Rivista Anarchica Online
La condizione indecente
di Cristina Valenti
Tre storie di solitudine, emarginazione, vulnerabilità alla base dell'ultimo spettacolo di Danio
Manfredini: Tre
studi per una crocifissione.
Dai suoi spettacoli si esce molto turbati e un po' impauriti. Le chiacchiere del
dopo teatro slittano in un territorio
insicuro: diventa inadeguato il formulario di maniera, fuori luogo il pettegolezzo leggero. Le stente impressioni
scambiate riguardano la verità dell'interpretazione, il trauma del testo, la durezza delle immagini. E
come spesso
accade quando una rappresentazione teatrale si intreccia e si mescola con le zone più oscure e profonde
delle
nostre rappresentazioni psichiche, ecco che la paura del confronto ci fa dire che è lo spettacolo ad essere
imbarazzante, spudorato, inquietante. In verità, ad imbarazzarci e inquietarci è il dialogo fra
i personaggi
interpretati sulla scena e quelli che popolano il nostro palcoscenico interiore. E a farci paura non è la
verità della
rappresentazione, ma la forza della sua apparenza. Esattamente il contrario di quello che solitamente si dice.
E proverò a spiegarmi. Nel suo ultimo spettacolo, Tre studi per una crocifissione,
ispirato all'omonima serie pittorica di Francis Bacon,
Danio Manfredini sceglie tre storie di solitudine, emarginazione e vulnerabilità per porle idealmente
alla base
di una moderna crocefissione, un malato di mente ricoverato in un ospedale psichiatrico, un emigrato che
insegue un incontro con uno sconosciuto nella notte metropolitana, un transessuale che prepara il suo suicidio
annodando ricordi strappati. Il primo testo si basa su appunti personali di Manfredini: conversazioni ed incontri
con i ricoverati di un ospedale psichiatrico dove l'attore tiene da diversi anni un «laboratorio di
creatività»; il
secondo è tratto da La notte poco prima della foresta di Bernard-Marie Koltès e
il terzo è la riduzione in
monologo teatrale del film di Fassbinder Un anno con tredici lune. «Tre soggetti diversi fra loro»
scrive
Manfredini «di cui intuivo un'unità di condizione umana: la vulnerabilità». Il trittico di Bacon
interviene come
«proposta sulla possibile struttura formale del lavoro»: «Volevo tentare qualcosa di simile», spiega, «rendere
sulla scia della brutalità di Bacon la condizione di tre soggetti sociali sacrificati nel nostro tempo».
Bacon ha raffigurato l'uomo e il suo carcere esistenziale in figure d'incubo, contorti ectoplasmi chiusi negli
spazi
alienati della civiltà dei consumi, tra mobili tubolari e arredamenti da clinica. Di questi esseri,
Manfredini ha
saputo ricostruire, sulla sua pelle e sul suo corpo, la condizione «indecente»: anche i suoi personaggi sono
esposti senza pudore a un morboso senso di pietà e insieme di orrore. Il pubblico scopre che a incutere
paura
è la ferita aperta, la vulnerabilità, e non già l'aggressività del diverso,
dell'emarginato, del dannato.
Leggera, fluttuante pensosità La scena è separata dal
pubblico da due corde che si incrociano in una ics. Subito un segno di separazione,
l'indicazione di un microcosmo segregato, oppure cancellato dalla nostra civiltà, con una croce sopra
... croce
come crocefissione, anche, ma snodata e sbilenca, come per un riferimento blasfemo. Di là dalla ics
pochi
oggetti quotidiani: quattro sedie, un tavolino da ospedale, un crocefisso attaccato al muro. Un uomo seduto. La
leggera, fluttuante pensosità dell'alienato mentale. Con una camminata disarticolata si porta sul
proscenio e
cerca un dialogo col pubblico-interlocutore al di là delle corde tese. «Nel mezzo del cammin di nostra
vita mi
ritrovai in una selva oscura, come se avessi visto la morte che di ogni cosa è la più forte... ».
Ricordi sconnessi
della Divina Commedia si mescolano alle rime baciate della goliardica Ifigonia in Culide;
emergono volatili
brandelli di vita («Ho fatto tre anni il chierichetto, ho servito 1.000 messe» ... «30 anni fa lavoravo»), e un
presente fatto di assenze ed animato da incubi ( «Ho fatto un sogno ... sono ai giardinetti, mi chiamo Loredana
... mi chiamo Dafne»). La smorfia intensa è contraddetta dalla vacuità dello sguardo,
l'ingombrante presenza
del corpo è resa leggera dai movimenti scoordinati e ripidi che lo governano quasi inconsapevolmente.
Elenca
quello che ha: un bicchiere, un tavolo, una sedia, gli indumenti che indossa ... «Ho un filin di vita: se volete,
tiratemelo via». II pubblico non ride più. II malato mangia seduto dietro il suo tavolino in fondo alla
scena. La
seggiola sul proscenio forma un'ulteriore grata che ce lo separa. II cibo annoda un flusso di pensieri disperati:
quel che gli hanno tolto, gli insulti che gli rivolgono e che ora grida infantilmente: «finocchio ... pirla ...
cretino». II gelo rimane sospeso nell'aria mentre Manfredini si cambia a vista, lentamente e ritualmente, per
indossare i panni dello straniero del brano di Koltès. Uno spolverino nero aperto su una camicia
a sua volta slacciata sul petto nudo, le mani affondate nelle tasche,
il volto concentrato in un'espressione contratta: di struggimento, di rabbia, di dolore, di nostalgia, di amore?
Inizia una danza su musiche di Bach, un crescendo sfinito e falsamente scomposto che mescola tip tap a passi
di flamenco (lo voglio dire: uno dei pezzi più belli che sia dato vedere a teatro). Sarà che inizia
sotto sforzo, il
monologo sembra provenire da una persona che non è in grado di infingimenti né di difese, e
che non ha tempo
di aspettare, mentre il tempo della notte corre veloce, incalzato dal ritmo martellante del suo cuore che sembra
spezzarsi. Racconta dell'incontro con uno sconosciuto all'angolo di una strada, con l'intimità e
l'abbandono di
chi ha il termine della notte come orizzonte finale, e racconta di un'area metropolitana disperata e calda, fra
puttane costrette a «mangiare la terra» e «ragazzi non troppo forti» per la cui difesa si propone un «sindacato
a scala nazionale». All'inseguimento dello sconosciuto, i pensieri prendono il volo: «corro ... corro ... e sogno
il canto segreto degli arabi fra loro», le mani si liberano dalle tasche e le braccia si lanciano e trascinano il corpo
in una nuova danza. Per il terzo brano indossa un reggiseno, una vestaglia verde, calze scure e scarpe coi
tacchi alti: è il transessuale
che è andato a Casablanca per amore di Kristoff e che al ritorno si trova respinto. Una storia di alcool,
di
prostituzione, di perdita di identità, raccontata fra guizzi ironici e confusa nelle amnesie, fino alle pillole
ingoiate nel finale. La luce si spegne su uno strano, beffardo sorriso: che sembra volersi accattivare una simpatia
e una compassione estreme, e invece, più probabilmente, le regala agli altri, in un gesto di disinteresse
ormai
totale, per sé e per le cose.
Sapiente contraffazione L'interpretazione più corrente del lavoro
di Manfredini è che egli metta in scena se stesso, le sue esperienze,
la sua psicologia, e che per questo risulti così impudente: alla lettera, non misurato negli impulsi, nel
comportamento, nelle espressioni. Per il suo modo di recitare si è parlato di «caos
dell'istintività». E quando ha
dedicato il suo spettacolo a Francis Bacon è sembrato che il riferimento confermasse e avvalorasse tale
interpretazione. Anche per Bacon si tratta di «arrivare alla forma attraverso un processo istintivo,
sorprendente»,
dice Manfredini. II movimento è impresso alle sue creature deformi attraverso masse di colori saturi
che
proiettano la propria immobilità su se stesse col risultato di un'emorragia delle forme, che sembra non
possano
contenere la propria turbolenta, concreta sostanza materica. Ma proprio il riferimento a Bacon è in grado
di
illuminare un processo di elaborazione che non è abbandono istintuale alla verità personale e
neppure alla libera
creazione artistica, ma è piuttosto sorvegliatissima e sapiente contraffazione. Ha scritto di recente
un critico che avvicinandosi alle opere di Bacon è possibile coglierne il «tesoro nascosto»,
che è la bellezza della pittura. Le immagini intollerabili e crude del suo realismo deformato sono
realizzate
attraverso un tratto pittorico lieve e sorvegliato, una mescolanza dei colori perfetta e assai meditata. La forza
tragica dei suoi quadri sta proprio nel segreto di questo contrasto: fra la «violenza dell'impulso» che ci colpisce
e la «lenta misura», la «volontà determinata» che ne è all'origine: tra l'istintività
apparente e l'intima necessità.
Ed è il «tesoro nascosto» che Manfredini ha carpito a Bacon, e che aveva sottratto a Genet nel
Miracolo della
rosa, scoprendo la sostanza delicata e sapiente di quell'autore «scandaloso» e maledetto. In quel caso,
per
mostrare la disperazione di un universo esistenziale crudele e caotico, aveva inseguito un «profumo nascosto»,
un sotto testo lirico in grado di ritessere la trama metrica dei molti spunti casuali: «Sto vivendo nel caos di
queste forze che irrompono nella scena e pretendono in essa di trovare una vita, un ordine ... - scriveva allora
-. Mi guida il profumo che inseguo tra le righe del romanzo: quello delle ghirlande di rose che cingevano i polsi,
le caviglie e la testa dei condannati a morte». Come avviene nell'arte, come avviene nella poesia, l'attore
deve costruire una vita fittizia per la realtà che gli
sta a cuore: deve negarla per trasmetterla. Pessoa scrive che il poeta è un mentitore, che per narrare il
dolore
deve fingere che esso esista. Provare un sentimento non è la via più efficace per
comunicarlo. L'arte non può
semplicemente accogliere i sentimenti e le visioni dell'artista, ma deve dare loro forma, trasformarli in materia
apparente per poterli comunicare. Poi, nel contrasto, o nell'intreccio, tra deformazione e apparenza, tra forma
e caos si compie il miracolo della significazione. Così spiegava Bacon: «Io voglio deformare la cosa
al di là
dell'apparenza ma nello stesso tempo voglio che la deformazione registri l'apparenza». Attraverso la
deformazione, e non la restituzione immediata o spontanea della cosa, è possibile registrarne l'apparenza
e
insieme comunicarne il tormentato «al di là».
Le rughe di Emma Gramatica Durante un incontro con gli studenti del Dams,
prima del suo spettacolo, Manfredini ha ridimensionato con
fermezza il fatto di mettere in scena frammenti biografici o personaggi legati al suo vissuto. E' vero: usciamo
dai suoi spettacoli toccati dalla verità della rappresentazione proprio per lo straordinario tesoro di arte
interpretativa che nasconde, che fa sembrare l'apparenza più vera del vero, e domina la tecnica con un
tocco
trasparente e leggero, tale da mantenere in vita quel «processo istintivo e sorprendente» che si è
condensato in
forma. L'universo fittizio della scena, sempre inadeguato come specchio del mondo, è però in
grado di
aggiungere qualcosa alla comprensione dello stesso, magari attraverso pennellate sapienti e deformanti, che ne
alterino i falsi equilibri creando squarci e prospettive sghembe. I grandi attori del passato l'avevano capito, che
il percorso dell'interpretazione non è mai rettilineo, che la verità a teatro è meno
efficace della forma. C'è un
aneddoto su Emma Gramatica che credo piacerebbe a Danio Manfredini: ormai anziana, l'attrice doveva
interpretare un personaggio esattamente della sua età, e si recava in camerino con buon anticipo, tutte
le sere,
per cancellare dal suo volto i segni degli anni e poi ridisegnare sulla superficie del cerone delle rughe finte per
la scena. Come il poeta, l'attore è un mentitore che deve fingere le rughe che ha per poterle
comunicare.
Centri sociali, ospedale psichiatrico, carceri,
ecc. Danio Manfredini inizia la sua attività teatrale nel 1975 frequentando
i laboratori di sperimentazione nati nei
centri sociali di Milano durante il periodo delle occupazioni edilizie. Nel Centro Sociale Santa Maria lavora con
Cesar Brie, proveniente dal gruppo Comuna Baires di Milano. E' attraverso l'attore argentino (che
entrerà di
lì a poco nell'Odin Teatret) che Danio Manfredini conosce il lavoro di Iben Nagel Rasmussen, con la
quale
studia le tecniche di trainig. Negli anni '80 realizza La crociata dei bambini, lavoro ispirato
a un poema di Brecht, di cui è interprete unico,
e Notturno, in collaborazione con il Tico Teatro. E' dell'89 lo spettacolo che lo ha fatto
conoscere, Il miracolo della rosa (Premio Ubu 1990), liberamente tratto
dall'omonimo romanzo di Genet, di cui Manfredini è ideatore, interprete e regista. Nell'89 presenta
La vergogna, ispirato a Genet e Pasolini: «Sono approdato di nuovo a Genet e in particolare,
per molti aspetti, alla struttura drammaturgica di Pompe Funebri, attratto più che dalla
trama, dalle tematiche
affrontate: l'amore, la perdita, il dolore, il tradimento, la vergogna, la solitudine. Sono approdato a Pasolini, alla
sua poesia non esente dalle esperienze di umiliazioni e vergogne. I suoi ritratti della marginalità, le
periferie». Tre studi per una crocifissione ha debuttato nel luglio del '92 all'interno delle
manifestazioni di «Milano
Estate» ed è stato rifinito e rielaborato durante lo scorso inverno. Ispirato all'omonimo trittico del pittore
Francis
Bacon, si compone di tre brani, su testi dello stesso Manfredini, di Koltès e di Fassbinder. «Una frase
mi ha
accompagnato nella scelta dei materiali dello spettacolo: "Ho un filin di vita...se volete, tiratemelo via"; seppur
in modo diverso, essa ha influenzato l'elaborazione delle scene». Mentre continua il suo lavoro laboratoriale
nei centri sociali milanesi (e in particolare al Leoncavallo),
Manfredini conduce da qualche anno un «laboratorio creativo» coi malati di mente in un ospedale psichiatrico.
Si è conclusa anzitempo, invece, per indisponibilità a un controllo troppo pressante, la sua
esperienza di lavoro
teatrale nelle carceri.
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