesso, ma, in un certo qual modo, l'elemento di equilibrio, la stella polare della costellazione anarchica.
Va però aggiunto che la figura di Malatesta non suscitava entusiasmo soltanto tra gli anarchici. Era, potremmo dire, patrimonio collettivo delle masse. Nessun altro agitatore, nessun altro oppositore politico fu al centro di così ampie manifestazioni popolari come Malatesta. Nel 1919 per rendere possibile il suo ritorno in Italia, nel 1920 (o meglio dalla fine di dicembre del '19) per festeggiare il suo avvenuto rimpatrio. Ma, ancora, di nessun altro "sovversivo" il governo italiano ebbe timore come di Malatesta. Le difficoltà frapposte dalle autorità al suo rientro ne sono ampia testimonianza. E non si può dire che non ne avessero motivi. Il lungo tour di propaganda effettuato da Malatesta agli inizi del '20 e le accoglienze entusiastiche che gli venivano tributate in tutte le piazze d'Italia ne sono la riprova più lampante. Se qualcuno, insomma, poteva rappresentare, fisicamente e simbolicamente nello stesso tempo, "il fronte unico" del proletariato in quel convulso periodo postbellico, questi era sicuramente - soltanto - Malatesta.
La straordinaria popolarità di Malatesta è un dato ancor più rilevante, e curioso al tempo stesso, se si tiene conto che, fino ad allora, Malatesta aveva vissuto più tempo all'estero che in Italia. Dopo l'espatrio nel 1885, per sottrarsi ad una condanna, e a parte una breve sosta clandestina nel 1891 in occasione del 10 maggio, l'anarchico campano aveva trascorso solo due periodi relativamente brevi in Italia: dagli inizi del 1897, con la fondazione de "l'Agitazione" di Ancona, fino all'arresto nel gennaio del '98 e alla fuga nel maggio '99 dal domicilio coatto di Lampedusa; e poi ancora nel 1913-14 fino alla Settimana rossa. Eppure, nonostante ciò, si può dire che nel 1919-20 rappresentasse, per il proletariato italiano, un sorta di mito. Forse proprio questa sua straordinaria carriera di rivoluzionario e di perseguitato politico aveva creato intorno a lui una specie di alone leggendario.
Il lavoro di Finzi documenta con chiarezza le tappe dell'evolversi del mito malatestiano nel primo dopoguerra. La campagna per il suo rientro, guidata da Borghi e dall'Unione Sindacale Italiana con la partecipazione di tutta "l'estrema", le trionfali accoglienze al suo ritorno, a partire dalla manifestazione di Genova del 27 dicembre 1919, via via per Sestri Ponente, Torino, Milano, l'Emilia Romagna, ecc. Ed è significativo, a riprova della straordinaria capacità di Malatesta di mediare tra le varie tendenze dell'anarchismo, che accanto a lui, in più occasioni, ci fossero personaggi come Galleani, Borghi e Renato Siglich (Souvarine), espressione di correnti molto diverse tra loro. Dicevo mediare. Ma non è la parola adatta. Più che mediare Malatesta era capace di valutare con estrema onestà politica la coerenza libertaria di coloro che pure erano su un'altra lunghezza d'onda. Ed anche questa qualità, unita ad una chiarezza di idee che non sconfinava mai nella supponenza e non alimentava mai polemiche astiose, come capitava spesso nel mondo della sinistra italiana, furono senza dubbio alla base del mito di cui parlavo prima. Va detto però, come ricorda Finzi, che fu proprio lo stesso Malatesta a ribellarsi a quel tentativo generoso ma altrettanto pericoloso di costruirgli un metaforico mausoleo quando era ancora in vita. Quello che fu definito il "Lenin d'Italia" (con un certo suo fastidio) fortunatamente il mausoleo non l'ebbe neppure da morto. L'attività di Malatesta nel 1920 si condensa tutta nell'incessante propaganda e nella direzione di "Umanità Nova", il giornale quotidiano del movimento (anche in questo caso, non di una tendenza) edito appunto agli inizi dell'anno. A parte, il breve "incidente" di Tombolo, Malatesta riuscì a godere in quei mesi, come non mai, di una completa libertà politica, in un clima di viva speranza rivoluzionaria. Ma con l'esaurirsi della fase ascendente, dopo la fine dell'occupazione delle fabbriche, fu il primo, insieme con Borghi, a cadere nelle maglie della giustizia. Arrestato nell'ottobre, avrebbe trascorso lunghi mesi in carcere per essere poi assolto e scarcerato, nel luglio del '21 , quando la strage del Diana e la marea montante del fascismo avevano avviato la crisi del movimento anarchico.
Il lavoro di Finzi non si spinge fino all'arresto. Si ferma prima, al congresso bolognese della UAI, agli inizi di luglio. Siamo ancora in una fase di ascesa, di illusione. Il movimento anarchico non era mai stato così forte dai tempi della Prima Internazionale, il momento non era parso mai così propizio per la realizzazione di un progetto rivoluzionario. Non è il caso di spiegare in questa sede che probabilmente il desiderio agiva da specchio deformante e la realtà era ben diversa. Ma non si può neppure addebitare a Malatesta di non aver visto quello che anche gli altri non vedevano.
Per chi non accettava la logica della politica tradizionale, degli equilibri di potere, non c'erano molte vie d'uscita, se non quella di premere l'acceleratore dell'"automobile rossa". E non è solo una metafora la mia. L'auto "rossa" esisteva davvero ed era quella con cui Malatesta e Borghi battevano l'Emilia-Romagna. Ma "l'automobile rossa" non poteva fare corsa a sé. Aveva bisogno del supporto dei socialisti, o meglio dell'ala massimalista. Il tentativo di creare una base d'intesa con quest'ultima è in fondo l'esperienza più logorante di tutto il periodo, non solo per Malatesta, ma per Borghi e molti altri. Se la guerra, l'internazionalismo, l'entusiasmo per la rivoluzione russa aveva avvicinato anarchici e socialisti, la situazione del dopoguerra, gli sviluppi della III Internazionale, la visione complessiva del processo storico tendevano ad allontanarli. Il "fronte unico", che fosse pur "dal basso" o "nell'azione" come preferiva l'USI, era soltanto una suggestiva parola d'ordine. Del resto, non sarebbe stato facile accordarsi neppure con chi sosteneva la necessita della collaborazione tra socialisti ed anarchici, una "collaborazione franca e leale di due forze politiche, basata su problemi concreti proletari", a condizione però che gli anarchici rivedessero "i loro criteri tattici tradizionali", per essere semplicemente "più liberi spiritualmente". Chissà se Gramsci la penserebbe ancora così, oggi, sulla maggiore libertà spirituale.
Ma, tornando a Malatesta e al lavoro di Finzi, bisogna sottolineare come occuparsi di quel "fanciullino" (sempre per usare il linguaggio polemico di Gramsci) non sia pura archeologia storica o semplice spirito di parte, anche se lo spirito di parte è evidente in Finzi.
Malatesta è una, certo non l'unica, nemmeno la più importante, ma sicuramente significativa, delle chiavi per comprendere un periodo cruciale ed amaro della nostra storia. Ammesso poi che capire la storia serva e sia servito a qualcosa, se non appunto agli storici.