A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Cinema vilipeso, documentari contraffatti
Nella gerarchia dei generi cinematografici al documentario spettano infimi scantinati. Non si spiegherebbe
altrimenti il fatto che, se uno decide di andare a vedere Atlantis di Luc Besson,
innanzitutto lo trova classificato
dal giornale come film "avventuroso", poi deve far tornare i conti sia con un cartello, apposto all'ingresso, che
lo avvisa che "questo film è un documentario" o sia con uno slogan pubblicitario che magnifica
"L'ultima
straordinaria avventura del regista di Nikita". Quando il livello della contraddizione è tale,
quando si ha infierito
fino a questi punti, un minimo di senso di colpa a qualcuno dovrebbe rimanere. Per qualcuno, evidentemente,
la nozione di "documentario" fa a pugni con quella spettacolarità da cui ogni film che si rispetti,
secondo questo
qualcuno, non dovrebbe mai disgiungersi. Assunti penosi che insultano il buon senso di noi spettatori. Che,
poi, sulla nozione di "documentario" pesino presupposti ideologici anche più consistenti (il documento
che attesterebbe "storia", "realtà," o "verità" di qualcosa di contrapposto alla fiction e che in
merito alla
contrapposizione godrebbe di valore universale) è un ulteriore segno della delicatezza del tema - e
questo film
di Besson capita giusto a puntino per verificarne certe evoluzioni. Il documentario avente per oggetto il
mare e la vita marina è nato come discorso, come forma argomentativa
esplicita sulle bellezze nascoste e sulle morali che governerebbero biologie misconosciute. In esso c'è
l'ambiguità della morale antropomorfica coniugata alla logica consolatoria: impara da loro, guarda cosa
ti stai
perdendo. Una natura ridotta a merce e il rito del sospiro di rimpianto prima di appiccicarci sopra il cartellino
del prezzo. Si comincia con un Sesto continente (anni Cinquanta, Folco Quilici) e si finisce
- uscendo anche dal mare, ma
sguazzando nel vieppiù inquinato - con Mondo cane (anni Sessanta, Gualtiero Jacopetti).
Si finisce tanto male
che le Ultime grida dalla savana sembra siano state di qualcuno che, ignaro, fosse stato immolato
alle esigenze
del cinema occidentale. Dietro chi "presenta," o mercantilizza il monstrum, la meraviglia e la perla rara o
l'ultimo esemplare di qualsiasi serie, c'è il ghigno della speculazione e il peggio del paradigma
reazionario. Grossomodo il rischio non si corre con Atlantis, che, più che parlare,
allude, senza alcun ricorso al patrimonio
verbale, mentre attinge a piene mani a quello musicale. La regola che Besson si è imposto prevede
immagini
solo "interne" al marino (tranne una - la sola, lontanissima, traccia di artificio umano: un vaporetto che solca
le onde, visto da qualche centinaio di metri di altezza -, in chiusura), nemmeno una parola di commento e
associazioni di animali e musica. Serpenti, squali, testuggini, foche o piovre vengono così "interpretati"
in grazia
di disco-music, rock, liricheggiamenti, sinfonie o polifonie religiose che fungerebbero da cartine di tornasole
per far emergere significati etologici o puri momenti di fruizione estetica. Se la cultura cinematografica del
sesto continente ha raschiato il barile del mirabile, Besson non se ne preoccupa
perché - più da poeta che da cronista (tanto meno da scienziato) - rovescia l'ideologia del
documentario e coltiva
l'immagine per la tecnica (ecco il mirabile adatto al 1992) con la quale l'ottiene. Il mezzo e il suono che ne
enfatizza l'uso sono lo spettacolo. Il fatto che il mare cui volgo l'occhio io faccia schifo, che sia un putridume
confezionato di ombrelloni, boe e pedalò per le vittime dell'ideologia turistica, e che di questo mio mare
non
si faccia cenno - preferendogli un mare limpido e vitale, da "enciclopedia" - non può venirgli imputato
come
colpevole omissione. Perché, per l'appunto, Atlantis potrà essere classificato in
molti modi, ma mai come
documentario.