Rivista Anarchica Online
Lettera a un'amica
Cara Patrizia, supponendo che dell'esperanto tu ignori quasi tutto ti inviai sull'argomento
le due interviste a
Umberto Eco e Andrè Martinet, nella speranza di evitarti il consueto trabocchetto aristotelico:
l'Infallibile
Deduzione dall'Inviolabile Principio. Invece ci sei inciampata ugualmente, a conferma che anche le menti
più
agili, come la tua, difficilmente sfuggono all'insidia del sillogismo perfetto. Lo strologo capitò una
notte sulla torre Molin, dove il Galileo quietamente osservava il cielo col cannocchiale
nuovo di zecca. - O che tu fai costassù ? - disse nel tono bonario che si usa con i balenghi. -
Guardo le montagne della luna - disse tranquillo il Galileo. - Ma che tu dici, matto? - disse lo strologo
toccandosi la fronte - tu lo sai bene che la luna argentea è priva di
imperfezioni, come stabilì il Nostro; montagne non ce ne possono essere, e quand'anche ce ne fossero
non
potrebbero di certo entrare in quel tuo tubicino miserello. Dunque non farmi sbellicare con codeste tue fandonie
e parla serio, come si conviene a un dotto. - Se vuoi vedere, guarda tu stesso, caro - disse il Galileo, che
quella notte era d'umore singolarmente dolce. Dopo molti sghignazzi lo strologo posò l'occhio
sull'oculare e tosto si ritrasse pavonazzo come un tacchino al
fischio: - Ombrature sinistre, forse magia nera! Scusami caro, s'è fatto tardi, servo tuo .. , - e veloce
si eclissò avendo
fiutato d'istinto l'eresia. Se tu avessi scritto «l'esperanto non mi piace», oppure «l'esperanto, parlato da
pochi, non è diventato LA vera
lingua internazionale», o anche «l'esperanto è una deviazione idealistica figlia del pacifismo
piccolo-borghese
e del cosmopolitismo massonico-filosionista», non avrei niente da ridire, ognuno ha i suoi gusti e le sue
categorie. Ma tu dici cosa molto più tranciante: «Non credo possano esistere lingue che non
incarnino i rapporti di potere
in una società (mondo) dove i rapporti non siano fatti saltare» è un perfetto sillogismo classico,
modello B-2
accessoriato: 1. Ogni lingua incarna i rapporti di potere in una società; 2. L'esperanto non incarna
rapporti di potere in una
società; 3. L'esperanto non è una lingua. E così fu liquidato il poveretto con un
colpo di B-2 alla nuca. Che dire, che fare? Il momento è grave. Dovrei
porgerti il cannocchiale (darti informazioni). Ma costa tempo e fatica, e tu fuggiresti a gambe levate a
raggiungere lo strologo. Mi limiterò a questo: parlo, ascolto, scrivo, leggo esperanto da 50 anni; ho
percorso
l'Europa parlando esperanto molto più che svedese, bulgaro, francese e inglese, che pure conoscevo
bene; è stato
la mia lingua famigliare quotidiana per 21 anni (58/79); è tuttora la mia prima lingua di comunicazione
con
Ljuska, amici, figli (per Raul e Serena è lingua materna); in esperanto ho pensato, sognato, fatto
all'amore,
litigato, lottato politicamente; lo considero lingua flessibile, elegante, di affascinante struttura «agglutinante»
(vicina al cinese), di buona qualità sonora, precisa e capace di esprimere le più sottili sfumature
del pensiero;
ne apprezzo la letteratura sia originale che tradotta, e in particolare la poesia ... e qui mi fermo, non volendo
infliggerti altre ombrature sospette. Se ti è antipatico, o non ti interessa, niente di male. Ma se dici «non
è una
lingua» ti assimili allo strologo e deludi gli amici. Mi spiace che tu non abbia colto al volo il cuore
dell'esperanto, quella «interna ideo» che lo ha preservato
dall'estinzione rendendo possibile la metamorfosi da progetto a lingua. Idea adiacente al comunismo libertario
e all'anarchia, fondata sul presupposto che a ogni essere umano deve essere garantita la parità nei diritti
fondamentali. In particolare la parità di comunicazione e di espressione. «Ci si può sentire
internamente colpiti
dalla necessità che tutti gli uomini possano capirsi alla pari; si può avere della realtà
un concetto ideale che
esclude le incomprensioni e i conflitti linguistici» dice il Martinet. Un'esigenza etica egualitaria-universalistica.
Non a caso l'esperanto ha spesso attratto menti gravitanti in questa area ideale (Tolstoj, Barbusse,
Mao-Ze-Dong, Charlie Chaplin, Romain Rolland, Mark Twain, Tito, Pinelli...); è vero: l'esperanto non
lo si impara per
necessità, né viene imposto dalla nascita o dalla scuola; lo si impara e parla per libera scelta
mentale, analoga
a quella che motivò il ventenne «ebreo laico» Zamenhof, del ghetto di Varsavia, nel 1887. Ecco
perché lo si
sente «proprio» più di qualsiasi altra lingua. Da qui la sua sorprendente tenuta nel tempo e nello spazio
e la sua
refrattarietà a lasciarsi incatenare ai banchi scolastici. Imposto da uno Stato in una Scuola, l'esperanto
avvizzisce
trasformandosi fatalmente in «Oggetto Odioso» alla pari di qualsiasi Oggetto-Scuola. Così
già avvenne in diversi paesi del «socialismo reale», così avverrà in Europa se i tentativi
dei bottegai
radicali avranno successo (cosa, per fortuna, assai improbabile). C'è incompatibilità fra
l'esperanto e l'Istituzione
Coatta. L'esperanto è una lingua del desiderio; se il desiderio manca, è giusto ignorarlo.
Ed è giusto che per
sopravvivere si impari l'inglese, la lingua dei padroni del mondo. Ma non si vive di solo pane, io voglio anche
le rose. Per finire osservo che il tuo concetto di lingua come «incarnazione dei rapporti di potere in una
società»
coincide con quello stabilito da Iosif Visarionovic Dzugasvili in uno dei suoi numerosi catechismi degli anni
'30 (il buon uomo gareggiava in onniscienza con il Pacelli). Purtroppo da tali scientifiche certezze l'energico
dedusse misure rigorose, com'era nel suo costume e potere: nel giro di pochi anni gli esperantisti dell'Unione
furono internati nei centri rurali di rieducazione ideologica in quanto affetti da pericolosissime deviazioni
idealistiche borghesi (cosmopolitismo massonico, pacifismo neutralista, filosionismo ... ). Molti morirono prima
del completamento della terapia, altri uscirono a fine anni '50 con le prime mitigazioni. Del resto, un nonnulla
a paragone del trattamento riservato agli esperantisti dal buon Adolf ... (tra l'altro, l'intera discendenza di
Zamenhof in Polonia fu sterminata dai nazisti). Questi e infiniti altri episodi tramandati da generazione a
generazione, depositati nella narrativa, cantati dalla poesia, costituiscono la memoria collettiva della
comunità
esperantista: è l'anima, la «filosofia» della lingua, come acutamente hanno colto Umberto Eco e
Andrè Martinet.
Certo, si tratta di una cultura minoritaria, fuori-mercato (finora, e spero per sempre), ignorata dai media, priva
di potere. Una «cultura subalterna», direbbe il Gramsci. Ma che vuoi, nel mondo ci sono anche dei matti (pochi)
che alle «culture egemoni» (siano linguistiche o culinarie o manageriali o «socialiste scientifiche») ci pisciano
sopra, con rispetto parlando. Porta pazienza e sopportali. "Kaj mi kuniros. Ne pro diordono, sed pro
persona, pela kredbezono. Pri pacebleco kredi mi preferas, jen cio.
Kaj la lingvo rave belas ... Kai vi, praktika homo - nu, praktiku. Zorgu, ke via ventro ne maldiku.
Ni fosu nian propran sulkon kaj la sort' decidu. Gis!» (da "Eklogo pri la sankta afero», William
Auld, London 1957) («E andrò insieme. Non per ordine divino, ma per un personale, pressante
bisogno di credere. Preferisco credere
a una possibilità di pace, ecco tutto. E la lingua è fascinosamente bella ... E tu, uomo pratico
- ebbene, pratica.
Abbi cura che il tuo ventre non si sgonfi. Ognuno scavi il proprio solco e la sorte decida. Arrivederci!»).
Filippo Franceschi (Villò)
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