Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Fuori genere
Ogni tanto, allo spettatore cinematografico abituale, tocca d'incorrere in un imprevedibile microtrauma. Va
al
cinema e, per quanto vaghi con la mente, durante la proiezione, in cerca di un riferimento assodato, non trova
quel
che cerca. Il film, alla fine, si rifiuta di appartenere a questa o a quella categoria precostituita. A volte si
tratta di un caso di drammatica inettitudine (il caso del regista che palesemente avrebbe voluto ottenere
un certo risultato, e non c'è riuscito), spesso, si tratta di un prezioso "pezzo unico". La storia del cinema,
a ben
pensarci, è poi fatta di questi ultimi, vere e proprie rarità che, volenti o nolenti, finiscono con
il generare tutta una
famiglia di esemplari - scopiazzati, ispirati, marchiati indelebilmente, variazioni sul tema... film, per l'appunto,
detti di "genere". Da parte di un autore, la scelta del genere equivale all'adozione di una scorciatoia per la
propria
creatività: rispetto dei modelli, regole e vincoli vari - una panacea per i pigri e per gli accomodanti -
s'impongono
al racconto e ne determinano il senso complessivo - ragion per cui si potrebbe anche affermare che un film di
genere può esser visto e giudicato solo all'interno dell'intero contesto di cui fa parte, come fosse un
episodio di
una e una sola vicenda. Ovvio, in un mondo in cui il ripetitivo consola e rasserena, che cotanta scelta venga
premiata dal consenso popolare: il film di genere sposa bene le esigenze del mercato nonché l'ideologia
sedativa
di cui questo si serve per fagocitare il pianeta. Alla luce di questa premessa sarà chiara l'origine
dell'amore con cui mi ritrovo a guardare i film di Otar Iosseliani,
un georgiano ben francesizzato che fa cinema distillandolo da un magico alambicco in cui poesia, intelligenza
della vita e partecipazione dell'umano si miscelano in tempi e modi giusti. I suoi film (I beniamini
della luna,
per ricordarne un altro memorabile) non appartengono ad alcun genere, sono pezzi unici, discorsi personali. Un
brano di sé. Caccia alle farfalle è l'ultimo gioiello uscito dal suo
laboratorio. Dall'architettura ardita senza darlo a parere, induce al sorriso come alla commozione, irride e
accarezza, sferza
e lenisce, il tutto, praticamente, nella medesima sequenza, perché è ricca la gamma dei punti
di vista da cui allo
spettatore partecipe è lecito guardare: come nei casi della vita quotidiana, in uno stesso evento va in
scena chi ci
trova da ridere e chi ci trova da piangere, secondo una logica irrimediabilmente sua e altrettanto
irrimediabilmente
impenetrabile. "Siamo come spaghetti in una pentola" credo dicesse Wittgenstein, per quanto si sia tutti
lì non
ci s'incontra mai, e via così lamentando. Iosseliani guarda con scrupolo e registra le poche parole
necessarie: rappresenta il sociale con sorniona ingegneria,
riuscendo sempre a far sì che il destino dei protagonisti sia l'esito dei rapporti di forza nel collettivo di
cui questi
protagonisti sono, alla pari fra altri, parte costituente. Nei suoi film non c'è Soggetto romantico che
tenga, è il canovaccio auto-organizzantesi della balzachiana
Commedia Umana a spadroneggiare. Per singolarità di stile e per acutezza di vista, Iosseliani
sembrerebbe aver
raccolto l'ardua e straordinaria eredità di un Tati o di un René Clair - gente che, nel cogliere le
contraddizioni del
mondo, ha saputo fare arte senza dimenticare di proporne le soluzioni. Non maestri pedanti, gente
conseguenzialmente triste che ci sorride consapevole, senza compiacimenti.
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