A proposito del "Noi non ci saremo", di Paolo Finzi, pubblicato sullo scorso numero di
"A".
L'ho letto due volte a distanza di pochi giorni, la seconda per tentare di spiegare o dissipare la sensazione di
fastidio provocata dalla prima lettura. Sensazione che mi spiego così: pareva doveroso - veramente
irrinunciabile - un richiamo all'astensione in periodo elettorale.
Doveroso sia per tradizione che per definizione.
Poi alla seconda lettura mi sono accorta che non si trattava di un appello all'astensione; mancava qui la smaccata
contro-propaganda (sempre come vorrebbe la tradizione) che mi è sempre sembrata un approccio
schematico
e riduttivo tristemente paragonabile all'opposto proselitismo. Paolo tuttavia (tutt'al più) spiega la sua
pur
"tradizionale scelta astensionista" con argomentazioni largamente condivisibili, soprattutto se partono da chi
sceglie (ha scelto) di partecipare alla vita sociale e non si accontenta di un ghettizzante ossequio ai sacri dettami
di qualche testo o personalità fondatrice.
Allora, di fronte a una posizione critica e individuale e non meramente fideistica, decido di confrontare la mia,
molto più confusa e in via di definizione. Non ho ancora deciso se votare o no a queste elezioni (la mia
breve
tradizione elettorale comprende 1 voto e 2 non-voti). Non credo nel sistema di rappresentanza politica
occidentale. E veramente credo che siano rimasti in pochi a crederci davvero. Eppure un'alternativa non appare
tangibile. L'alternativa - concordo con Paolo- sono i mezzi di espressione della società civile quali
azione diretta
e gestione dal basso. Ma c'è qualche perplessità. La tanto declamata iniziativa popolare non
è affatto sacra o
buona per definizione (intrinsecamente). Attualmente mi sembra che funzioni solo quando si tratti di difendere
in modo corporativistico i propri interessi e privilegi, approfittando con la tipica furbizia tutta italiana della
situazione di marasma istituzionale. Inutile dire che un'ottica del genere non è certo di cambiamento,
perlomeno
non nel senso che intendo io. Anche perché c'è subito qualcuno che muore dalla voglia di
rappresentare questo
o quel movimento corporativo e cavalcare l'ondata del dissenso settoriale purché rimanga tale (vedi
leghe).
L'unico modo che confusamente vedo perché i movimenti locali escano dalla clandestinità e
da una logica
grettamente parassitaria è quello di conquistare i famosi spazi di "libertà" estendendoli,
facendosi pratica. Dice
lucidamente Piergiorgio Bellocchio che una insurrezione dal basso verrebbe stroncata dalla classe media molto
più inferocita di qualsiasi squadra di celerini che avrebbero molto meno da perdere in un eventuale
sovvertimento sociale. Dunque queste concessioni, embrioni di autonomia, è più facile
strapparli al sistema o
alla classe media arroccata per il mantenimento dello status quo e dei propri privilegi? Non ho una
risposta.
Altri elementi di perplessità rispetto all'astensione in queste elezioni. La situazione è veramente
caotica e
chiaramente degenerata, più che in altri momenti. Anziché gioire di questo marasma che
sicuramente è spia del
malessere istituzionale ma anche occasione di appelli all'ordine meglio giustificabili, io mi sento moralmente
obbligata a cercare di orientarmi.
Devo cercare di capirci qualcosa e distinguere quando si fa di tutto per confondere. Dunque, anche se non voto,
ho delle preferenze e seguo con più interesse l'andamento della sinistra più a sinistra. Paolo dice
che il problema
è che il potere non ammette deroghe, stritola e basta anche quelli che partono animati da tensioni al
cambiamento. Sì, ma com'è possibile che questa concezione del potere si possa estendere alla
maggioranza?
Senza entrare in discorsi filosofico-antropologici sulle nefaste propensioni dell'uomo al dominio, come
può una
certezza di ordine astratto arrivare a influire sulle scelte quotidiane della gente? Possiamo rappresentare il potere
come un mostro dalle fauci spalancate che attende il singolo (elettore o candidato) alle soglie della cabina
elettorale?
E se i candidati migliori (le persone più in buona fede) sentissero la necessità di sacrificarsi per
mediare tra la
politica della camera e del senato e quella della gente (della società civile)?
Io ho 23 anni e francamente non mi sento di attribuire un'eccessiva dose di ingenuità a tutti quelli che
decidono
di entrare nelle istituzioni per trasformarle.
Se andrò a votare, sarò sicuramente incoerente con le mie più alte aspirazioni. Ma posso
decidere di abbassare
il tiro. Se andrò a votare, è solo perché stavolta rispetto alle ragioni profonde di sfiducia
e di limite ai
compromessi si impone la stima in un candidato che finalmente conosco bene, una delle persone più
oneste che
mi sia capitato di incontrare.
Vorrei sentirmi libera di infrangere almeno le mie regole.