Rivista Anarchica Online
C'era una volta...
di Enzo d'Antonia
Breve storia della mafia e dei suoi traffici, dagli anni '50 ad oggi
Il giornale cinque anni prima aveva pubblicato la foto di Luciano Liggio in prima
pagina, e la mafia aveva
puntualmente risposto con un atto terroristico, mettendo una bomba (tritolo dentro una latta di conserva: quanta
differenza con gli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) vicino alle rotative; Mauro De Mauro,
invece,
sarebbe scomparso misteriosamente sette anni dopo, nel 1970, lasciando un groviglio di sospetti e di
interrogativi.
In quell'arco di tempo, tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '70, la mafia s'è trasformata: senza
cambiare
nella sostanza, ha modificato i suoi comportamenti. E anche il suo atteggiamento verso il denaro. Agiati,
benestanti, i vecchi boss agrari. Ricchi, miliardari, i nuovi capi mafia cittadini, legati all'edilizia, ai nuovi appalti
della Cassa per il Mezzogiorno, e pronti a sfruttare tutte le opportunità internazionali del traffico di
stupefacenti. Insomma, quegli anni hanno segnato l'allargamento degli orizzonti finanziari della mafia. I
risultati sono quelli
che si vedono oggi. La criminalità organizzata con le sue attività illecite è arrivata a
fatturare in Italia quanto il
gruppo Fiat (cioè circa 50.000 miliardi), e questo secondo una stima prudenziale fatta dall'istituto
Censis, che i
maggiori esperti di economia criminale giudicano abbastanza attendibile. In più ha messo le mani, in
quattro
regioni del Sud (Sicilia, Calabria, Campania e Puglia), su una buona fetta dell'economia lecita: gli uomini legati
a Cosa Nostra, alla 'Ndrangheta, alla Camorra e alla Sacra Corona Unita hanno affiancato alle tradizionali
attività,
che vanno dal racket al traffico di droga, mestieri in apparenza più rispettabili. Possiedono camion e
ruspe, e
monopolizzano il movimento terra. Hanno acquisito, con le buone e con le cattive, industrie e negozi. Lavorano
fianco a fianco, nei grandi lavori di costruzione, con le maggiori imprese italiane, e alla vecchia pratica del
subappalto hanno sostituito la partecipazione in consorzio. E qui, sul versante delle attività lecite,
è molto più
difficile fare delle stime. Ci ha provato il settimanale Il Mondo (il sottoscritto, con Giuseppe
Sarcina, ha condotto
un'inchiesta nelle grandi città del Sud, pubblicata nel novembre del '91), giungendo alla conclusione
che
mediamente dal 10 al 30% di ogni settore viene controllato dal crimine organizzato. Questo significa che a
Palermo la mafia fattura (lecitamente, tra commercio, edilizia, credito, industria manifatturiera) quasi 2.800
miliardi di lire. A Napoli la camorra supera gli 8.000 miliardi. A Catania si sfiorano i 3.000 miliardi. A Reggio
Calabria e provincia il fatturato è di circa 1.100 miliardi, mentre a Bari, dove la Sacra Corona Unita ha
connotazioni ancora prevalentemente di organizzazione per attività illecite, il gettito è di poco
superiore ai 405
miliardi. Queste cifre sono in massima parte ritenute attendibili dalle stesse organizzazioni imprenditoriali,
o almeno da
alcuni imprenditori che negli ultimi anni hanno denunciato l'infiltrazione della mafia nel mondo delle imprese.
Tanto più che la cosiddetta zona grigia, quella delle industrie "avvicinate" alla mafia, che utilizzano
attivamente
il collegamento con i boss, tende ad ampliarsi e a colorarsi sempre più di nero. Quella delle
attività lecite è una sorta di strada obbligata: i clan hanno a disposizione una enorme massa di
quattrini da investire. Sono soldi che prendono indifferentemente strade diverse. Uno stesso boss investe in
supermercati, concessionarie di auto, azioni e titoli di Stato e, nello stesso momento, deposita soldi in Svizzera,
si rivolge a broker internazionali, compra proprietà immobiliari in Costa Azzurra o terreni e capannoni
nell'ex
Germania Est. La cosca, cioè, è una sorta di fondo comune d'investimento: diversifica, con una
gamma che parte
dalle banconote da diecimila stropicciate e ammassate in una borsa da depositare in banca e va fino ai
più raffinati
strumenti finanziari. Ma da dove arriva questa grande massa di quattrini? Come è possibile
quantificarla? Prima di tutto c'è il mercato
degli stupefacenti. Quello planetario, si dice, è di circa 500 miliardi di dollari all'anno, pari a 675 mila
miliardi
di lire, una cifra enorme, pari a quattro volte il debito pubblico italiano, ma non del tutto attendibile. Si tratta
quasi
di una stima convenzionale tra esperti, e in realtà la vera consistenza del mercato non è possibile
valutarla proprio
perché si tratta di un mercato non omogeneo, fortemente dinamico e soprattutto orientato dal venditore
e non dal
consumatore: la diffusione del crack prima e dell'ecstasy poi dimostra che le organizzazioni criminali sono in
grado di pilotare la domanda. Il caso italiano non è facilmente decifrabile, anche perché sui dati
di consumo ci
sono valutazioni diverse. L'Istituto Superiore della Sanità dice che i tossicodipendenti sono da 130 mila
a 170
mila. Il Cora (Coordinamento radicale antiproibizionista) stima in 350 mila il numero degli eroinomani, mentre
coloro che sia pure occasionalmente consumano cocaina sarebbero 2,5 milioni. A questi vanno aggiunti 2
milioni
di consumatori di hashish. In tutto quasi 5 milioni di persone, cioè un decimo dell'intera popolazione.
Un dato
incredibile? Non proprio. Stime ugualmente pessimistiche si fanno negli Stati Uniti, dove ci sarebbero 26
milioni
di tossicodipendenti (anche in questo caso, oltre il 10% della popolazione). Comunque sia, il mercato
dell'eroina costituisce il 55-60% dell'intero business, la cocaina copre dal 24 al 35%,
mentre l'hashish è tra il 10 e il 15%. I valori sono rispettivamente di 2.400 miliardi per l'eroina, di 1.400
per la
cocaina, di 600 per le droghe leggere. In tutto oltre 4.000 miliardi che finiscono nelle tasche del crimine
organizzato. Le cosche acquistano dai trafficanti internazionali l'eroina (purezza media: 60%) a 60 milioni al
chilogrammo, e poi la rivendono ai distributori, che a loro volta fanno parte di altre cosche, con un margine di
guadagno che va dal 150% al 500%, a secondo dell'intensità della domanda, della pressione delle forze
dell'ordine.
Ciascun eroinomane spende ogni anno poco più di 26 milioni di lire, e se si sapesse il numero esatto
il gettito del
ciclo della droga si potrebbe calcolare più facilmente. Con riguardo ad altre inchieste, infatti, i dati del
Censis
sono sottostimati: ricerche fatte in loco in diverse città hanno accertato cifre ben più alte. Il
traffico di droga
renderebbe alle cosche 3.000 miliardi di lire solo a Milano e provincia, più di 2.000 miliardi a Roma,
1.800 a
Napoli e Torino, 1.300 a Genova. In tutta Italia, si arriverebbe a 40-45 mila miliardi di lire. Altra grande
voce di introiti per il crimine organizzato è il racket delle estorsioni. Due anni fa la Confesercenti,
nel suo libro bianco, aveva valutato in 30 mila miliardi il gettito del racket. Anche in questo caso il Censis (nello
studio "Contro e dentro") ha fatto valutazioni diverse: 1.500 miliardi per gli esercizi commerciali, 1.100 per gli
altri operatori economici. Sequestri, rapine, totonero, lotto clandestino, forniscono il resto. E poi,
ovviamente, ci sono quelle attività lecite.
Le organizzazioni mafiose non abbandonano un business per un altro. Si limitano ad aprire nuovi canali,
mantenendo le attività precedenti. E dunque la vecchia mafia agricola, per esempio, non è
scomparsa. Non si
commette più il reato di abigeato, è vero. Ma gli acquisti di terre (le vendite forzose da parte
dei vecchi
proprietari) sono ancora uno degli investimenti preferiti in Sicilia e Calabria. Poi ci sono i furti di macchine
agricole, il prezzo, le infiltrazioni nei mercati all'ingrosso. Canicattì con l'uva Italia e la provincia di
Ragusa prima
con le serre di ortaggi, adesso con la floricoltura, rappresentano ancora un centro di interesse per la mafia, che
utilizza i contributi comunitari in maniera distorta, e non disdegna le truffe all'Aima, l'Azienda di Stato per gli
interventi sui mercati agricoli. L'ultima stagione dei sequestri patrimoniali fornisce un quadro abbastanza
chiaro delle strutture finanziarie delle
famiglie mafiose. Questo strumento, invocato in passato, non sempre aveva dato alla fine i frutti sperati: basti
ricordare i sequestri dei beni di Michele Greco o della famiglia dei Salvo, poi annullati. Ma negli ultimi mesi
i
sequestri si sono succeduti a ritmo più veloce, in tutte le regioni più interessate al fenomeno.
E questo ha
permesso di ricostruire le attività di alcuni grandi gruppi mafiosi. Vere e proprie holding internazionali
come
quella della famiglia Caruana-Cuntrera. Ma anche gruppi più radicati sul territorio controllato dal
boss. È caduto nelle mani delle forze dell'ordine il boss indicato già come il più
ricco d'Italia (classifica del Mondo,
pubblicata nel giugno del '91), Carmine Alfieri, accreditato di un fatturato annuo di 1.500 miliardi di lire.
Quando
i carabinieri lo hanno arrestato, nel settembre del '92, a Scisciano, vicino alla sua villa di Prazzolla di Nola, don
Carmine, numero uno della camorra, era latitante da undici anni. Quanto basta per mettere su, attraverso parenti
e prestanome, un vero e proprio impero. Membri della famiglia hanno ottenuto subappalti per la
costruzione di un'officina delle ferrovie in provincia di
Napoli, e una ventina di imprese che coprono l'intero ciclo dell'edilizia si accaparrano tutti gli appalti possibili,
altre imprese lavorano nel business dei rifiuti, nello smaltimento illegale. Il Gico della Guardia di finanza
(Gruppo
investigativo contro la criminalità organizzata) già da anni stava ricostituendo le attività
del clan Alfieri e in più
riprese era riuscito a ottenere il sequestro di beni per un centinaio di miliardi prima che il boss fosse arrestato.
Il
modello economico del clan di Carmine Alfieri è quello già seguito da altri boss della camorra,
come per esempio
Lorenzo Nuvoletta (re del calcestruzzo e degli stupefacenti) o Michele Zaza, alleato di Cosa Nostra, artefice
del
piano Camorra azzurra che mirava al controllo dei casinò. Attualmente Zaza vive vicino a Nizza,
in una villa bunker, attorniato da una quarantina di fedelissimi: il suo
fatturato è stimato in circa 700 miliardi di lire all'anno. Ma sono davvero così ricche le famiglie
mafiose? Secondo
la Criminalpol i più ricchi sono i boss della camorra, i più poveri i pugliesi della Sacra Corona
Unita. L'ultimo
tesoro posto sotto sequestro è quello del clan Madonia di Palermo. Anche qui uno schema ormai usuale:
62
società impegnate in buona parte nel mondo dell'edilizia, 202 immobili, 6 imbarcazioni, 262 autoveicoli,
250
conti bancari, un piccolo quantitativo di azioni dell'Ansaldo Trasporti di Napoli. In tutto i personaggi coinvolti,
quali intestatari dei beni, sono 32. L'ammontare del tesoro sequestrato è di circa 500 miliardi.
L'operazione l'hanno
chiamata "Smascheramento e pulizia". Ma l'iter è appena all'inizio, e non solo nel caso dei Madonia.
Delle grandi
operazioni di sequestro patrimoniale fatte negli ultimi mesi del 1992 non una è passata alla fase
successiva, quella
della confisca.
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