Rivista Anarchica Online
Malatesta in Italia, 1920
di Maurizio Antonioli
E' imminente l'uscita, per i tipi
delle edizioni La Fiaccola (c/o Franco Leggio, via San Francesco 238,
97100 Ragusa), del volume La nota persona (sottotitolo:
"Errico Malatesta in Italia - dicembre 1919 / luglio 1920").
Ne è autore un redattore della nostra rivista, Paolo Finzi. Il volume (176 pagg., 15.000 lire)
segue passo passo l'attività rivoluzionaria dell'anarchico
campano dal suo avventuroso e contrastato ritorno in Italia dopo
oltre cinque anni di esilio, fino al congresso di Bologna dell'Unione
Anarchica Italiana. Pubblichiamo qui di seguito la
prefazione di Maurizio Antonioli, storico del movimento operaio e di
quello anarchico e sindacalista rivoluzionario in particolare.
Malatesta e il 1920: un binomio
inseparabile, eppure non sempre considerato dalla maggior parte degli
storici dell'età contemporanea con la dovuta attenzione. Non
voglio, con questo, unirmi al consueto coro di lamentele, così
frequente nelle pubblicazioni anarchiche, sui torti della cosiddetta
storiografia ufficiale. Non solo perché non credo che ne
esista una, ma perché è evidente che anche la
ricostruzione storica è frutto delle opzioni culturali
dominanti, e certamente una cultura anche solo libertaria ha
ricoperto e ricopre tuttora un ruolo fortemente minoritario.
Soprattutto, all'interno di un'ottica strettamente istituzionale, la
figura di Malatesta trova difficoltà ad essere collocata
perché i suoi punti di riferimento non sono quelli consueti
dei partiti o dei sindacati; non si inserisce nel quadro politico
tradizionale. Il movimento anarchico del primo dopoguerra, del resto,
nonostante il tentativo di darsi una maggiore organicità con
la costituzione dell'Unione Comunista Anarchica Italiana nel 1919,
poi Unione Anarchica Italiana, rimane un complesso microcosmo di
tendenze, che non può essere affrontato alla stregua di un
qualunque partito, proprio per la sua mancanza di sedi istituzionali.
La UAI rappresenta una corrente, quella definibile comunista
organizzatrice, dell'anarchismo, ma non mira all'egemonia e riesce a
coesistere con le altre anime del movimento. Se, talvolta, il livello
della polemica tra le diverse tendenze, o addirittura, tra i singoli
individui, è elevato, il dato di fatto predominante è
la consapevolezza da parte degli anarchici dell'irriducibilità
dell'anarchismo ad un fenomeno compatto, omogeneo e soprattutto che
ogni espressione libertaria ha diritto ad esistere in piena autonomia
senza dover sottostare al gioco delle maggioranze e delle minoranze. Di tutto questo, in fondo, Malatesta
è
un po' l'espressione. Non certo perché il suo anarchismo non
fosse politicamente orientato in senso ben preciso: comunista,
organizzatore, ma lontano da tentazioni sindacaliste. Ma perché
il vecchio internazionalista costituiva il punto di riferimento di
tutti gli anarchici, anche di quelli che la pensavano diversamente da
lui. Privo di qualunque settarismo non aveva mai posto limiti alla
collaborazione con gli anarchici di altre tendenze, pur nella
chiarezza di vedute. A differenza di quanto accadeva in altri ambiti
politici, ad esempio nel Partito socialista, dove i leader erano
leader di correnti, Malatesta, per gli anarchici, era qualcosa di più
e di meno nello stesso tempo. Non un capo politico, ruolo
improponibile tra gli anarchici e inaccettabile per Malatesta stesso,
ma, in un certo qual modo, l'elemento di equilibrio, la stella polare
della costellazione anarchica.
Va però aggiunto che la figura
di Malatesta non suscitava entusiasmo soltanto tra gli anarchici.
Era, potremmo dire, patrimonio collettivo delle masse. Nessun altro
agitatore, nessun altro oppositore politico fu al centro di così
ampie manifestazioni popolari come Malatesta. Nel 1919 per rendere
possibile il suo ritorno in Italia, nel 1920 (o meglio dalla fine di
dicembre del '19) per festeggiare il suo avvenuto rimpatrio. Ma,
ancora, di nessun altro "sovversivo" il governo italiano
ebbe timore come di Malatesta. Le difficoltà frapposte dalle
autorità al suo rientro ne sono ampia testimonianza. E non si
può dire che non ne avessero motivi. Il lungo tour di
propaganda effettuato da Malatesta agli inizi del '20 e le
accoglienze entusiastiche che gli venivano tributate in tutte le
piazze d'Italia ne sono la riprova più lampante. Se qualcuno,
insomma, poteva rappresentare, fisicamente e simbolicamente nello
stesso tempo, "il fronte unico" del proletariato in quel
convulso periodo postbellico, questi era sicuramente - soltanto -
Malatesta.
La straordinaria popolarità di
Malatesta è un dato ancor più rilevante, e curioso al
tempo stesso, se si tiene conto che, fino ad allora, Malatesta aveva
vissuto più tempo all'estero che in Italia. Dopo l'espatrio
nel 1885, per sottrarsi ad una condanna, e a parte una breve sosta
clandestina nel 1891 in occasione del 10 maggio, l'anarchico campano
aveva trascorso solo due periodi relativamente brevi in Italia: dagli
inizi del 1897, con la fondazione de "l'Agitazione" di
Ancona, fino all'arresto nel gennaio del '98 e alla fuga nel maggio
'99 dal domicilio coatto di Lampedusa; e poi ancora nel 1913-14 fino
alla Settimana rossa. Eppure, nonostante ciò, si può
dire che nel 1919-20 rappresentasse, per il proletariato italiano, un
sorta di mito. Forse proprio questa sua straordinaria carriera di
rivoluzionario e di perseguitato politico aveva creato intorno a lui
una specie di alone leggendario.
Il lavoro di Finzi documenta con
chiarezza le tappe dell'evolversi del mito malatestiano nel primo
dopoguerra. La campagna per il suo rientro, guidata da Borghi e
dall'Unione Sindacale Italiana con la partecipazione di tutta
"l'estrema", le trionfali accoglienze al suo ritorno, a
partire dalla manifestazione di Genova del 27 dicembre 1919, via via
per Sestri Ponente, Torino, Milano, l'Emilia Romagna, ecc. Ed è
significativo, a riprova della straordinaria capacità di
Malatesta di mediare tra le varie tendenze dell'anarchismo, che
accanto a lui, in più occasioni, ci fossero personaggi come
Galleani, Borghi e Renato Siglich (Souvarine), espressione di
correnti molto diverse tra loro. Dicevo mediare. Ma non è la
parola adatta. Più che mediare Malatesta era capace di
valutare con estrema onestà politica la coerenza libertaria di
coloro che pure erano su un'altra lunghezza d'onda. Ed anche questa
qualità, unita ad una chiarezza di idee che non sconfinava mai
nella supponenza e non alimentava mai polemiche astiose, come
capitava spesso nel mondo della sinistra italiana, furono senza
dubbio alla base del mito di cui parlavo prima. Va detto però,
come ricorda Finzi, che fu proprio lo stesso Malatesta a ribellarsi a
quel tentativo generoso ma altrettanto pericoloso di costruirgli un
metaforico mausoleo quando era ancora in vita. Quello che fu definito
il "Lenin d'Italia" (con un certo suo fastidio)
fortunatamente il mausoleo non l'ebbe neppure da morto. L'attività
di Malatesta nel 1920 si condensa tutta nell'incessante propaganda e
nella direzione di "Umanità Nova", il giornale
quotidiano del movimento (anche in questo caso, non di una tendenza)
edito appunto agli inizi dell'anno. A parte, il breve "incidente"
di Tombolo, Malatesta riuscì a godere in quei mesi, come non
mai, di una completa libertà politica, in un clima di viva
speranza rivoluzionaria. Ma con l'esaurirsi della fase ascendente,
dopo la fine dell'occupazione delle fabbriche, fu il primo, insieme
con Borghi, a cadere nelle maglie della giustizia. Arrestato
nell'ottobre, avrebbe trascorso lunghi mesi in carcere per essere poi
assolto e scarcerato, nel luglio del '21 , quando la strage del Diana
e la marea montante del fascismo avevano avviato la crisi del
movimento anarchico.
Il lavoro di Finzi non si spinge fino
all'arresto. Si ferma prima, al congresso bolognese della UAI, agli
inizi di luglio. Siamo ancora in una fase di ascesa, di illusione. Il
movimento anarchico non era mai stato così forte dai tempi
della Prima Internazionale, il momento non era parso mai così
propizio per la realizzazione di un progetto rivoluzionario. Non è
il caso di spiegare in questa sede che probabilmente il desiderio
agiva da specchio deformante e la realtà era ben diversa. Ma
non si può neppure addebitare a Malatesta di non aver visto
quello che anche gli altri non vedevano. Per chi non accettava la logica della
politica tradizionale, degli equilibri di potere, non c'erano molte
vie d'uscita, se non quella di premere l'acceleratore
dell'"automobile rossa". E non è solo una metafora
la mia. L'auto "rossa" esisteva davvero ed era quella con
cui Malatesta e Borghi battevano l'Emilia-Romagna. Ma "l'automobile
rossa" non poteva fare corsa a sé. Aveva bisogno del
supporto dei socialisti, o meglio dell'ala massimalista. Il tentativo
di creare una base d'intesa con quest'ultima è in fondo
l'esperienza più logorante di tutto il periodo, non solo per
Malatesta, ma per Borghi e molti altri. Se la guerra,
l'internazionalismo, l'entusiasmo per la rivoluzione russa aveva
avvicinato anarchici e socialisti, la situazione del dopoguerra, gli
sviluppi della III Internazionale, la visione complessiva del
processo storico tendevano ad allontanarli. Il "fronte unico",
che fosse pur "dal basso" o "nell'azione" come
preferiva l'USI, era soltanto una suggestiva parola d'ordine. Del
resto, non sarebbe stato facile accordarsi neppure con chi sosteneva
la necessita della collaborazione tra socialisti ed anarchici, una
"collaborazione franca e leale di due forze politiche, basata su
problemi concreti proletari", a condizione però che gli
anarchici rivedessero "i loro criteri tattici tradizionali",
per essere semplicemente "più liberi spiritualmente".
Chissà se Gramsci la penserebbe ancora così, oggi,
sulla maggiore libertà spirituale.
Ma, tornando a Malatesta e al lavoro di
Finzi, bisogna sottolineare come occuparsi di quel "fanciullino"
(sempre per usare il linguaggio polemico di Gramsci) non sia pura
archeologia storica o semplice spirito di parte, anche se lo spirito
di parte è evidente in Finzi.
Malatesta è una, certo non
l'unica, nemmeno la più importante, ma sicuramente
significativa, delle chiavi per comprendere un periodo cruciale ed
amaro della nostra storia. Ammesso poi che capire la storia serva e
sia servito a qualcosa, se non appunto agli storici.
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