Rivista Anarchica Online
Pane e pupazzo
di Cristina Valenti
E' questa la traduzione di Bread and Puppet, nome di un eccezionale gruppo teatrale fondato da Peter Schumann
negli USA nel 1963. Un trentennio di originali rappresentazioni di strada e di impegno politico nel resoconto
della nostra collaboratrice Cristina Valenti, che quest'estate è tornata a trovarli nella loro
fattoria-laboratorio nel Vermont. Seguono alcuni brani di Peter Schumann.
Sono tornata alla fattoria del Bread and Puppet l'estate scorsa, a quattro anni dalla
mia prima visita, per il
festival del 1988. Era domenica, e c'era spettacolo, i pochi membri stabili del gruppo avevano collaborato con
alcuni musicisti e un coro residente nel Vermont per la realizzazione di uno dei loro classici spettacoli di
"Circo", nel grande prato di fronte alla fattoria, e per una rappresentazione con maschere e pupazzi, nel teatrino
dentro al bosco. Due spettacolini deliziosi, con molti bambini e attori quasi tutti dilettanti, che traducevano in
termini di poetico divertissement amatoriale la straordinaria sapienza teatrale del Bread and Puppet: le
invenzioni coreografiche, le macchinerie sceniche, l'uso dei grandi spazi che hanno fatto di questo gruppo una
delle leggende degli anni '60 e '70. Ma lo svago amatoriale contiene in realtà qualcosa di più
profondo: un
impegno instancabile di pedagogia teatrale, un'etica della professione che ha trasformato questo gruppo in
laboratorio
permanente, comunità di vita e di lavoro aperta a quanti vogliano trascorrervi qualche tempo per
imparare l'arte
dei pupazzi, collaborare a uno spettacolo, partecipare all'organizzazione del festival.
Pochi giorni dopo ho incontrato Judith Malina a New York che mi ha parlato, fra l'altro, del teatro di strada del
Living Theatre, di quell'esperienza di pacifica invasione degli spazi che riusciva a captare e trasformare
l'attenzione dei presenti, a fare della folla urbana un insieme di spettatori partecipanti, a ridisegnare scenari e
percorsi attraverso una lettura extra-quotidiana degli stessi: le camminate lente e solenni, le azioni ritualizzate,
la celebrazione laica di oratori civili. E Judith ha ricordato proprio la straordinaria esperienza del Bread and
Puppet che coi suoi enormi pupazzi animati dagli attori, i lunghi trampoli, le grandi eloquenti maschere di
cartapesta ha saputo costruire spettacoli di strada altrettanto efficaci, capaci di imporsi alla vista, di far accorrere
la gente e creare cerchi di attenzione sempre più larghi, e quindi di lavorare su quell'attenzione, con
immagini
altamente evocative, dove erano i pupazzi, con la loro ieratica solennità e le espressioni antiche e sagge
, a
raccontare ai loro simili, creature umane, le tristi storie di un mondo afflitto dalle guerre, dalla povertà,
dallo
sfruttamento.
Peter Schumann, un passato di pittore e scultore, coreografo e happener vicino alla cerchia newyorchese di
Merce Cunningham, poi artista girovago, che si spostava coi suoi spettacoli per pupazzi su una specie di
roulotte, fondò il Bread and Puppet a New York nel 1963. Il gruppo, destinato a diventare una delle
più
importanti formazioni di teatro politico americano e ad ispirare esperienze analoghe in tutto il mondo, conteneva
già nel nome i fondamenti - ideali ed espressivi - che ne avrebbero fatto la storia. I
pupazzi, ossia la semplicità,
la concretezza e l'antipsicologismo di un teatro che doveva avere l'efficacia visiva del tableau animato, "scultura
vivente in movimento"; e il pane, ossia l'alimento essenziale e universale, emblema etico di un teatro necessario
alla vita quanto il più elementare dei cibi.
Per il suo teatro-nutrimento, Peter Schumann ha sempre preparato personalmente il pane nero da spartire con
il pubblico. In un manifesto dei primi anni Sessanta, scriveva: "Noi ti offriamo un pezzo di pane insieme allo
spettacolo dei pupazzi, perché il nostro pane e il nostro teatro si appartengono reciprocamente, per molto
tempo
l'arte teatrale è stata separata dallo stomaco. Il teatro era intrattenimento. L'intrattenimento era destinato
alla
pelle. Il pane era destinato allo stomaco. I vecchi riti dell'infornare, del mangiare e dell'offrire il pane sono stati
dimenticati. (...) Vogliamo che tu comprenda che il teatro non è una forma prestabilita, non è
il luogo di
commercio che tu credi, dove paghi per avere qualche cosa. Il teatro è differente, più vicino
al pane, più vicino
alla necessità ...".
Straordinaria citazione Dal '63 al '68 il Bread and Puppet ha presentato
spettacoli di strada e parate in occasione di manifestazioni
pacifiste, scioperi o altre iniziative politiche, spettacoli di burattini, maschere e pantomime. Nel '66 ha realizzato
A Man Says Goodbye to His Mother, sulla guerra del Vietnam, e Chicken Little,
uno spettacolo di circo con e
per bambini di Harlem. Fra il '68 e il '69 ha fatto due lunghe tournée in Europa dove il fenomeno Bread
and
Puppet è esploso, a contatto con l'effervescenza creativa dei movimenti giovanili. Del '69 è il
suo spettacolo
forse più famoso: Cry of the people for Meat, la storia del mondo dalla creazione alla
resurrezione rappresentata
con una serie di immagini tratte dalla Bibbia, che racconta in forma di parabola la corruzione del sistema
mondiale e la prospettiva di un nuovo ordine, libero dal materialismo e dalla violenza.
Nel 1970 il Bread and Puppet ha lasciato New York per trasferirsi nel Vermont, a Glover, in una fattoria
trasformata in laboratorio per la costruzione delle maschere e dei pupazzi, sorta di azienda complessa: agricola,
tipografica, tessile, pressoché autosufficiente. Qui ogni estate viene organizzato un festival teatrale, che
ospita
le più interessanti esperienze di teatro "non allineato" presenti negli Stati Uniti (molte delle quali sono
filiazioni
dirette del gruppo di Schumann).
Il festival culmina con un grande spettacolo del Bread and Puppet, Our Domestic Resurrection
Circus, un
evento teatrale "libero", concepito per i grandi spazi all'aperto, con circo di pupazzi, musica, parate,
rappresentato per la prima volta nel 1970 e poi ripreso ogni anno con struttura pressoché uguale e temi
diversi
(se ne veda la descrizione nello scritto di Peter Schumann Pupazzi e politica, qui pubblicato).
Gruppi di
volontari ed ex membri della compagnia giungono a Glover alcuni mesi prima per lavorare alla costruzione delle
maschere e dei pupazzi disegnati da Schumann e all'allestimento dello spettacolo. Così Elka Leigh
Scott,
compagna e collaboratrice di Peter Schumann dal 1956, descrive la preparazione dell'evento annuale: "Un
nucleo centrale di persone già esperte, abili e dedite a questa arte, assistito da schiere di volontari, si
sposta a
lavorare qua ogni estate per dare nuova foggia ad animali, demoni, cittadini e contadini richiesti per lo
spettacolo annuale. Sono loro a creare gli intricati sistemi di allestimento, i costumi e gli accessori che
trasformano strati di carta e di colla in danzatori soprannaturali. Anche se i risultati sono straordinari, i mezzi
e i materiali sono per lo più semplici e primitivi. Per la costruzione delle armature, dei manichini e dei
palchi
e per montare le bandiere e gli stendardi si usano legno fradicio proveniente dal vicino mulino e pioppi e cedri
tagliati nelle foreste qui attorno; molti dei materiali per i costumi li troviamo nelle svendite di merci non
ritirate". E il festival è una straordinaria occasione di ritrovo per il pubblico "alternativo" che arriva da
tutto il
paese spostandosi su pulmini colorati e auto fuori moda e dà vita ad un pittoresco accampamento,
nell'anfiteatro
naturale che fa da cornice agli spettacoli.
Storie nascoste e un po' pericolose In un ex-granaio il Bread and Puppet ha
allestito il suo museo (ne parla Peter Schumann nel pezzo Un museo
sovversivo, che qui pubblichiamo).
Centinaia di maschere e di pupazzi raggruppati per temi, cronologia o affinità, dipinti e sculture,
stendardi,
bandiere e oggetti provenienti dagli spettacoli storici e da quelli più recenti del gruppo sono quasi tutti
riuniti
qua in quadri di incredibile suggestione.
Alcuni pupazzi provengono dal mondo del teatro tradizionale (Re Lear, la Carmen, i pupi siciliani), altri sono
piuttosto l'incarnazione di sogni o incubi collettivi (le figure informi vestite di plastica nera che lottano per
liberarsi dai loro vincoli e che ricordano "I disastri della guerra" di Goya); alcune figure, di grandezza naturale,
rappresentano le attività quotidiane di mamme, nonne, massaie; poi ci sono i pupazzi giganti che
rappresentano
figure tipiche: fieri generali e burocrati impassibili, santi beati e mangiatori golosi, playboy e mostri, martiri
e demoni. Enormi facce squadrano lo spazio dall'alto o fissano le cose con occhi pazienti, hanno grandi dita
puntate, le mani in gesto di saluto o chiuse a pugno. Poi c'è Yama, il re dell'Inferno, con la sua corte
di demoni.
Ci sono due teste giganti, una bianca e una nera, confuse nello sfondo; poi, fra i pupazzi più grandi, una
foto
di altre piccole figure: Unkle Fatso (un pupazzo della metà degli anni '60) circondato da un esercito di
spazzini,
le lavandaie e i macellai, i San Francesco, le bianche maschere delle donne vietnamite, mandrie di animali
fantasma: cervi, cavalli e figure mitologiche che escono da una tundra lontana; le grandi lune, i soli e le
stelle.
Quando ci sono stata la prima volta, come dicevo, era periodo di festival, e la visita al museo mi è
sembrata
parte del programma degli spettacoli: una rappresentazione itinerante offerta dai vecchi artisti di pezza e
cartapesta al pubblico dei visitatori. Era come se i pupazzi rappresentassero uno spettacolo immobile e
silenzioso, che raccontava la loro storia condensata in tableaux straordinariamente eloquenti. Il pubblico del
festival affollava lo spazio stipato del granaio sfilando fra grandi pupazzi e minuscoli lillipuziani e contribuendo
a creare prospettive fuori scala di quel piccolo mondo dalle proporzioni impazzite. In quella piovosa giornata
estiva, i pupazzi parevano respirare un fiato caldo e umido, la capacità evocativa delle maschere
sembrava farsi
racconto. Il loro linguaggio non verbale, sconnesso e distante da contesti narrativi precostituiti - come osserva
Schumann in uno degli scritti che proponiamo - si rivelava in grado, piuttosto, di raccontare storie sempre nuove
alle generazioni che passano. Storie nascoste e un po' pericolose, che non riguardano la società e le sue
istituzioni ma piuttosto i suoi demoni - per dirla ancora con Schumann - ossia le forze sepolte, le
potenzialità
di cambiamento e riscatto custodite nel ventre dell'umanità, di cui le grandi maschere rappresentano
le
incarnazioni archetipiche.
Quest'anno il museo era deserto e i pupazzi sembravano piuttosto dei guardiani impazienti e pensosi, grandi
giganti un tempo protagonisti di gesta memorabili e ora a riposo: la loro straordinaria vita trasformata in intensa,
severa contemplazione, fuori e dentro di sé.
Dopo aver partecipato agli anni gloriosi della rivolta teatrale, dei grandi mutamenti nel modo di concepire il
teatro e di vivere nel teatro, il Bread and Puppet ha forse trovato nella sua dimensione artigianale e contadina
una forma di salvezza rispetto al rifluire dei tempi. La loro fattoria sembra una specie di isola, dove poche
persone (non più di quattro o cinque) vivono stabilmente e si dedicano alla conservazione e al
nutrimento dei
loro viventi cimeli di teatro. Un'isola rassicurante per il solo fatto che esiste, che le persone sanno di poterla
trovare: per uno spettacolo, un periodo di lavoro; una visita al museo... dove ancora Peter Schumann fa il pane
e dove si vedono manifesti desueti: "L'arte è gratuita", "Aratri, non spade", le spighe di grano che
spuntano
come simboli della pace da immagini di vita: dal palmo di una mano, dal volto del sole, da un libro, e la figura
della morte che si staglia sulle immagini e le macchine di guerra. A volte, più, che l'evolversi e il
progredire
della realtà, ci rassicura che qualcosa si fermi e stia saldo: come un perno, o un monito.
Cristina Valenti
La radicalità del teatro dei pupazzi
di Peter Schumann*
Il teatro dei pupazzi, che usa e fa danzare bambole, effigi e figure di pezza, non solo ha origini storiche
oscure,
legate ai riti sciamanici di guarigione e ad altre pratiche sociali strane e difficili da valutare. E' anche, a partire
dalla definizione delle sue caratteristiche più persuasive, un'arte anarchica, sovversiva e per sua natura
non
addomesticabile: un'arte che è più facile ricercare nei registri della polizia che nelle cronache
teatrali, un'arte
che per sua propensione e destino non aspira a mettere in scena governi o civiltà, ma preferisce
conservare il
suo segreto e una statura ridotta nella società, rappresentando piuttosto i demoni di quella
società e non le sue
istituzioni.
Il fatto che i burattinai siano tradizionalmente dispensati dalla serietà - in particolare dalla
serietà di una
disciplina e di una cultura classificabile secondo la filosofia del momento - e il fatto di godere di una
condizione asociale hanno agito anche come garanzia di salvezza, come un privilegio negativo che ha permesso
alla loro arte di crescere. La lamentela ricorrente dei burattinai moderni, circa le leggi del loro mestiere e il loro
statuto ridicolo è una lamentela irrispettosa della loro arte, e rivela il tentativo impotente di nobilitare
il loro
lavoro elevandolo fra le arti cosiddette serie. (La fisionomia attuale del teatro dei pupazzi è spesso un
triste
esempio di questa serietà impotente, specialmente dove gli animali sono raffigurati con la gaia
stupidità della
pubblicità del chewing-gum, che degrada le immagini profetiche delle creature associandole alla
condizione
degli stereotipi umani: fisionomie defunte, in realtà, che si intendono graziose ma sono, in fondo,
disperatamente sarcastiche). [...]
E' tuttavia, a dispetto della tendenza generale dei nostri prodotti culturali a essere ossequiosi al potere del
mercato, alla legge del denaro e alla generale immersione degli spiriti nella maggiore insensatezza possibile,
e a dispetto del fatto che quella dei pupazzi è un'arte debole, obbediente per suo statuto alle domande
dell'industria del divertimento, il teatro dei pupazzi si è realizzato anche come forma d'arte radicalmente
nuova
e coraggiosa. Nuova non nel senso di una cosa mai vista né conosciuta, ma nel senso di una
verità rivelata:
sempre esistita, ma così comune da non poter essere vista per quel che era. Radicale non solo
perché è un teatro
che si discosta dai concetti stabiliti, ma anche perché produce un allargamento dello spirito, possibile
grazie al
fatto che anche la più moderna arte dei pupazzi si inserisce in una tradizione antica. [...]
La radicalità del teatro dei pupazzi comporta inoltre una ridefinizione del linguaggio, che non
può essere
meramente inteso come strumento conveniente di comunicazione. Il linguaggio dei pupazzi è qualcosa
di più
di un mezzo di informazione ben sintonizzato. E' un linguaggio sperimentale che spoglia le parole e le frasi
dei loro contesti secondari dettati dalla moda e condensa l'ordinario proliferare della chiacchiera in termini
singolari. I pupazzi hanno bisogno di silenzio, e il loro silenzio è la parte non verbale del loro
linguaggio.
[...]
Se paragonata all'arte degli attori, la manipolazione da parte dei burattinai di loro stessi e degli oggetti ed effigi
che sono affidati alle loro mani sembra una pratica formale e modesta. I burattinai mettono insieme una gran
quantità di caratteristiche simili all'uomo e tuttavia appartenenti a un altro mondo; il loro racconto
deriva
dall'osservazione degli oggetti, ma soprattutto dalla pratica di muovere gli oggetti. L'anima delle cose non si
rivela facilmente. Ciò che esprimono gli occhi di una bambola va spesso al di là del nostro
controllo. La
manipolazione dei pupazzi va oltre la volontà consapevole di ottenere certi risultati da un certo
pubblico. Il
burattinaio ha una sola speranza di avere la meglio sui suoi burattini: quella di entrare nella vita delicata e
apparentemente inesauribile dei pupazzi. I pupazzi non sono fatti su commissione o secondo un copione. Quello
che contengono è celato nei loro volti e diventa chiaro solo attraverso il loro funzionamento. I pupazzi
nascono
dall'argilla cruda. La loro creazione deve essere tenuta il più lontano possibile dal proposito di definire
dei
caratteri drammatici o una storia. Solo attraverso questa distanza e questa sconnessione sono in grado di entrare
attivamente in una storia come agenti indipendenti e non come portatori di intenzioni estranee.
*Peter Schumann ha scritto questo saggio - di cui proponiamo alcuni stralci - durante il primo tour del
Bread
and Puppet in Siberia, nel maggio 1990. (Cfr. P. Schumann, The Radicality of the Puppet Theater,
St. Johnsbury
VT, Troll Press, 1990. Trad. di C. Valenti).
Pupazzi e politica
di Peter Schumann
Il teatro dei pupazzi è una forma di estasi, proprio come la musica. Alla sua origine c'è una
sovrabbondanza di
forza muscolare e di attività celebrale e un'urgenza di felicità che non può essere
trattenuta, che deve
manifestarsi. Il cielo ci circonda e l'atmosfera ci avvolge: questa è la realtà più evidente
della nostra vita. Le
pietre parlano, le colline ridono, i vermi cantano. La grandiosa bellezza dell'universo ci dà le vertigini.
Il teatro dei pupazzi si fonda sullo stratagemma della semplificazione per rendere accessibile questa
incomprensibile ricchezza. Oppure, il teatro dei pupazzi è una tecnica che modellando le forme rende
possibile
rispondere alla creazione.
SCATOLE
All'inizio dei giorni, quando non potevamo più sopportare la grandeur della nostra
grande-grande-grande-nonna
Natura, abbiamo costruito delle scatole con minuscole finestrelle per viverci dentro. La funzione delle scatole
era quella di chiudere fuori la maggior parte delle cose e di viverne solo una piccola porzione, comprensibile
e controllabile. Abbiamo consumato intere civiltà millenarie per perfezionare queste scatole con
finestre, che
sono culminate nell'invenzione della bassa Manhattan, dove tutte le finestre si affacciano l'una nell'altra e tutto
ciò che noi vediamo è noi stessi incorniciati in un riquadro di cielo sporco grande pochi pollici.
In seguito siamo
progrediti verso la nostra più grande conquista: una scatola in miniatura che si sistema facilmente in
un angolo
della nostra scatola-salotto ed è equipaggiata di una finestra magica che diffonde dentro i nostri cuori,
in
maniera del tutto indolore, il mondo intero per quanto è largo. Noi l'amiamo e l'odiamo e la chiamiamo
affettuosamente "scatola idiota". E ora il frastuono dell'universo e l'amato caos del mondo intero arrivano ai
nostri sensi così trattati e mutilati da questa scatola da lasciarci insensibili.
Mentre i nostri organi ricettivi si contraggono e inaridiscono, la nostra smania di verità cresce.
Ovviamente i burattinai-musicisti-sciamani hanno compiti maggiori di quanti non ne avessero un tempo; il loro
lavoro consiste nel comunicare la realtà mutilata e offesa. Questo è il mestiere sacro del teatro
dei pupazzi.
Ma la verità è che noi non sappiamo a che cosa servano realmente i pupazzi. Il teatro politico
è fatto di slogan,
annoia gli spettatori che la pensano allo stesso modo e offende proprio quelli che vorrebbe conquistare alla
propria causa. Gli spettacoli del Bread and Puppet non si sottraggono a questa condizione; noi cadiamo nella
stessa trappola. Ma tentiamo di dare voce a ciò che sta a cuore comunque, con o senza successo,
semplicemente
perché dobbiamo farlo.
DOMESTIC RESURRECTION CIRCUS
Quando lasciammo New York per il Vermont, nel 1970, si rese necessario un nuovo modo di guardare, di
imparare e di ascoltare, dovevamo inventare animali e imparare come muoverci in un paesaggio per diventare
parte di esso. Pensammo che avremmo potuto produrre un evento ciclico che sarebbe stato rappresentativo della
vita in generale e del nostro specifico ambiente politico in particolare. Chiamammo questo evento
Domestic
Resurrection circus (circo Domestico della Resurrezione) e da allora l'abbiamo
rappresentato quasi ogni anno.
Queste rappresentazioni con pupazzi di tre differenti misure e greggi di animali di carta pesta, selvatici e
addomesticati, dipendono interamente dalla buona volontà: volontari arrivano da molte città
del Vermont e da
molti stati dell'Unione: alcuni vengono dal Canada, dall'Europa Orientale e Occidentale e dall'America Centrale.
Più di 200 fra donne, uomini e bambini partecipano allo spettacolo all'aperto. Decine di studenti, artisti,
contadini, professori, madri, ciclisti, nonni, dattilografi e fornai lavorano duramente ogni giorno per impastare
la creta, costruire le armature, modellare la cartapesta, dipingere le bandiere e cucire i costumi. Tutte le estati
vengono costruite centinaia di maschere, figure e sostegni; e i pupazzi più grandi sono bruciati nel
grande falò
che conclude lo spettacolo.
A partire dal primo Circus, si sono stabilite poche regole formali per ognuno di questi eventi: 1)
C'è sempre
una pièce sulla creazione: non la riscrittura di uno dei miti della creazione, ma piuttosto uno spettacolo
di
ringraziamento che canta le lodi del mondo. 2) C'è sempre una rappresentazione più o meno
scientifica del
mondo, svolta attraverso la trattazione di qualche aspetto specifico della storia, di qualche personalità
storica
o di un tema politico generale. 3) La parte finale del ciclo è sempre una pièce sulla resurrezione,
che rappresenta
o una resurrezione logica, che scaturisce dal contesto di sconfitta e morte della parte precedente dello show, o
una resurrezione illogica, che rammenta la possibilità della resurrezione.
L'ARTE POLITICA
L'arte è privilegio dei ricchi. Solo gli individui e le società benestanti la producono. La sua
funzione è quella
di riempire il tempo libero e decorare gli spazi grigi. Questa è la realtà. Ma in spirito l'arte
è divina: cura,
rivoluziona, appaga, perfeziona. Può realizzare tutte quelle cose che noi non oseremmo mai sognare
come
possibili, ed è tremendamente seria al riguardo: persegue le sue elevate visioni con passione, amore e
intelligenza. Ed è sempre pronta a uscire dai suoi maledetti confini. Se rapportata alle funzioni che sono
considerate essenziali per la società, essa non ha funzione alcuna. L'arte è destinata a non fare
nulla, a non avere
alcuna efficacia, persino di fronte alle più orribili violazioni del senso, della bellezza e della
dignità del mondo.
Proprio adesso la nostra Civiltà Occidentale, che provvede così bene a noi, non solo
vìola in modi concreti il
senso, la bellezza e la dignità del mondo: mentre professa ideali cristiani di amore e compassione verso
il
prossimo e difende i diritti umani, al tempo stesso insegna anche la tortura, esporta la tortura in molte parti della
sua sfera di influenza, e assiste apertamente ai massacri delle popolazioni indigene al fine di mantenere la
propria disgustosa salute.
L'arte è politica, che piaccia o meno.
Se sta rinchiusa nei propri domini, preoccupata dei propri problemi, l'arte sostiene lo status quo, che è
in se
stesso altamente politico. Ma l'arte può anche strillare e scalciare e partecipare alla nostra secolare
battaglia per
la liberazione in tutti i modi delle sue capacità sensitive, ma in definitiva per la salvezza della sua stessa
anima.
(da Bread & Puppet. Stories of Struggle & Faith from Central
America, Introduction by P. Schumann, Green
Valley Film and Art, Inc., Burlington VT, 1985. Trad. di C. Valenti).
Un museo sovversivo
di Peter Schumann
Chiamare museo questa cascina un tempo adibita a granaio significa mettere in ridicolo ciò che
normalmente
intendiamo con la parola "museo".
Si potrebbe chiamare altrettanto appropriatamente "Zoo dei Demoni", dal momento che la vita non cessa quando
i gesti si arrestano, specialmente dopo che i gesti hanno attaccato il mondo - così com'è - e
hanno pizzicato il
suo compiacente aldilà. Il museo realmente degno di questo nome è quello che realizza una
nobile idea di
conservazione e ricercatezza. L'informazione che un museo trasmette consiste nell'esaltare ciò che
è già di
proprietà pubblica. Questo museo non informa nessuno riguardo a niente. In questo ambiente,
ovviamente un
classico esempio di orror vacui, queste cataste di creature umane e di animali sono tutti guerrieri
in pensione
che hanno navigato contro la marea, tutti elementi sovversivi, profeti e ufficianti di riti fuori moda. Ma persino
nelle loro più eteree incarnazioni essi hanno ancora un lavoro da svolgere: mettere il pubblico a
confronto con
le sue proprie trasgressioni e deficienze. Il visitatore si sente osservato da occhi animali, occhi più saggi
di quelli
umani.
Il granaio è pieno fino all'orlo; la densità della sua popolazione non riflette solo le
sedimentazioni del tempo,
ma anche le urgenze che hanno ispirato la formazione di un materiale tanto vasto: la povertà dei poveri,
l'arroganza dei mercanti di guerra, la disperazione delle vittime. E, naturalmente, tutto questo andrà in
rovina
a suo tempo.
Noi chiamiamo la nostra filosofia di produzione "arte dell'impermanenza". Rimpiazziamo l'idea di
conservazione del museo tradizionale con l'accettazione di un deterioramento più o meno piacevole ed
inevitabile.
Dunque, perché deve esistere questo museo?
Credo che la risposta sia un'ammissione di fallimento. Prima di tutto, noi non siamo mai riusciti a realizzare la
nostra aspirazione di uno spettacolo di pupazzi globale, che avrebbe impiegato tutte queste forze di cartapesta.
E, secondariamente, ci sfugge sempre di più la ragione per realizzare uno show di dimensioni
così gigantesche.
ci sono cose che semplicemente procedono secondo la loro volontà: i pupazzi hanno affermato i loro
diritti nella
vecchia stalla per le mucche. Come gli asini: a loro non spiace non essere spostati.
Durante le prove dei nostri spettacoli di pupazzi, siamo spesso bloccati da questa vita autonoma degli oggetti.
Loro non vogliono. Noi vogliamo. Ma quando li guardiamo dritto negli occhi, loro dicono "no" più
spesso del
contrario. E questa impasse è un'educazione: suggerisce un possibile regno del silenzio.
Gli storni fanno il nido dietro le assi e le traverse smontate del palcoscenico, qualche volta gli sparvieri lo fanno
sotto i cornicioni, le rondini sui travetti del seminterrato, le tamie e gli scoiattoli un po' dovunque. Questa
primavera abbiamo trovato tre piccoli procioni graziosamente coricati nella testa smangiucchiata di un bisonte
di cartapesta. Il disgelo primaverile fa gemere le travi. I raggi del sole scintillano sulle guance delle dee delle
parate campestri. I temporali trasformano questo museo in una nave - il madiere si alza, la poppa oscilla. La mia
convinzione è che tutto questo, nel suo insieme, sia una forma di vita, che si realizza come capita:
nessuna
giustificazione è richiesta.
(da Bread and Puppet Museum, S. Johnsbury VT, Troll Press, 1989. Trad. di C. Valenti)
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