Rivista Anarchica Online
Come si raddoppia uno stato
di Andrea Ferrario
Klaus il duro, Havel il ragionevole, Meciar il sanguigno. Ecco i protagonisti della farsa che porterà alla
separazione, dal 1 gennaio 1993, tra cechi e slovacchi.
Anche la Cecoslovacchia, così come è già successo per
la Jugoslavia e per l'URSS, è destinata a scomparire dalle
carte geografiche. A partire dal 1° gennaio la federazione tra la Repubblica Ceca e quella Slovacca verrà
sciolta,
per dare vita a due stati indipendenti, dopo 74 anni di convivenza sotto la stessa bandiera. La
Cecoslovacchia è stata infatti creata immediatamente dopo la Prima Guerra Mondiale, nel 1918, in
virtù degli
accordi tra le grandi potenze, ma anche grazie ad un ben radicato movimento "cecoslovacchista", il cui
principale
esponente, T.G. Masaryk, storico e filosofo, è stato poi per 20 anni presidente della repubblica.
"Stato-cuscinetto" nel cuore dell'Europa, "stomaco" del continente, la Cecoslovacchia ha pagato duramente
questa
sua posizione. Smembrata dopo gli accordi di Monaco del 1938, perde a vantaggio della Germania i Sudeti,
abitati
in maggioranza da tedeschi, e viene invasa un anno dopo dai nazisti, mentre in Slovacchia si forma uno stato
fantoccio clerico-fascista (il primo e, fino ad ora, unico stato "indipendente" slovacco della storia), guidato dal
vescovo cattolico Tiso e nei fatti un protettorato tedesco. Dopo la guerra, nel 1948, i timidi e difficili tentativi
di
fare di nuovo della Cecoslovacchia uno "stato-cuscinetto", neutrale falliscono per il veto di Stalin e il partito
comunista, già forte elettoralmente, prende il potere con un colpo di stato. Seguono gli anni bui
dello stalinismo, interrotti solo dal risveglio civile degli anni '60, culminato con la
"Primavera di Praga" e soppresso nel '68 dai carrarmati sovietici. Ed è proprio nel 1969, alcuni mesi
dopo
l'invasione, che il progetto per la trasformazione dello stato centralizzato in una federazione viene tirato fuori
dal
cassetto con mossa astuta dai notabili comunisti insediati dai sovietici, nel tentativo di darsi un aspetto
presentabile. Il paese diviene pertanto una federazione, con un parlamento federale, una camera delle nazioni
e
due consigli nazionali con sede nelle rispettive repubbliche. Questa struttura rimane invariata per tutto il periodo
della normalizzazione e della transizione al capitalismo avviata dopo il 1989. Da sempre più ricchi e
industrializzati, tendenzialmente più laici e "plebei" (la sconfitta degli hussiti e l'imposizione della fede
cattolica
ha comportato lo sterminio dell'intera nobiltà ceca), nonché più vicini alla cultura
tedesca (seppure con profonde
e fondamentali differente) i Paesi Cechi (cioè Boemia e Moravia). Cattolici e di tradizione soprattutto
contadina
gli slovacchi, che non hanno conosciuto la rivoluzione hussita e sono sempre stati governati dalla
nobiltà
ungherese. La convivenza tra i due popoli, che parlano tra l'altro due lingue similissime e reciprocamente
comprensibili, non ha mai dato tuttavia luogo a particolari conflitti, nemmeno nei periodi di maggiore crisi.
Come
si è potuto giungere allora alla rottura in un giro di tempo così incredibilmente breve?
Forte scompenso Uno dei motivi fondamentali è certamente
rappresentato dalla riforma economica (il solito modello di riforma
dettato dal Fondo Monetario Internazionale, che da lungo tempo non dà altro risultato che quello di
causare
sconvolgenti crisi economiche in tutto il mondo) propugnata soprattutto dal Partito Civico Democratico ceco,
nato
dalla divisione del Forum Civico di Havel e degli altri dissidenti, guidato dall'extra-liberista Klaus, un
tecnocrate
che ha fatto carriera sotto il regime comunista, senza tuttavia compromettersi mai troppo. Tale riforma ha
in breve causato un forte scompenso tra le due parti della federazione, con un forte aumento della
disoccupazione in Slovacchia, la cui economia era maggiormente orientata verso gli ex-paesi socialisti, con i
quali
sono ora stati tagliati tutti i ponti. Il governo slovacco di Meciar, leader del Movimento per una Slovacchia
Democratica ed ex-comunista espulso dal partito dopo il 1968, ha cominciato ad ostacolare tale politica a livello
federale e, dopo alcuni mesi di litigi, si è giunti a Praga all'incredibile decisione di "deporre", su
esortazione del
presidente Havel, Meciar e di instaurare un governo di uomini più consoni alla politica di Praga.
Durante tutto
l'anno che ha preceduto le elezioni del 1992 ha così governato in Slovacchia una coalizione che godeva,
secondo
tutti i sondaggi, di circa il 15% dei consensi della popolazione e che infatti poi nelle elezioni ha ottenuto tale
percentuale . La conseguenza è stata che la popolarità di Meciar, abile demagogo, è
salita alle stelle, cosa di cui
egli ha prontamente approfittato per condurre dall'opposizione una politica sempre più nazionalista,
mentre nello
stesso periodo a Praga Havel chiedeva poteri straordinari (cioè la facoltà di emettere decreti
senza l'approvazione
del parlamento), che però non gli venivano concessi e dal ministero dell'interno federale uscivano
documenti
mirati a compromettere Meciar come collaboratore degli ex-servizi segreti comunisti. Le elezioni del
giugno '92 vedono vincitori con un terzo dei voti nelle rispettive repubbliche proprio i due partiti
di Klaus e di Meciar, facendo cadere la prospettiva di una vittoria delle destre (Klaus più i "federalisti"
slovacchi)
a livello federale. E' ancora una volta Havel che fa precipitare la situazione incaricando Klaus di formare il
nuovo
governo, ancor prima che fossero noti i risultati definitivi e senza consultare altre forze politiche alla ricerca
di
soluzioni di maggiore compromesso. Klaus, senza alcun mandato in tal senso, inizia immediatamente a trattare
sul futuro della federazione con Meciar. Dietro la farsa teatrale di un Klaus favorevole all'unità ("nella
federazione
così come è o divisione") e di un Meciar alla ricerca di soluzioni più elastiche
("unione", "confederazione"), i due
leader nazionalisti vanno alla ricerca di una separazione secca del paese, nella convinzione che ciò sia
vantaggioso
per la propria repubblica e, soprattutto, per la propria carriera. Uno, il ceco Klaus, persegue una politica di
capitalismo selvaggio alla Reagan, ma in realtà il suo partito gestisce
la privatizzazione attraverso enti e ministeri dello stato nel più perfetto stile burocratico-socialista;
l'altro, lo
slovacco Meciar, si dichiara per un'economia di mercato controllata dallo stato, promette una diminuzione della
disoccupazione, senza tuttavia alcun piano preciso e condendo il tutto con forti accenti demagogici, dietro ai
quali
si nasconde il desiderio della sua classe politica di inserirsi direttamente nei flussi di capitale internazionali.
In breve i due da nemici si fanno alleati e, pur disponendo solo di un terzo dei consensi a livello
cecoslovacco,
siglano un accordo per la divisione del paese a partire dal 1° gennaio 1993. Il parlamento federale, però
ha
bocciato la legge che doveva regolare tale divisione e i due partiti, d'altra parte, non vogliono ricorrere ad un
referendum (se non di ratifica, a fatti compiuti) dato che quasi di sicuro esso respingerebbe il progetto di
separazione. La soluzione sarà con ogni probabilità una ripresentazione della legge modificata
in parlamento,
anche se i tempi sono ormai strettissimi. Nel frattempo sono stati conclusi accordi che dovrebbero permettere
una
separazione relativamente pacifica, anche se rimangono da definire i problemi riguardanti la divisione
dell'esercito
e quella delle proprietà federali.
Capitali tedeschi Intanto i deputati del parlamento slovacco, dopo lunghe
discussioni, hanno cancellato dalla nuova costituzione
tutti i riferimenti ai "cittadini della Slovacchia", sostituendoli con i "membri della nazione slovacca", un chiaro
messaggio mandato ai circa 600.000 ungheresi che vivono sul territorio della loro repubblica, i quali da un lato
sono giustamente preoccupati dell'evoluzione della situazione in Slovacchia, dall'altro rischiano di diventare
strumento del sempre più montante nazionalismo sciovinista "grande-ungherese". A Praga invece, Klaus
e Havel
organizzano con l'arcivescovo della città una solenne cerimonia a benedizione della rinascita dello stato
ceco,
mentre il tetro Jan Ruml, che come vice-ministro federale degli interni si è distinto per una gestione
più che
disinvolta degli archivi dei servizi segreti e della polizia politica, viene promosso a ministro dell'interno. Il
tutto sullo sfondo di un'economia oramai per i tre quarti in mano ai capitali tedeschi (alla faccia del
nazionalismo). Fin qui abbiamo parlato di quanto hanno fatto i politici, ma la società come ha
reagito a questi fatti? Durante tutto
il periodo delle trattative per la separazione i sondaggi hanno sempre inequivocabilmente indicato che la
maggioranza della popolazione, sia in Slovacchia che nei Paesi Cechi, era contraria alla divisione della
Cecoslovacchia. Solo l'ultimo sondaggio disponibile, dei primi di novembre, dava, a giochi ormai fatti, uno
stretto
51% di cechi favorevoli alla separazione, percentuale che in Slovacchia risultava ancora inferiore al 40%. Tra
la
gente sembra tuttavia che regni un'apatia totale, solo a Praga ci sono state delle sparute manifestazioni per la
conservazione della federazione, ma si è trattato in realtà di manifestazioni tendenzialmente
antislovacche.
Nessuna alternativa positiva, che sia diversa dal mantenimento del vecchio federalismo, riesce a prendere voce.
Si paga qui evidentemente quella che è stata la mancanza di idee della maggior parte degli
ex-dissidenti giunti
al potere, persone che in numerosi casi hanno dato prova di grande coraggio nella propria resistenza individuale
al regime comunista, ma che non hanno però mai tentato di andare al di là delle pur
fondamentali richieste di
rispetto dei diritti umani per cercare di trovare un'alternativa al sistema esistente, trovandosi in tal modo isolati
dal resto della società per motivi che vanno al di là delle repressioni alle quali venivano
sottoposti. Giunti a dover prendere improvvisamente in mano la situazione, soprattutto in virtù
della delega concessa loro
dalla gente come a dei simboli della resistenza al regime comunista, non hanno saputo far di meglio che cercare
di aumentare sempre di più la propria posizione di potere, appoggiarsi acriticamente all'occidente o, nel
migliore
dei casi, dedicare tutti i propri sforzi ai soli aspetti amministrativi. Questa classe dirigente, conscia della propria
mancanza di prospettive e di fronte ad una crisi sociale ed economica sempre più marcata, ha puntato
tutto sulla
manipolazione spettacolare della situazione, tenendo sotto stretto controllo i mezzi di comunicazione
(televisione
e stampa), facendo periodicamente partire campagne sullo spauracchio (in realtà inesistente) di un
putsch
comunista, su dossier più che equivocabili dei servizi segreti, fino a giungere anche all'arresto di
"avvertimento"
nei confronti di giornalisti scomodi in campagna elettorale. Si inserisce perfettamente in questo clima anche
la questione nazionale, giocata tutta da politici che più che
uomini in carne ed ossa, sembrano marionette irrigidite nei loro ruoli (Klaus il "duro ed esperto economista
stimato all'estero", Havel il "ragionevole padre della patria e fine intellettuale", Meciar il "sanguigno tribuno
del
popolo salvatore dei destini della Slovacchia"). Dietro a questo teatrino c'è però il vuoto e gli
spettatori che vi
assistono o sono distratti, o non riescono a far sentire la loro voce al di sopra delle grida che lanciano le
marionette
sul palco. Un quadro non certo allegro che ha di che far riflettere anche chi, come noi qui in Italia, si trova
costretto a barcamenarsi tra leghe e "onesti" vari, non molto dissimili dai politici cecoslovacchi per quanto
riguarda cultura e convinzioni.
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